lunedì 26 novembre 2012

Che cosa è il "superfluo?

Di seguito il Vangelo di oggi, 26 novembre, lunedi della XXXIV settimana del T.O., con un commento e qualche testo di approfondimento.


Non voglio ammassare meriti per il cielo; 
voglio lavorare solo per il tuo Amore, 
nell’unico desiderio di farti piacere, 
di consolare il tuo sacro Cuore 
e di salvare anime che ti ameranno per sempre.
Al tramonto di questa vita, 
mi presenterò a Te, o Signore, 
con le mani vuote, 
perché non voglio domandarti di cantare le mie opere… 
Tutta la nostra giustizia si presenta macchiata ai tuoi occhi. 
Voglio rivestirmi dunque della tua Giustizia 
e ricevere dal tuo Amore il possesso eterno di Tè. 
Non voglio altro Trono o altra Corona se non Tè, o mio Diletto!…
S. Teresa di Lisieux



Lc 21,1-4
In quel tempo, mentre era nel tempio, Gesù, alzati gli occhi, vide alcuni ricchi che gettavano le loro offerte nel tesoro. Vide anche una povera vedova che vi gettava due spiccioli e disse: “In verità vi dico: questa vedova, povera, ha messo più di tutti. Tutti costoro, infatti, han deposto come offerta del loro superfluo, questa invece nella sua miseria ha dato tutto quanto aveva per vivere”.
Il commento
Per il «superfluo» occupiamo le nostre migliore energie, dando importanza agli aspetti marginali della vita, mentre fluiamo sull’essenziale e fondamentale, secondo l'etimologia latina del termine «superfluus», composto da «super» - «sopra» - e «fluus» (da «fluere») - «scorrere». Marginali e «inutili», secondo un altro significato del termine, sono, ad esempio le passioni civili, sportive o culturali che sembrano trionfare in questi tempi, come gli amori travolgenti che, negli sconvolgimenti ormonali, incendiano il cuore; quando catturano la scena dell’esistenza diventandone i protagonisti «assoluti», stringono anima, mente e cuore in un cappio mortale senza recare altro «utile» che l’insoddisfazione e l’ira giustiziera che ne consegue. Al Tempio, i ricchi «gettano» a Dio il loro «superfluo». Essi sono immagine di chi idolatra il proprio impegno e le proprie pretese virtù nell’illusione di darsi agli altri e agli ideali, solo perché assorbono tempo ed energie, ma è incapace di consegnare oltre la superfice, la «propria vita». La libido, infatti, è attratta irresistibilmente da ciò che costruisce e sembra appagare, mentre la paura di morire impedisce di donarsi senza riserve. Non è un caso che il contrasto evidenziato dal Signore sia tra una «una povera vedova» e «alcuni ricchi»: essi sono come sposi adulteri perché idolatri. Con le «loro offerte» non si mettono in gioco: impegnando solo il «superfluo» rivelano come i loro rapporti siano chiusi nell’egoismo che tradisce Dio e gli altri nascondendo la «mina» sotto terra. Non si fidano perché non conoscono l’amore gratuito, e per questo usano solo quella parte di se stessi che non li espone ai rischi di un impegno autentico e totale, cercando con essa di servirsi di Dio e del prossimo. Tra il «superfluo» e la propria «ricchezza» vi è come un anticoncezionale che li protegge da eventi imprevisti: come accade nei rapporti sessuali chiusi alla vita, essi si illudono di poter piegare la storia e gli affetti secondo gli impulsi della carne, senza accorgersi di sciupare così la vita nella sterilità.  
La «vedova» invece è fedele al suo unico Sposo. Ella entra nel Tempio appena purificato dal Signore con la stessa certezza che aveva accompagnato Abramo mentre saliva al Moria per sacrificare il suo unico figlio: il «Dio dei vivi» aveva il potere di compiere l’impossibile, anche di risuscitare i morti. Spogliata d'ogni «superfluo», è divenuta l’«ultima nella società», secondo il significato originale di «nella sua miseria»: senza alcuna sicurezza, ha solo quei «due spiccioli» tra le mani: «due» come lei e il suo Sposo uniti in una stessa carne e in un solo spirito; nulla più di quell’amore esclusivo, l’unico capace di farla «vivere». E’ «vedova», perché vive già ogni relazione come i «figli della risurrezione», al di là dell’egoismo carnale. La storia l’ha resa come «un angelo del cielo» che sulla terra non ha nulla capace di soddisfarla. Anela all’unica cosa «cosa necessaria», il compimento dell’amore che l’ha sposata a Cristo, di cui ha sperimentato le primizie. Per questo «getta le due monete» nel tesoro del Tempio, restituendo a Dio la vita da Lui ricevuta, unita al sacrificio di Cristo che ha «gettato» la sua nella morte per riscattarla e farla sua sposa per l’eternità; ella è certa che, proprio donandosi, vedrà compiute le sue nozze come una pietra preziosa incastonata nella Gerusalemme celeste. L’amore autentico, infatti, è sempre aperto alla vita che non muore, una profezia escatologica che rivela il Cielo, perché la vita vera, piena e autentica sgorga solo dall’intimità fedele e totale con Lui. Mentre le «offerte dei ricchi» avranno catturato l’attenzione e il plauso di tutti, nessuno si sarà accorto dei due spiccioli «deposti» dalla «vedova». Ella è lontana dagli sguardi umani e dalla gloria vana di questo mondo, vive d’amore nel «segreto della sua stanza» nuziale. Anche noi siamo chiamati a non aver paura di consegnarci a Dio insieme a Cristo, in un rapporto vissuto come un segreto che nessuno può sapere, forse senza apparente significato o valore umano. Così è il dono perseverante di tutta la vita, l'offerta delle piccole cose che la costituiscono; non si tratta di grandi gesti «superflui», ma della «fedeltà nel poco», il piccolo «spicciolo» che costituisce oggi la nostra vita unita a quella di Cristo: è Lui che tesse ogni filo della nostra esistenza per farne un drappeggio meraviglioso. Se «gettata» con il Signore e «deposta» nel «tesoro» del suo amore, questa giornata ha dunque, istante per istante, un valore infinito, come uno spicciolo d’oro incorruttibile che risplende già per l’eternità, accanto a Cristo e a tutti coloro che, per mezzo del sacrificio silenzioso di noi stessi, saranno accolti in Cielo: «Dio non esige da te il valore del metallo luccicante, ma quell'oro che nel giorno del giudizio il fuoco non può consumare» (S. Ambrogio).
APPROFONDIMENTI
Benedetto XVI. L'obolo della vedova, immagine della vita della Chiesa

