sabato 1 settembre 2012

Un uomo della Parola

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Riporto da "La Stampa", 1 settembre 2012
a firma di ENZO BIANCHI
     Se n’è andato accompagnato dalla preghiera di tutta la diocesi, dei suoi confratelli gesuiti, di quanti lo hanno amato e gli sono stati vicini durante il suo ministero pastorale e gli ultimi anni segnati dalla malattia e dal progressivo affievolirsi della voce e delle forze. Se n’è andato accompagnato anche dal pensiero grato – forse anche dalla preghiera – di tanti che cristiani non sono e nemmeno credenti, ma che hanno trovato in lui un pastore, un padre, un amico, un confidente. Ci ha lasciato da un letto di malattia, luogo dove aveva voluto chiudere il suo ministero di vescovo a Milano: negli ultimi mesi del suo episcopato si recava ogni giorno, nel silenzio e nella discrezione, a salutare uno per uno i suoi presbiteri ammalati, andandoli a trovare nelle loro case, negli ospedali, nei luoghi di cura... Del resto, proprio dagli ammalati aveva voluto iniziare la sua missione a Milano: la prima parrocchia da lui visitata fu quella della Madonna di Lourdes, in occasione della giornata del malato: segno tangibile della sua consapevolezza di essere pastore in quanto discepolo fedele del Signore venuto come medico per i malati e non per i sani, sollecito verso i peccatori più che verso i giusti.     Uomo della Scrittura, tra i più autorevoli studiosi del Nuovo Testamento, è stato uomo della Parola nel senso più profondo del termine: letta, studiata, meditata, pregata, amata, la parola di Dio per Martini era “lampada per i suoi passi, luce per il cammino” ed era anche, e proprio per questo, chiave di lettura del proprio e dell’altrui agire, luogo di ascolto, di discernimento, di visione profetica. La sua prima lettera pastorale volle dedicarla a “La dimensione contemplativa della vita”, a quella ricerca dell’essenziale attraverso uno sguardo lungimirante, desideroso di assumere la visione stessa di Dio sulle persone e sugli eventi, uno sguardo che solo l’assiduità con la parola di Dio arriva ad affinare. E uomo, cristiano, vescovo della Parola, Martini lo è stato anche per la sua grande capacità di ascolto: incontrarlo era sperimentare di persona cosa è un orecchio attento e un cuore accogliente, cosa significa pensare e pregare prima di formulare una risposta, cogliere il non detto a partire dalle poche parole proferite dall’interlocutore, capirne i silenzi. Dall’ascolto attento, della Parola e dell’altro, nasceva nel card. Martini la capacità di gesti profetici, la sollecitudine per la chiesa e per la sua unità, la vicinanza ai poveri, il farsi prossimo ai lontani, il dialogo con i non credenti fino a considerarli propri maestri cui affidare cattedre per la ricerca del senso delle cose e della dignità delle persone. E questa docilità alla Parola ha fatto di lui uno dei rari ecclesiastici in cui non si trovavano né tattiche, né strategie, né calcoli di governo, ma la parresia evangelica di chi si affida al Signore.    
 
