venerdì 14 settembre 2012

Tale Figlio, tale Madre


Di seguito riporto due prediche del p. Cantalamessa ofmcapp. sulla figura della Beata Vergine Maria Addolorata, al cui memoria liturgica celebriamo oggi 15 settembre. Buona lettura.


“Stabat”
Gv 19,25-27

di p. R. Cantalamessa 

Maria la “pura agnella”
Come Cristo nel Getsemani e sulla croce così Maria ha bevuto anch’essa il calice della passione. Era accanto a Cristo in quelle ore di tormento: ha visto tutto, ha udito tutto… Sue sono le parole di Geremia: “O voi tutti che passate per la via, considerate e osservate se c’è un dolore simile al mio dolore” (Lam 1,12).
Sotto la croce sono menzionate quattro donne. Tutte sono raccolte ai piedi del patibolo. Maria non era dunque sola, tuttavia ella è lì come “sua madre”: è una situazione totalmente diversa dalle altre donne. E’ il dolore della madre che si vede strappare l’unico figlio. Come ha vissuto Maria quelle ore di agonia accanto al Figlio?
Di Maria non ci sono riferiti grida o lamenti, come quelli delle donne che accompagnano il corteo dei condannati (Lc 23,27). La presenza di Maria sotto la croce è avvolta da un profondissimo silenzio: le parole non bastano più, ora sono superflue.
Maria fu tentata in quel momento nella fede? Lo fu come Gesù stesso fu tentato nel deserto. Una tentazione profondissima e dolorosissima perché aveva come motivo proprio il Figlio depositario di tutte le promesse.
In quelle ore vede Gesù che non fa nulla. Liberando se stesso libererebbe anche lei da quel straziante dolore: ma non lo fa. Ma Maria non grida come tutti gli altri: “Scendi dalla croce; salva te stesso e me”! oppure: “Hai salvato gli altri, perché non salvi te stesso figlio mio?”. Non si sarà affacciato questo pensiero al suo cuore di madre?
In quelle ore Maria sta accanto all’Agnello, come “pura agnella” (autore del III sec). Si unisce al sacrificio di Cristo, nella fede si abbandona alla volontà del Padre seppur così incomprensibile: “Anche la beata Vergine ha avanzato nel cammino della fede e gha conservato fedelmente la sua unione con il Figlio sino alla croce, dove, non senza un disegno divino, se ne stette ritta, soffrì profondamente col suo Figlio unigenito e si associò con animo materno al sacrificio di lui, amorosamente consenziente all’immolazione della vittima da lei stessa generata” (LG 58).
Capiamo allora come Maria non sta “presso la croce” di Gesù solo in senso fisico, ma soprattutto in senso spirituale..
Era unita alla croce di Cristo. Soffriva nel suo cuore quello che il Figlio soffriva nella sua carne. Si realizzano in profondità le parole profetiche del vecchio Simeone: “Una spada trapasserà la tua anima e renderà manifesti i pensieri di molti cuori” (Lc 2,35). Anche il cuore di Maria viene trafitto e svelato dal mistero della croce!
Se a Cana Gesù dice: “Che c’è tra me e te, o donna, non è giunta ancora la mia ora” (Gv 2,4), sul Calvario l’”ora” è giunta, e lì c’è la Madre: tra loro un’intimissima comunione di sguardo, di fede, di amore, di sofferenza. Gesù è consolato dalla presenza della Madre e su di lei fissa lo sguardo per trovare forza. Quale mistero in quegli occhi che si incrociano?
Sul calvario Gesù e Maria divengono una cosa sola: portano insieme il peso del dolore e del peccato del mondo. Gesù direttamente in quanto vittima di espiazione per i peccati di tutto il mondo, Maria indirettamente per la duplice unione, carnale e spirituale, con il Figlio.
Insieme adorano la volontà misteriosa del Padre: Maria segue Gesù nella sua offerta: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 22,46).
A lei viene chiesto un passo difficile: quello di perdonare. E’ Gesù che la invita a questo quando dice: “Padre perdonali, non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). Capì in quel momento che il Padre le chiedeva di fare la medesima cosa. E la fece: perdonò gli uccisori del Figlio.
Stare presso la croce di Gesù
Maria è figura e specchio della Chiesa e di ogni anima credente.
Nella “notizia” della sua presenza ai piedi della croce è contenuta una “parenesi”. Quello che avvenne quel giorno indica quello che deve avvenire ogni giorno: bisogna stare accanto a Maria presso la croce di Gesù, come ci stette il discepolo che egli amava.
Facciamo attenzione a due aspetti della frase:
primo: bisogna stare “accanto alla croce”
secondo: “di Gesù”.
Anzitutto ci viene detto che la cosa più importante da fare non è stare presso la croce “in genere”, ma stare presso la croce di Gesù. Non basta perciò stare presso la croce, cioè nella sofferenza, magari in modo eroico e silenzioso. L’aspetto decisivo è stare presso la croce “di Gesù”: perché ciò che conta e salva è la sua croce.
E’ qui tutta la forza e fecondità della Chiesa e di ogni credente.
Ciò significa entrare in un modo diverso di guardare la vita, il mondo, la gioia, il dolore, la sofferenza. La croce invita ad una conversione perché indica una strada che apparentemente è stoltezza e debolezza mentre in Dio essa è sapienza e forza.
Qual è il segno e la prova che si crede realmente nella croce di Cristo, che “la parola della croce” non è, appunto, solo una parola, cioè un principio astratto, una bella teologia o ideologia, ma che è veramente croce? Il segno e la prova è prendere la propria croce e andare dietro a Gesù (Mc 8,34).
È fare della propria vita “un sacrificio vivente”, accettando e ricercando la croce come partecipazione al mistero pasquale.
La nostra partecipazione alla passione di Cristo non è ovviamente da porsi sullo stesso piano di quella stessa del Signore. Ma di accogliere il fatto che la fede va unita alla opere altrimenti è morta (Gc 2,14s).
La fede stessa passando attraverso la croce viene sempre più purificata e autenticata.
La nostra croce in se stessa non è salvezza, né potenza né sapienza: per se stessa è pura opera umana, o addirittura castigo. Ma diviene potenza e sapienza di Dio in quanto ci unisce alla croce di Cristo non in modo intellettuale, spiritualistico o intimistico: ma in modo “carnale”. Entro “nello spessore della croce” con tutto me stesso.