Brescia, 8 novembre 2009

Al centro della liturgia della Parola di questa domenica – la XXXII del tempo ordinario – troviamo il personaggio della vedova povera, o, più precisamente, troviamo il gesto che ella compie gettando nel tesoro del Tempio gli ultimi spiccioli che le rimangono. Un gesto che, grazie allo sguardo attento di Gesù, è diventato proverbiale. "L'obolo della vedova", infatti, è sinonimo della generosità di chi dà senza riserve il poco che possiede.

Prima ancora, però, vorrei sottolineare l'importanza dell'ambiente in cui si svolge tale episodio evangelico, cioè il Tempio di Gerusalemme, centro religioso del popolo d'Israele e il cuore di tutta la sua vita. Il Tempio è il luogo del culto pubblico e solenne, ma anche del pellegrinaggio, dei riti tradizionali, e delle dispute rabbiniche, come quelle riportate nel Vangelo tra Gesù e i rabbini di quel tempo, nelle quali, però, Gesù insegna con una singolare autorevolezza, quella del Figlio di Dio. Egli pronuncia giudizi severi – come abbiamo sentito – nei confronti degli scribi, a motivo della loro ipocrisia: essi, infatti, mentre ostentano grande religiosità, sfruttano la povera gente imponendo obblighi che loro stessi non osservano. Gesù, insomma, si dimostra affezionato al Tempio come casa di preghiera, ma proprio per questo lo vuole purificare da usanze improprie, anzi, vuole rivelarne il significato più profondo, legato al compimento del suo stesso mistero, il mistero della sua morte e risurrezione, nella quale Egli stesso diventa il nuovo e definitivo Tempio, il luogo dove si incontrano Dio e l'uomo, il creatore e la sua creatura.