  Tra i numerosi incontri avuti con lui nel corso di una lunga amicizia – nata nell’inverno del 1977, quando entrambi sostavamo a Gerusalemme – vorrei in questo momento ricordare l’ultima sua visita a Bose, quando le forze già cominciavano ad abbandonarlo senza minimamente intaccare la sua lucidità e la sua passione per il Vangelo e per la “corsa della Parola” tra gli uomini e le donne del nostro tempo. “Vedo ormai davanti a me la vita eterna – ci disse con grande semplicità e forza – sono venuto per darvi il mio ultimo saluto, il mio grazie al Signore per questa lunga amicizia nel Suo nome: conto sulla vostra preghiera e sul vostro affetto”. E così, come un padre pieno di sollecitudine, ci parlò della morte e del morire, della risurrezione e della vita: “Si muore soli! Tuttavia, come Gesù, chi muore in Dio si sa accolto dalle braccia del Padre che, nello Spirito, colma l’abisso della distanza e fa nascere l’eterna comunione della vita. Nella luce della risurrezione di Gesù possiamo intuire qualcosa di ciò che sarà la risurrezione della carne. L’anticipazione vigilante della risurrezione finale è in ogni bellezza, in ogni letizia, in ogni profondità della gioia che raggiunge anche il corpo e le cose”.   
Sì, aver conosciuto e amato il card. Martini, aver avuto il grande dono della sua amicizia è stata occasione di questa letizia e gioia profonda, ha significato comprendere perché i padri della chiesa erano soliti dire che i discepoli autentici del Signore sono sequentiae sancti Evangelii, brani del Vangelo, narrazioni dell’amore di Dio per l’umanità tutta. Per questo il sentimento di gratitudine al Signore per il dono che è stato padre Carlo Maria Martini, come semplicemente si faceva chiamare in questi ultimi anni, abita i cuori di tanti, ben al di là dei confini della diocesi ambrosiana.

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 Di seguito il ricordo del Card. Carlo Maria Martini, firmato da monsignor Bruno Forte, arcivescovo della diocesi di Chieti-Vasto (in Abruzzo), e pubblicato sull'edizione odierna del quotidiano Il Sole 24 Ore.

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Ho avuto il dono di conoscere da vicino il Card. Carlo Maria Martini e di condividere con lui innumerevoli dialoghi ed esperienze di fede. Che cosa mi hanno dato i lunghi anni della nostra amicizia, nata dalla Sua generosità e fiducia? Era il 1984 ed ero stato invitato a parlare alla Chiesa di Milano in Convegno. Le parole che il Cardinale mi disse, tornando in auto in Arcivescovado, mi diedero un grandissimo incoraggiamento ad andare avanti sulla via della riflessione teologica, al servizio della Chiesa e della comunità degli uomini. Durante il Convegno della Chiesa Italiana a Loreto nel 1985, dove il card. Ballestrero, Presidente della Conferenza Episcopale, e il Card. Martini, alla guida del Convegno, mi avevano chiamato a tenere la relazione di apertura, vi furono momenti di grande tensione e difficoltà, che portai in un dialogo intensissimo e prolungato col Signore, pregando fino a notte fonda. Quando al mattino consegnai per iscritto al Card. Martini il frutto delle mie riflessioni, il Suo commento mi diede un’immensa gioia: “Come sono contento della libertà interiore che Dio ti ha dato!”