                                                                            * * *

"Figlio, ecco tua madre!"
di p. R. Cantalamessa ofmcapp.

1. La Chiesa e Maria

“Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell'acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Ef 5, 25-27).

C’è sempre stata la tendenza a identificare questa immagine di Chiesa “tutta gloriosa, santa e immacolata” con la Chiesa celeste, del compimento finale. Uno dei più grandi esegeti dell’antichità, Teodoro di Mopsuestia, imposta tutta la sua lettura di Efesini in questa luce. Scrive:

“È evidente che ‘santi e immacolati’, come lo intende Paolo, lo saremo nel secolo futuro per l’operazione dello Spirito: allora questi doni appariranno nella loro realtà, mentre ora siamo soltanto nella promessa di conseguirli, mediante la fede”.

Una distinzione così radicale tra la Chiesa del presente e quella del futuro, come due stati completamente diversi, uno fondato sulla speranza e l’altro sulla realtà, non corrisponde al pensiero della Lettera agli Efesini e del Nuovo Testamento in genere. La Chiesa è già il corpo di Cristo, “la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose” (Ef 1, 23); forma già “un solo Spirito” con lui. Il dono dello Spirito non lo possediamo dunque solo in speranza, ma in realtà, anche se a modo di primizia.

La Chiesa è stata già “santa e immacolata” nella sua fase terrena, almeno in uno dei suoi membri, la Madre di Cristo che la cristianità orientale onora con il titolo, appunto, di “Tutta santa” (Panhagia) e quella occidentale con il titolo di “Immacolata”. Lo è, in grado diverso, in coloro che la Chiesa ha riconosciuto come modelli di santità.

È la schiera di santi che, intorno a Maria e sotto la Trinità, formano la Gerusalemme celeste che contempliamo davanti a noi in questa cappella. Santi orientali e santi occidentali mescolati insieme e suddivisi in triadi. Chiesa orientale e Chiesa occidentale riunite nell’arte, in attesa del giorno in cui saranno, speriamo, pienamente riunite anche nella vita.