L'episodio dell'obolo della vedova si inscrive in tale contesto e ci conduce, attraverso lo sguardo stesso di Gesù, a fissare l'attenzione su un particolare fuggevole ma decisivo: il gesto di una vedova, molto povera, che getta nel tesoro del Tempio due monetine. Anche a noi, come quel giorno ai discepoli, Gesù dice: Fate attenzione! Guardate bene che cosa fa quella vedova, perché il suo atto contiene un grande insegnamento. Esso, infatti, esprime la caratteristica fondamentale di coloro che sono le "pietre vive" di questo nuovo Tempio, cioè il dono completo di sé al Signore e al prossimo. La vedova del Vangelo, come anche quella dell'Antico Testamento, dà tutto, dà se stessa, e si mette nelle mani di Dio, per gli altri. È questo il significato perenne dell'offerta della vedova povera, che Gesù esalta perché ha dato più dei ricchi, i quali offrono parte del loro superfluo, mentre lei ha dato tutto ciò che aveva per vivere (cfr. Marco 12, 44), e così ha dato se stessa.

Cari amici! A partire da questa icona evangelica, desidero meditare brevemente sul mistero della Chiesa, del Tempio vivo di Dio, e così rendere omaggio alla memoria del grande papa Paolo VI, che alla Chiesa ha consacrato tutta la sua vita.

La Chiesa è un organismo spirituale concreto che prolunga nello spazio e nel tempo l'oblazione del Figlio di Dio, un sacrificio apparentemente insignificante rispetto alle dimensioni del mondo e della storia, ma decisivo agli occhi di Dio. Come dice la lettera agli Ebrei – anche nel testo che abbiamo ascoltato – a Dio è bastato il sacrificio di Gesù, offerto "una volta sola", per salvare il mondo intero (cfr. Ebrei 9, 26.28), perché in quell'unica oblazione è condensato tutto l'amore del Figlio di Dio fattosi uomo, come nel gesto della vedova è concentrato tutto l'amore di quella donna per Dio e per i fratelli: non manca niente e niente vi si potrebbe aggiungere.

La Chiesa, che incessantemente nasce dall'Eucaristia, dall'autodonazione di Gesù, è la continuazione di questo dono, di questa sovrabbondanza che si esprime nella povertà, del tutto che si offre nel frammento. È il Corpo di Cristo che si dona interamente, Corpo spezzato e condiviso, in costante adesione alla volontà del suo Capo. [...] È questa la Chiesa che il servo di Dio Paolo VI ha amato di amore appassionato e ha cercato con tutte le sue forze di far comprendere e amare. Rileggiamo il suo "Pensiero alla morte", là dove, nella parte conclusiva, parla della Chiesa. "Potrei dire – scrive – che sempre l'ho amata... e che per essa, non per altro, mi pare d'aver vissuto. Ma vorrei che la Chiesa lo sapesse".

Sono gli accenti di un cuore palpitante, che così prosegue: "Vorrei finalmente comprenderla tutta, nella sua storia, nel suo disegno divino, nel suo destino finale, nella sua complessa, totale e unitaria composizione, nella sua umana e imperfetta consistenza, nelle sue sciagure e nelle sue sofferenze, nelle debolezze e nelle miserie di tanti suoi figli, nei suoi aspetti meno simpatici, e nel suo sforzo perenne di fedeltà, di amore, di perfezione e di carità. Corpo mistico di Cristo. Vorrei – continua il papa – abbracciarla, salutarla, amarla, in ogni essere che la compone, in ogni vescovo e sacerdote che la assiste e la guida, in ogni anima che la vive e la illustra; benedirla".

E le ultime parole sono per lei, come alla sposa di tutta la vita: "E alla Chiesa, a cui tutto devo e che fu mia, che dirò? Le benedizioni di Dio siano sopra di te; abbi coscienza della tua natura e della tua missione; abbi il senso dei bisogni veri e profondi dell'umanità; e cammina povera, cioè libera, forte ed amorosa verso Cristo".

Che cosa si può aggiungere a parole così alte ed intense? Soltanto vorrei sottolineare quest'ultima visione della Chiesa "povera e libera", che richiama la figura evangelica della vedova. Così dev'essere la Comunità ecclesiale, per riuscire a parlare all'umanità contemporanea. L'incontro e il dialogo della Chiesa con l'umanità di questo nostro tempo stavano particolarmente a cuore a Giovanni Battista Montini in tutte le stagioni della sua vita, dai primi anni di sacerdozio fino al pontificato. Egli ha dedicato tutte le sue energie al servizio di una Chiesa il più possibile conforme al suo Signore Gesù Cristo, così che, incontrando lei, l'uomo contemporaneo possa incontrare Lui, Cristo, perché di Lui ha assoluto bisogno.