. È questa la prima cosa che credo di aver appreso da Lui, a conferma di una scelta di fondo che sentivo fondamentale per il mio essere cristiano e prete: cercare di piacere a Dio solo. Questa libertà mi appariva così luminosa in Martini, che tante volte l’ho esercitata anche nei Suoi confronti, parlandogli sempre con assoluta franchezza, anche quando le nostre idee non coincidevano. Sempre mi ha colpito l’umiltà del Suo ascolto e la serenità con cui presentava la Sua posizione, soppesando gli argomenti. Era un uomo sempre attento a cogliere le ragioni dell’altro, generoso nel dare l’interpretazione più benevola delle posizioni diverse dalla Sua. Uomo di vero dialogo (senza alcuna esclusione: dai non credenti ai fratelli nella fede, dall’amatissimo popolo d’Israele, al dialogo ecumenico e interreligioso), promotore di corresponsabilità e partecipazione di tutti, rispettoso della dignità di ciascuno, quali che fossero le idee e le scelte di vita della persona.
Il Suo ascolto dell’altro nasceva dall’ascolto profondo e innamorato della Parola di Dio: ecco l’altro grande insegnamento che ho ricevuto da Lui. Un amore appassionato, fedele, sempre in ricerca, alla Sacra Scrittura. Un nutrirsene continuamente, nello stupore dinanzi alla novità sempre nuova del Dio che parla. Amavo già la Parola: in particolare l’insegnamento del mio padre nella fede, il Card. Corrado Ursi, Arcivescovo di Napoli che mi ordinò sacerdote nel 1973, mi aveva educato a nutrirmi assiduamente della Parola proclamata nella liturgia. Dal Card. Martini ho ricevuto lo stimolo a fare della Scrittura il viatico quotidiano, da frequentare con tutti gli strumenti disponibili per meglio intenderla, e soprattutto con una “lectio” che si facesse sempre più meditazione, dialogo con Dio e azione contemplativa. In questo dono, personalmente sperimentato, leggo la causa più profonda della vita del Biblista e Pastore, che fu Martini, quello che mi sembra Egli cercò di insegnare al di sopra di tutto al popolo che Dio gli aveva affidato, e che ha parlato alla Chiesa intera. Libertà interiore, ascolto dell’altro, ascolto di Dio: queste tre componenti le ho avvertite presenti e fuse nel Cardinale in modo esemplare. Ho cercato di far mia questa lezione, come ho potuto, con i limiti della mia persona e delle mie capacità. Il Signore è stato buono nel darmi aiuti preziosi: e fra questi preziosissima l’amicizia di Marini. La gratitudine che nutro per Lui è immensa, e sono convinto che ogni credente consapevole e onesto non potrà che condividerla, come la condivideva l’amatissimo Giovanni Paolo II, che volle esplicitamente farne menzione nei Suoi ricordi autobiografici! E ora che questo grande Padre della Chiesa del nostro tempo è entrato nella luce e nella bellezza della vita senza fine in Dio, sarà il Signore a ricompensarlo per l’eternità! Resterà nel ricordo ammirato e grato d’innumerevoli persone che non hanno il dono di credere. È e sarà sempre nella mia preghiera, come in quella di tanti credenti. Gli chiedo di fare lo stesso per me, per tutta la Chiesa che tanto ha amato, affinché in essa tutti - e specialmente chi ha responsabilità per altri - possiamo agire sempre e solo “ad majorem Dei gloriam”, come recita il motto di Sant’Ignazio, maestro e padre del gesuita Martini: per quella più grande gloria di Dio, che è l’uomo vivente, nel tempo e nel giorno senza fine dell’Eterno, nella cui luce ora vive Padre Carlo, maestro di vita e di fede.