La Lumen gentium, ripresa, in questo punto, dall’enciclica Redemptoris Mater, dice:

“Mentre la Chiesa ha già raggiunto nella beatissima Vergine la perfezione, con la quale è senza macchia e senza ruga (cf. Ef 5,27), i fedeli si sforzano ancora di crescere nella santità debellando il peccato; e per questo innalzano gli occhi a Maria, la quale rifulge come modello di virtù davanti a tutta la comunità degli eletti” .

C’è una tradizione iconografica, diffusa nell’Italia centrale, che identifica addirittura la Chiesa sposa di Cristo di Efesini 5 con Maria. La Vergine appoggia il capo sulla spalla di Cristo, che le cinge teneramente il collo, mentre le loro mani si uniscono sul davanti. Viene applicata a Cristo e a Maria la parola del Cantico dei cantici: “La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia” (Ct 2,6) .

Tutto ciò ha un fondamento biblico. Maria e la Chiesa sono entrambe viste come la nuova Eva e la nuova “figlia di Sion”, che impersona la comunità della nuova alleanza, al punto che l’esegesi ha difficoltà a stabilire se la Donna “vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi”, di Apocalisse 12, indichi Maria o la Chiesa. “La donna, commenta in proposito la Bibbia di Gerusalemme, rappresenta il popolo santo dei tempi messianici (Is 54; 60; 66,7; Mi 4, 8-10) e quindi la Chiesa in lotta. Ma forse Giovanni pensa anche a Maria, nuova Eva, la figlia di Sion, che ha dato vita al Messia (cf. Gv 19, 25)”.

“Presso la croce di Gesù stava Maria sua Madre”. Questa volta è Adamo che offre a Eva il frutto dell’albero della vita da mangiare e il frutto è la perfetta obbedienza alla volontà del Padre. Quando Maria sentì che il Figlio dalla croce diceva: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23, 46) non poté non sentirvi un invito rivolto a lei a seguirlo su questa strada e si mise ad adorare in cuor suo la imperscrutabile volontà del Padre.

“Soffrendo col Figlio suo morente in croce, Maria cooperò in modo tutto speciale all’opera del Salvatore, con l’obbedienza, la fede, la speranza e l’ardente carità, per restaurare la vita soprannaturale delle anime. Per questo fu per noi madre nell’ordine della grazia”.

Questo è il senso delle tante espressioni che parlano di Maria come “figura o tipo della Chiesa”, “specchio della Chiesa”, “primizia della Chiesa”, “Chiesa allo stato nascente”. S. Francesco d’Assisi ha un’espressione pregnante; chiama Maria “la Vergine fatta Chiesa” .

2. La Chiesa madre

Ciò per cui Maria “impersona” più direttamente la Chiesa è il fatto che entrambe sono madri di Cristo. Agostino lo ha spiegato più chiaramente di tutti:

“La Chiesa è vergine però partorisce. Assomiglia a Maria che partorì il Signore. Forse che santa Maria non partorì da vergine, e vergine rimase tuttavia? Così anche la Chiesa partorisce ed è vergine. E se consideri bene, anch’essa partorisce il Cristo, perché sono membra di Cristo quelli che vengono battezzati […]. E se partorisce membra di Cristo, essa è somigliantissima a Maria (Mariae simillima)”.

Tutta la tradizione lo seguirà in questa linea, fino alla sintesi della Lumen gentium:

“Maria e la Chiesa, sono una madre e più madri…Quella, senza alcun peccato, partorì al corpo il Capo; questa, nella remissione di tutti i peccati, partorisce il corpo al Capo. Entrambe madri di Cristo, ma nessuna partorisce il tutto senza l’altra”. Per questo, nelle Scritture divinamente ispirate, ciò che si dice in modo universale della Vergine Madre Chiesa, lo si intende in modo singolare della Vergine Madre Maria” .