Questo è l'anelito di fondo del Concilio Vaticano II, a cui corrisponde la riflessione del papa Paolo VI sulla Chiesa. Egli volle esporne programmaticamente alcuni punti salienti nella sua prima enciclica, "Ecclesiam suam", del 6 agosto 1964, quando ancora non avevano visto la luce le costituzioni conciliari "Lumen gentium" e "Gaudium et spes".
Con quella prima enciclica il pontefice si proponeva di spiegare a tutti l'importanza della Chiesa per la salvezza dell'umanità e, al tempo stesso, l'esigenza che tra la comunità ecclesiale e la società si stabilisca un rapporto di mutua conoscenza e di amore (cfr. Enchiridion Vaticanum, 2, p. 199, n. 164). "Coscienza", "rinnovamento", "dialogo": queste le tre parole scelte da Paolo VI per esprimere i suoi "pensieri" dominanti – come lui li definisce – all'inizio del ministero petrino, e tutt'e tre riguardano la Chiesa.
Anzitutto, l'esigenza che essa approfondisca la coscienza di se stessa: origine, natura, missione, destino finale; in secondo luogo, il suo bisogno di rinnovarsi e purificarsi guardando al modello che è Cristo; infine, il problema delle sue relazioni con il mondo moderno (cfr ibid., pp. 203-205, nn. 166-168).

Cari amici – e mi rivolgo in modo speciale ai fratelli nell'episcopato e nel sacerdozio –, come non vedere che la questione della Chiesa, della sua necessità nel disegno di salvezza e del suo rapporto con il mondo, rimane anche oggi assolutamente centrale? Che, anzi, gli sviluppi della secolarizzazione e della globalizzazione l'hanno resa ancora più radicale, nel confronto con l'oblio di Dio, da una parte, e con le religioni non cristiane, dall'altra?

La riflessione di papa Montini sulla Chiesa è più che mai attuale; e più ancora è prezioso l'esempio del suo amore per lei, inscindibile da quello per Cristo. "Il mistero della Chiesa – leggiamo sempre nell'enciclica "Ecclesiam suam" – non è semplice oggetto di conoscenza teologica, dev'essere un fatto vissuto, in cui ancora prima di una sua chiara nozione l'anima fedele può avere quasi connaturata esperienza" (ibid., p 229, n. 178). Questo presuppone una robusta vita interiore, che è – così continua il papa – "la grande sorgente della spiritualità della Chiesa, modo suo proprio di ricevere le irradiazioni dello Spirito di Cristo, espressione radicale e insostituibile della sua attività religiosa e sociale, inviolabile difesa e risorgente energia nel suo difficile contatto col mondo profano" (ibid., p. 231, n. 179). Proprio il cristiano aperto, la Chiesa aperta al mondo hanno bisogno di una robusta vita interiore.

Carissimi, che dono inestimabile per la Chiesa la lezione del servo di Dio Paolo VI! E com'è entusiasmante ogni volta rimettersi alla sua scuola! È una lezione che riguarda tutti e impegna tutti, secondo i diversi doni e ministeri di cui è ricco il Popolo di Dio, per l'azione dello Spirito Santo.
In questo Anno Sacerdotale mi piace sottolineare come essa interessi e coinvolga in modo particolare i sacerdoti, ai quali papa Montini riservò sempre un affetto e una sollecitudine speciali. Nell'enciclica sul celibato sacerdotale egli scrisse: "Preso da Cristo Gesù (Filippesi 3, 12) fino all'abbandono di tutto se stesso a lui, il sacerdote si configura più perfettamente a Cristo anche nell'amore col quale l'eterno Sacerdote ha amato la Chiesa suo corpo, offrendo tutto se stesso per lei... La verginità consacrata dei sacri ministri manifesta infatti l'amore verginale di Cristo per la Chiesa e la verginale e soprannaturale fecondità di questo connubio" ("Sacerdotalis coelibatus" 26).

Dedico queste parole del grande papa ai numerosi sacerdoti della diocesi di Brescia, qui ben rappresentati, come pure ai giovani che si stanno formando nel seminario. E vorrei ricordare anche quelle che Paolo VI rivolse agli alunni del Seminario Lombardo il 7 dicembre 1968, mentre le difficoltà del postconcilio si sommavano con i fermenti del mondo giovanile.

"Tanti – disse – si aspettano dal papa gesti clamorosi, interventi energici e decisivi. Il papa non ritiene di dover seguire altra linea che non sia quella della confidenza in Gesù Cristo, a cui preme la sua Chiesa più che non a chiunque altro. Sarà Lui a sedare la tempesta... Non si tratta di un'attesa sterile o inerte: bensì di attesa vigile nella preghiera. È questa la condizione che Gesù ha scelto per noi, affinché Egli possa operare in pienezza. Anche il papa ha bisogno di essere aiutato con la preghiera" (Insegnamenti VI, [1968], 1189). [...]
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Benedetto XVI. L'obolo della vedova

Cari fratelli e sorelle!