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Riporto l'articolo seguente dal blog di Andrea Tornielli.

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 Cari amici, ieri pomeriggio è morto il cardinale Carlo Maria Martini, per 22 anni arcivescovo di Milano. Su Vatican Insider trovate notizie, commenti e interviste. Ho seguito da vicino gli ultimi sei anni del suo episcopato milanese. Vi ripropongo l’intervista che gli ho fatto alla fine dell’anno scorso, pubblicata su La Stampa il 28 dicembre 2011. Mi aveva detto che la gioia più grande per la sua giornata era il momento in cui poteva trovarsi davanti al tabernacolo.
ANDREA TORNIELLI
MILANO

«Ci sono nel mondo tante forze buone che agiscono per la costruzione di una società più giusta…». Lo sguardo del cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo emerito di Milano, è rimasto quello di sempre. Ma la voce lo ha quasi abbandonato. Una delle conseguenze del morbo di Parkinson che l’ha colpito alla fine del suo mandato nella diocesi ambrosiana. La stessa malattia di Giovanni Paolo II, il Papa che a sorpresa nel dicembre di trentadue anni fa, chiamò questo insigne biblista gesuita, che da bambino aveva sognato di fare il giornalista, alla guida della Chiesa di Milano, la più grande d’Europa, tra le più importanti del mondo. Nell’ultima lettera pastorale avrebbe scritto: «L’impatto con la Chiesa di Milano e anche con la società civile mi ha dato immensamente più di quanto io non abbia saputo dare o avrei potuto immaginare». Nel 2002, appena compiuti 75 anni, Martini ha chiesto di potersi ritirare nella terra di Gesù. «Voglio andare in Terra Santa per un motivo spirituale, per pregare e intercedere per coloro che soffrono, e per riprendere a studiare la Bibbia». Ha trascorso alcuni anni a Gerusalemme, ha partecipato al conclave che ha eletto Papa un suo coetaneo, Joseph Ratzinger. Poi la malattia l’ha costretto a tornare in Italia, a Gallarate. Per parlare usa talvolta un microfonino che amplifica la sua voce. Cammina con difficoltà e si muove quasi sempre in sedia a rotelle. Il cardinale, nato a Torino nel 1927, ha accettato di dialogare con La Stampa sul senso del Natale in questo tempo di crisi, invitando ancora una volta ad avere speranza, perché «ci sono nel mondo tante forze buone che agiscono», lui che ha confessato «di aver sempre creduto più nella forza irradiante e contagiosa del bene che nella deplorazione del male». «Sono lieto – ci dice Martini – di poter collaborare con il vostro giornale ricordando tutti gli amici torinesi. Le mie risposte saranno necessariamente molto brevi perché questo è un tempo di grande impegno».
Eminenza, il Natale celebra la nascita di un Dio che si fa bambino. Che cosa ha significato e che cosa significa per noi?
«In passato, nella cultura occidentale ha significato moltissimo. Oggi è presente per lo più in forme spurie. Per un cristiano significa sempre la dedizione incredibile di Dio per l’uomo ed è fonte di riflessione teologica e filosofica senza fine».
Il racconto della nascita di Gesù finisce talvolta per essere presentato come una fiaba zuccherosa. Quali ragioni ci sono per credere al racconto evangelico?
«Il racconto di Luca ha una attestazione singola. Tuttavia si può credere con fiducia a quanto raccontato dai devoti di Gerusalemme risalenti ultimamente a Maria».
Questo Natale arriva in un momento per noi denso di paure, di incertezze, di recessione. Quale messaggio comunica l’evento della nascita di Cristo nell’attuale condizione di crisi, alla vigilia di un nuovo che si teme ancora più faticoso?
«In questa condizione di crisi il Natale è fonte di speranza: esso ci dice che le cose di questo mondo valgono poco e sono soggette al giudizio di Dio».
Che cosa possiamo cogliere di positivo in questo frangente?
«Dobbiamo credere che ci sono nel mondo tante forze buone che agiscono per la costruzione di una società più giusta».
Possiamo ancora aver fiducia e speranza per il futuro? E se sì, perché?
«Pensando a questi uomini, e a Dio che abita in loro, non possiamo non aspettarci che il futuro sia sempre migliore. Naturalmente per chi lo guarderà sotto la luce del Dio Eterno».
La crisi ci fa interrogare sul nostro stile di vita, in molti casi costringe a cambiarlo. Che valore ha la sobrietà?
«La sobrietà è una parola che conviene molto all’immagine di questo tempo. È l’uso corretto dei beni della terra valutati alla luce del traguardo finale».
Che cosa si sente di dire a un giovane che non ha prospettive certe di lavoro e non può metter su famiglia?
«È una situazione molto dolorosa. Bisogna dare tanto sostegno a questi giovani soprattutto nella fiducia. A essi va detto che il paradiso lo si conquista attraverso sacrifici e che la sobrietà è in sé un vero sacrificio».
A Friburgo lo scorso settembre, Benedetto XVI ha parlato della necessità per la Chiesa di non confidare nelle sue strutture e nel potere, per essere più povera e più libera. Che cosa ne pensa?
«Plaudo alle parole del Papa e prego perché si avverino. La tradizione della Chiesa a partire dalla Sacra Scrittura ha sempre esortato a non confidare né nel potere né nelle strutture ma nella povertà e nella libertà del cuore».
Come vive, Eminenza, la fatica e la sofferenza della malattia? Che cosa le dà più conforto durante la giornata?
«La mia malattia non mi dà dolori ma solo limitazioni. È bello accettarle come unione ai patimenti di Cristo. Durante la giornata ciò che mi da più gioia è visitare il Santissimo Sacramento».