Il confronto con Maria ci permette così di fare un passo avanti nella contemplazione della Chiesa, rivelandone il volto “materno”. Esso aggiunge qualcosa di importante alle images di edificio, di corpo e di sposa con cui ce l’ha finora presentata la Lettera agli Efesini. L’immagine della costruzione mette in luce il progressivo divenire della Chiesa nella storia della salvezza, quella di corpo la sua unità vitale con Cristo, quella di sposa la sua alterità rispetto a Cristo, quella di madre la sua causalità, o mediazione, nei confronti delle membra del corpo di Cristo.

Il battistero, dicevano i Padri, è il seno in cui la Chiesa da alla luce i suoi figli e la parola di Dio il latte puro con cui li nutre:

“O prodigio mistico! Uno è il Padre di tutti, uno anche il Verbo di tutti, uno e identico dappertutto è anche lo Spirito Santo e una sola è la Vergine Madre: così io amo chiamare la Chiesa. Pura come vergine, amabile come madre, chiamando a raccolta i suoi figli, li nutre con quel sacro latte che è la parola destinata ai bambini appena nati (cf. 1 Pt 2,2)” .

Il battistero, dicevo, è il seno della Chiesa. Non però il seno da cui si esce e che si abbandona nascendo, ma il seno in cui si entra e ci si “annida” al momento di essere concepiti. La nostra vita in questo mondo è vita da embrione, in gestazione. Veniamo veramente “alla luce” il giorno che passiamo dall’oscurità della fede alla visione. (La liturgia lo chiama per questo “giorno natalizio”, dies natalis).

Il rapporto vitale che esiste tra il feto e la madre sul piano biologico, è lo stesso che esiste tra il cristiano e la Chiesa sul piano soprannaturale. Attraverso la madre il feto riceve l’ossigeno, l’alimento, il sangue, tutto…Questo il contenuto del titolo di “madre” dato alla Chiesa, un titolo, come si vede, dal contenuto non solo devozionale, ma profondamente teologico.

Alla luce di questi sviluppi della tradizione, riascoltiamo la parola di Gesù a Giovanni: “Figlio, ecco tua madre!”, e ci accorgiamo che essa contiene dell’altro. Vuol dire anche: “Figlio, ecco tua madre, la Chiesa!”.

3. Il secolo della Chiesa?

Sorge subito una domanda: cos’è per me la Chiesa? È davvero madre? È nota l’affermazione di S. Cipriano: “Non può avere Dio per padre chi non ha la Chiesa per madre” . Noi credenti e uomini di Chiesa ci lamentiamo spesso, e giustamente, che il mondo e i suoi mass-media non riescano ad andare mai oltre la scorza della Chiesa per cogliere in essa anche il mistero di grazia, la sua realtà spirituale; di non vedere, di essa, che il risvolto politico, sociale, indulgendo al “pettegolezzo” sulla Chiesa, più che cercare di capirne l’essenza.

Ma è solo il mondo a cadere in questo errore, o non siamo spesso anche noi figli della Chiesa, specie quelli che vivono a più stretto contatto con essa e con le sue strutture umane? Qualcuno ha detto che “nessun uomo è grande agli occhi del proprio cameriere” e noi siamo un po’ i camerieri della Chiesa, quelli che la vedono, per così dire, “dentro casa”, nei suoi aspetti più umani e meno gloriosi.

Per una verifica, basta porsi la domanda. Che cosa evoca di primo acchito in me la parola “Chiesa”? Tutto quello che ci ha detto la Lettera agli Efesini, o invece quasi solo persone, incarichi, problemi, torti ricevuti…Sappiamo cosa intende, purtroppo, il mondo quando sente pronunciare la parola “Chiesa”; intende “il Vaticano”, oppure “la gerarchia: papa, vescovi e sacerdoti”! Noi rischiamo di adeguarci a questo equivoco, se non addirittura di provocarlo.

I Padri hanno applicato congiuntamente a Maria e alla Chiesa il versetto del salmo 45 (l’epitalamio regale!) che, nella versione da essi conosciuta diceva: “Tutta la bellezza della figlia del re viene dall’interno” (omnis gloria filiae regis ab intus)” . La bellezza della Chiesa è la grazia di cui anche lei, come Maria, è “piena”. La grazia è nella Chiesa come la perla nell’ostrica. La differenza è che qui non è l’ostrica che produce la perla, ma la perla che produce l’ostrica; non è la Chiesa che genera la grazia ma la grazia che genera la Chiesa.