La Liturgia della Parola di questa domenica ci presenta come modelli di fede le figure di due vedove. Ce le presenta in parallelo: una nel Primo Libro dei Re (17,10-16), l’altra nel Vangelo di Marco (12,41-44). Entrambe queste donne sono molto povere, e proprio in tale loro condizione dimostrano una grande fede in Dio. La prima compare nel ciclo dei racconti sul profeta Elia. Costui, durante un tempo di carestia, riceve dal Signore l’ordine di recarsi nei pressi di Sidone, dunque fuori d’Israele, in territorio pagano. Là incontra questa vedova e le chiede dell’acqua da bere e un po’ di pane. La donna replica che le resta solo un pugno di farina e un goccio d’olio, ma, poiché il profeta insiste e le promette che, se lo ascolterà, farina e olio non mancheranno, lo esaudisce e viene ricompensata. La seconda vedova, quella del Vangelo, viene notata da Gesù nel tempio di Gerusalemme, precisamente presso il tesoro, dove la gente metteva le offerte. Gesù vede che questa donna getta nel tesoro due monetine; allora chiama i discepoli e spiega che il suo obolo è maggiore di quello dei ricchi, perché, mentre questi danno del loro superfluo, la vedova ha offerto «tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere» (Mc 12,44).

Da questi due episodi biblici, sapientemente accostati, si può ricavare un prezioso insegnamento sulla fede. Essa appare come l’atteggiamento interiore di chi fonda la propria vita su Dio, sulla sua Parola, e confida totalmente in Lui. Quella della vedova, nell’antichità, costituiva di per sé una condizione di grave bisogno. Per questo, nella Bibbia, le vedove e gli orfani sono persone di cui Dio si prende cura in modo speciale: hanno perso l’appoggio terreno, ma Dio rimane il loro Sposo, il loro Genitore. Tuttavia la Scrittura dice che la condizione oggettiva di bisogno, in questo caso il fatto di essere vedova, non è sufficiente: Dio chiede sempre la nostra libera adesione di fede, che si esprime nell’amore per Lui e per il prossimo. Nessuno è così povero da non poter donare qualcosa. E infatti entrambe le nostre vedove di oggi dimostrano la loro fede compiendo un gesto di carità: l’una verso il profeta e l’altra facendo l’elemosina. Così attestano l’unità inscindibile tra fede e carità, come pure tra l’amore di Dio e l’amore del prossimo – come ci ricordava il Vangelo di domenica scorsa. Il Papa San Leone Magno, di cui ieri abbiamo celebrato la memoria, così afferma: «Sulla bilancia della giustizia divina non si pesa la quantità dei doni, bensì il peso dei cuori. La vedova del Vangelo depositò nel tesoro del tempio due spiccioli e superò i doni di tutti i ricchi. Nessun gesto di bontà è privo di senso davanti a Dio, nessuna misericordia resta senza frutto» (Sermo de jejunio dec. mens., 90, 3).

La Vergine Maria è esempio perfetto di chi offre tutto se stesso confidando in Dio; con questa fede ella disse all’Angelo il suo «Eccomi» e accolse la volontà del Signore. Maria aiuti anche ciascuno di noi, in questo Anno della fede, a rafforzare la fiducia in Dio e nella sua Parola.
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Santa Teresa del Bambin Gesù (1873-1897), carmelitana, dottore della Chiesa
Scritto autobiografico B,1

«Ha dato tutto quello che aveva»