Succede con la Chiesa come con la vetrata di una cattedrale gotica. Io l’ho notato la prima volta visitando la cattedrale di Chartres. Se si guarda dall’esterno, dalla pubblica via, la vetrata non è che un insieme di pezzi di vetro scuri, legati tra loro da strisce di piombo altrettanto scure. Ma se si entra dentro la cattedrale e si guarda la stessa vetrata contro luce, dall’interno, che spettacolo di colori, di figure, di senso! Dobbiamo collocarci dentro la Chiesa per comprenderne il mistero. Dentro, non solo istituzionalmente, ma con il cuore.

Nel Museo Lateranense si conservano due frammenti della famosa iscrizione di Abercio, la “regina delle iscrizioni cristiane”, come è stata definita dagli archeologi. Al termine della vita, un cristiano di Gerapoli, in Asia Minore, della fine del II secolo, fa incidere sulla pietra il suo epitaffio. In esso, con un linguaggio velato e da disciplina dell’arcano, a causa delle persecuzioni in atto, racconta quello che ha visto nei suoi viaggi per il mondo. Vale la pena di conoscerlo perché ci fa vedere con che occhi si potrebbe guardare anche oggi la Chiesa:

“Di nome Abercio, sono discepolo di un venerando Pastore […] Questi mi insegnò le Scritture fedeli, mi mandò a Roma a contemplare la maestà sovrana, a vedere una regina dalle vesti d’oro e dai calzari d’oro. Vidi anche un popolo che aveva uno splendido sigillo […]. Dovunque trovavo dei fratelli. Avevo per compagno Paolo, la fede mi guidava dappertutto. Dovunque ella mi procurò come cibo un pesce di acqua sorgiva, grandissimo, purissimo, pescato da una vergine immacolata. Ella [la Chiesa] lo dava incessantemente da mangiare agli amici; ella possiede un vino delizioso che dona insieme con il pane” .

Che freschezza di sguardo sulla Chiesa, che stupore di fronte al suo mistero! Per Abercio, la Chiesa è il popolo che possiede uno splendido sigillo (il battesimo), che ha Cristo come suo pastore, la fede e le Scritture per guida, l’Eucaristia (il pesce di acqua sorgiva) per nutrimento; la Chiesa è avere fratelli dappertutto.

All’inizio del secolo ventesimo si predisse che esso sarebbe stato “il secolo della Chiesa”, il secolo in cui si sarebbe ripreso coscienza della sua importanza, dopo il lungo silenzio del periodo illuminista e liberale. Questo si è certamente avverato a livello teologico. Non si contano gli studi apparsi nel frattempo sulla natura della Chiesa. Karl Barth ha dato alla sua teologia il nome di “dommatica ecclesiastica”; il concilio Vaticano II ne ha fatto il punto focale della sua riflessione; vi è stata la “Ecclesiam suam” di Paolo VI. Ma è cresciuto proporzionalmente anche l’amore per la Chiesa?

Ci si stupisce, a volte, nel costatare come, per tutta l’era patristica e medievale, sia “difficile trovare una sola opera che si possa considerare uno studio sulla Chiesa in quanto tale” e come si sia dovuto aspettare la Riforma, prima di avere un trattato specifico De Ecclesia. La ragione è semplice: non si sente il bisogno di spiegare ciò che si vive. Il pesce non ha bisogno che qualcuno gli spieghi come è fatto il mare: ci vive immerso dentro.

A S. Ambrogio è attribuita la frase: “È nelle anime che la Chiesa è bella”. Sua o no, la frase riflette da vicino la formula, a lui tanto cara, “Ecclesia vel anima”, la Chiesa e l’anima , che sottolinea la parentela tra le due realtà. Il rischio è di cercare la Chiesa nei libri -o, peggio, nei giornali - più che nelle anime e di non scoprire mai, così, il suo vero mistero.

4. “Cristo nulla vuole rimettere senza la Chiesa”

Il titolo con cui la Chiesa si raccomanda maggiormente al nostro amore filiale e alla nostra riconoscenza è che essa è il luogo della remissione dei peccati. Dal momento che tutto il cammino quaresimale dovrebbe concludersi con una buona confessione, vale la pena di soffermarci a riflettere un po’ su questo punto.