« Voglio farti leggere nel libro di vita, ov'è contenuta la scienza di Amore». La scienza d'Amore, oh, sì! la parola risuona dolce all'anima mia, desidero soltanto questa scienza. Per essa, avendo dato tutte le mie ricchezze, penso, come la sposa [del Cantico] dei cantici, di non aver dato nulla (Ct 8,7). Capisco così bene che soltanto l'amore può renderci graditi al Signore, da costituire esso la mia unica ambizione.
A Gesù piace mostrarmi il solo cammino che conduca alla fornace divina, cioè  l'abbandono del bambino il quale si addormenta senza paura tra le braccia di  suo Padre. «Se qualcuno è piccolo, venga a me», ha detto lo Spirito Santo per  bocca di Salomone, e questo medesimo Spirito d'amore ha detto ancora che «la misericordia è concessa ai piccoli» (Sap 6,6). In nome suo il profeta Isaia ci rivela che nell'ultimo giorno «il Signore condurrà il suo gregge nelle pasture, raccoglierà gli agnellini e se li stringerà al cuore» (Is 40,11)...
Ah, se tutte le anime deboli e imperfette sentissero ciò che sente la più piccola fra loro, l'anima della sua Teresa, non una dispererebbe d'arrivare alla vetta della montagna d'amore, poiché Gesù non chiede grandi azioni, bensì soltanto l'abbandono e la riconoscenza. Egli infatti dice nel Salmo 49: «Non ho bisogno alcuno dei capri dei vostri greggi, perché tutte le bestie delle foreste mi appartengono e le migliaia di animali che pascolano sulle colline... Immolate a Dio sacrifici di lode e di ringraziamento». Ecco ciò che Gesù esige da noi, non ha bisogno affatto delle nostre opere, ma soltanto del nostro amore, perché questo Dio stesso che dichiara di non aver bisogno di dirci se ha fame (Sal 49), non ha esitato a mendicare un po' d'acqua dalla Samaritana (Gv 4,7). Aveva sete... Aveva sete d'amore... Ah! lo sento più che mai, Gesù è assetato, non incontra se non ingrati e indifferenti tra i discepoli del mondo, e tra i suoi stessi discepoli trova pochi cuori i quali si abbandonino a lui senza riserve, e capiscano la tenerezza del suo amore infinito.
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S. Ambrogio. L'obolo della vedova


La Scrittura ... insegna anche come convenga essere misericordiosi e generosi verso i poveri e che non bisogna tirarsi indietro in considerazione della propria povertà, perché la generosità non si valuta in base all'ammontare dei beni donati, ma in base alla 
disposizione d'animo con cui si fa la donazione. Pertanto le parole del Signore antepongono a tutti quella vedova di cui egli dice: Questa vedova ha dato più di tutti. Con tale giudizio il Signore da tutti un insegnamento morale: che nessuno, per la vergognadi essere povero, sia distolto dal prestare il proprio servizio; né i ricchi si facciano illusioni per il fatto che credono di dare di più dei poveri. Infatti vale di 
più una monetina presa dal poco che un tesoro attinto da una ricchezza grandissima, poiché si valuta non quanto si dà, ma quanto resta. Nessuno dà di più di chi non conserva per sé. 
Perché tu, che sei ricca, ti vanti al confronto con chi è povero? E mentre ti copri tutta d'oro, strascicando la veste preziosa per terra, come fossi da meno e piccola di fronte alle tue ricchezze, vuoi essere onorata perché hai superato nelle elemosine il povero? Anche i fiumi straripano quando ridondano; tuttavia è più gradito bere ad un ruscello. Anche i mosti spumeggiano; quando fermentano, e l'agricoltore non giudica un danno ciò che si versa. Mentre le aie gemono, quando la messe è battuta, il grano salta fuori; eppure, mancando le messi, l'anfora non manca di farina e l'orcio pieno d'olio gocciola. La siccità provocò l'esaurimento delle botti dei ricchi, mentre il minuscolo contenitore d'olio della vedova ridondava. Dunque non si deve considerare ciò che sputi per fastidio, ma quanto offri per devozione. Pertanto nessuna ha offerto più di colei che ha nutrito un profeta con il cibo dei figli. E perciò, poiché nessuna ha offerto di più, nessuno ha meritato di più. Questa è l'interpretazione morale. 
Tuttavia, nemmeno a livello di interpretazione mistica è trascurabile questa donna che getta due denari nel gazofilacio. È certamente grande costei che per giudizio divino ha meritato di essere anteposta a tutti. Forse è quella che, attingendo dalla sua fede, ha 
offerto in sostegno agli uomini i due testamenti e perciò nessuna ha fatto di più. E nemmeno alcun uomo ha potuto uguagliare in quantità l'elemosina di colei che ha unito la fede alla misericordia. Anche tu dunque, chiunque tu sia ... non dubitare di gettaredue monete nel gazofìlacio, perfetta come sei e nella fede e nella grazia. 
Beata colei che trae dal suo tesoro l'immagine integra del re. Il tuo tesoro è la sapienza, il tuo tesoro è la castità e la giustizia, il tuo tesoro è il buon intelletto, simile al tesoro dal quale i Magi trassero oro, incenso, mirra, quando adorarono il Signore, indicando con l'oro la potenza del re, manifestando con l'incenso l'adorazione a Dio, confessando con la mirra la risurrezione del corpo. Anche tu hai questo tesoro, se lo cerchi in stessa. Infatti abbiamo un tesoro in vasi di creta. Questo è il tesoro che devi offrire, perché Dio non esige da te il valore del metallo luccicante, ma quell'oro che nel giorno del giudizio il fuoco non può consumare. Né richiede doni preziosi, ma l'odore della fede che gli altari del tuo cuore esalano e la volontà della mente fedele spira. 
Dunque, da questo tesoro sono tratti non solo i tre doni dei Magi, ma anche le due monete della vedova, nelle quali risplende integra l'immagine del re celeste, lo splendore della sua gloria e l'immagine della sua sostanza. ... 
Gareggiate con costei, o figlie: infatti è buona cosa gareggiare sempre nel bene. Gareggiate per doni migliori. Il Signore guarda; vi guarda - ripeto - Gesù, mentre vi avvicinate al gazofìlacio e pensate di dover offrire una piccola moneta tratta dalla ricompensa per le vostre buone opere. Dunque qual gran cosa è che tu offra le tue monete e acquisti il corpo di Cristo. Perciò non presentarti a mani vuote di fronte al Signore tuo Dio, vuote di misericordia, vuote di fede, vuote di castità. Infatti il Signore Gesù non è solito guardare e lodare quelle che sono sprovviste, ma quelle ricche di virtù. 
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Teofilatto. Che la mia anima getti nel tesoro due spiccioli, la carne e la mente