Nella Chiesa facciamo l’esperienza rigenerante di essere perdonati dai peccati. “Nulla può rimettere la Chiesa senza Cristo e Cristo nulla vuole rimettere senza la Chiesa. Nulla può rimettere la Chiesa se non a chi è pentito, cioè a colui che Cristo ha toccato con la sua grazia; Cristo nulla vuole ritenere per perdonato a chi disdegna di ricorrere alla Chiesa” .

È vero, come nota S. Ambrogio, che “nella remissione dei peccati la Chiesa svolge un ministero, non esercita alcuna potestà propria, poiché è per lo Spirito Santo che sono perdonati i peccati” ; ma è vero anche che si tratta di un ministero voluto da Cristo e dunque non sostituibile.
Nella sua autobiografia, il convertito Gilbert K. Chesterton ha scritto:

“Quando la gente chiede a me o a qualsiasi altro: ‘Perché vi siete uniti alla Chiesa di Roma?’, la prima risposta è: ‘Per liberarmi dai miei peccati’. Perché non v’è nessun altro sistema religioso che dichiari veramente di liberare la gente dai peccati […] Ho trovato soltanto una religione che osasse scendere con me nella profondità di me stesso”.

A chi lo spingeva a rompere con la Chiesa istituzionale che lo osteggiava, Don Milani rispondeva: “Noi la Chiesa non la lasceremo perché non possiamo vivere senza i suoi sacramenti e senza il suo insegnamento”. “In questa religione c’è tra le altre cose importantissimo, fondamentale, il sacramento della confessione, per il quale solo, quasi per quello solo, sono cattolico, per continuamente avere il perdono dei peccati, averlo e darlo”.

Il sacramento della riconciliazione è il momento in cui viene riconosciuto il massimo di dignità al singolo credente. In ogni altro momento della vita della Chiesa, il fedele non è che uno della massa: uno di coloro che ascoltano la parola, uno di coloro che ricevono il corpo di Cristo; qui egli è unico, la Chiesa esiste, in quel momento, tutta e solo per lui.

Il modo di purificarsi dai peccati mediante la confessione corrisponde, del resto, a un bisogno naturale e profondo della psiche umana che è di liberarsi da ciò che la opprime, manifestandolo, portandolo alla luce. La stessa pratica della psicanalisi si basa in parte su questo principio, ne costituisce la conferma e, a volte, il surrogato. Con una la differenza però: alla fine della seduta il sacerdote ti da l’assoluzione, lo psicanalista ti presenta… il conto.

Per diventare efficace e risolutivo nella lotta contro il peccato, bisogna però che il nostro modo di accostarci a questo sacramento sia rinnovato “nello Spirito”. Questo significa vivere la confessione non come un rito, un'abitudine, o un’imposizione, ma come un incontro personale con Cristo risorto che ci permette di toccare le sue piaghe, sperimentando la forza risanatrice del suo sangue e “la gioia di essere salvati”.

È consigliabile lasciare, qualche volta, da parte il nostro schema abituale di esame di coscienza (rimasto forse immutato dal tempo in cui eravamo bambini o giovani) e andare diritti al punto. “Qual è, Signore, la cosa che ti è veramente dispiaciuta in me, nel tempo trascorso dall’ultima confessione?”. Io non ho formulato mai questa domanda senza avere quasi subito la risposta …

L’episodio evangelico che ci ha accompagnato in questa meditazione termina con la notizia: “E da quel giorno il discepolo la prese con sé”. Anche questa parola vale congiuntamente per Maria e per la Chiesa ed è un rinnovato invito a prendere “con noi”, “tra le cose più care” (eis ta idia), la Chiesa. La Quaresima è tempo di conversione e io, quest’anno, ho chiesto per me al Signore la grazia della conversione alla Chiesa.

Terminiamo con la bella dossologia della Lettera agli Efesini:

“A colui che in tutto ha potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare, secondo la potenza che già opera in noi, a lui la gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni, nei secoli dei secoli! Amen”(Ef 2,20-21).

(p. Raniero Cantalamessa ofmcapp., IV Predica di Quaresima 20.03.2003)