C'era, presso i Giudei, una mirabile consuetudine, per cui quelli che potevano e volevano, mettevano nel tesoro del tempio ... dal quale erano alimentati i 
sacerdoti, i poveri e le vedove. E poiché molti lo facevano, si avvicinò anche una vedova, che mostrò di avere un desiderio più grande delle ricchezze. Gloria a te, o Cristo, che spesso hai più gradite le cose piccole delle grandi. Prego che anche la mia anima sia come quella vedova, per cui sia privata di Satana, al quale era unita, e getti nel tesoro due spiccioli, la carne e la mente, ed esse stesse siano rese piccole, la 
carne dalla continenza, la mente dall'umiltà, affinché io sappia di aver consacrato tutta la mia vita a Dio, non lasciando per questo mondo alcun pensiero o affetto. 

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San Paolino da Nola. Ha dato tutto quello che aveva per vivere.

San Paolino da Nola. 

Ha dato tutto quello che aveva per vivere.
Dalle Lettere, 34,2-4.


«Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?» (2Cor4,7). [...] Ricordiamoci anche di quella vedova che, nella sua sollecitudine per i poveri, trascurando se stessa, si privò di tutto quello che aveva per vivere, memore soltanto della vita futura, come attesta il Giudice stesso, il quale dice che altri danno del loro superfluo, essa invece, che forse era più bisognosa di molti anche tra i poveri, pur possedendo solo due monete, fu in verità più ricca nell'animo di tutti quanti i ricchi, e rivolta ai soli doni della bontà divina, avara del solo tesoro celeste, donò tutto quello che possedeva, perché tutto ciò che si raccoglie sulla terra alla terra deve tornare. Essa gettò nel tesoro del tempio quello che aveva per possedere ciò che non aveva ancora visto; vi gettò i beni destinati alla corruzione per procurarsi quelli immortali. Quella povera donna non disprezzò il giudizio disposto e ordinato da Dio per essere accolti da lui quando ritornerà. Per questo colui che tutto dispone e il Giudice del mondo anticipò la sua sentenza e lodò nel Vangelo la donna che avrebbe incoronata nel giudizio. [...] Rendiamo dunque al Signore i suoi doni; restituiamoli a lui che li riceve nella persona di ogni povero; diamoli, dico, con gioia per riceverli di nuovo da lui con esultanza, come egli stesso afferma.

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Sant’Anselmo d’Aosta. «Ha dato tutto quello che aveva»


Sant’Anselmo d’Aosta (1033-1109), monaco, vescovo, dottore della Chiesa
Lettere, 112

« Ha dato tutto quello che aveva »

In cielo tutti insieme con Dio saranno un solo re e come un sol uomo, perchè tutti vorranno una cosa sola e ciò che vorranno si realizzerà. Dal cielo Dio proclama che tutto questo è in vendita.
Se uno domanda a quale prezzo, gli vien risposto: non ha bisogno di un compenso terreno chi vuol dare il Regno del cielo, nè alcuno può dare a Dio ciò che non possiede, perchè tutto ciò che esiste appartiene a lui. D’altra parte Dio non dà del tutto gratuitamente una cosa di tanto valore, perchè non la dà a chi non ama. Nessuno infatti dà ciò che ha di più caro a chi non l’ama. Dio quindi non ha bisogno di qualcosa di tuo, nè deve dare una cosa tanto grande a chi non si cura di amarla; non cerca che l’amore, senza il quale non è tenuto a dare nulla. Dagli dunque l’amore e otterrai il regno: ama ed avrai... Ama Dio più di te stesso e già comincerai ad avere su questa terra quanto vuoi avere perfettamente in cielo.

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P. Raniero Cantalamessa. Venne una povera vedova


Un giorno, stando davanti al tesoro del tempio, Gesù osserva quelli che vi gettano elemosine. Nota una povera vedova che passando davanti, vi mette tutto quello che ha: due spiccioli, cioè un quattrino. Allora si volta verso i discepoli e dice: “In verità vi dico questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”.

Possiamo chiamare la Domenica di oggi la “Domenica delle vedove”. Anche nella prima lettura viene narrata la storia di una vedova: la vedova di Zarepta che si priva di tutto quello che ha (un pugno di farina e qualche goccia d’olio) per preparare da mangiare al profeta Elia.

È una buona occasione per dedicare la nostra attenzione alle vedove e, naturalmente, anche ai vedovi di oggi. Se la Bibbia parla così spesso delle vedove e mai dei vedovi, è perché nella società antica la donna rimasta sola è assai più svantaggiata rispetto all’uomo rimasto solo. Oggi non c’è più molta differenza tra i due; anzi, dicono che la donna rimasta sola se la cava, in genere, meglio dell’uomo nella stessa situazione.

Vorrei, in questa occasione, accennare a un tema che interessa vitalmente non solo i vedovi e le vedove, ma tutti gli sposati e che è particolarmente attuale in questo mese dei morti. La morte del coniuge, che segna la fine legale di un matrimonio, segna anche la fine totale di ogni comunione? Resta qualcosa in cielo del vincolo che ha unito così strettamente due persone sulla terra, o invece tutto sarà dimenticato, varcando la soglia della vita eterna?

Un giorno alcuni sadducei presentarono a Gesù il caso limite di una donna che era stata successivamente moglie di sette fratelli, chiedendogli di chi sarebbe stata moglie dopo la risurrezione dai morti. Gesù rispose: “Quando risusciteranno dai morti non prenderanno moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli “ (Marco 12, 25). Interpretando in modo errato questa frase di Cristo, alcuni hanno sostenuto che il matrimonio non ha alcun seguito in cielo. Ma con quella frase Gesù rigetta l’idea caricaturale che i sadducei presentano dell’al di là, come fosse un semplice proseguimento dei rapporti terreni tra i coniugi; non esclude che essi possano ritrovare, in Dio, il vincolo li ha uniti sulla terra.

Secondo questa visione, il matrimonio non finisce del tutto con la morte, ma viene trasfigurato, spiritualizzato, sottratto a tutti quei limiti che segnano la vita sulla terra, come, del resto, non sono dimenticati i vincoli esistenti tra genitori e figli o tra amici. In un prefazio dei morti la liturgia proclama: “La vita è trasformata, non tolta”. Anche il matrimonio che è parte della vita viene trasfigurato, non annullato.

Ma cosa dire a quelli che hanno avuto un’esperienza negativa, di incomprensione e di sofferenza, nel matrimonio terreno? Non è per essi motivo di spavento, anziché di consolazione, l’idea che il legame non si rompe neppure con la morte? No, perché nel passaggio dal tempo all’eternità il bene resta, il male cade. L’amore che li ha uniti, fosse pure per breve tempo, rimane; i difetti, le incomprensioni, le sofferenze che si sono inflitte reciprocamente cadono. Anzi questa stessa sofferenza, accettata con fede, si convertirà in gloria. Moltissimi coniugi sperimenteranno solo quando saranno riuniti “in Dio” l’amore vero tra di loro e, con esso, la gioia e la pienezza dell’unione che non hanno goduto in terra. In Dio tutto si capirà, tutto si scuserà, tutto si perdonerà.

Si dirà: e quelli che sono stati legittimamente sposati a diverse persone? Per esempio i vedovi e le vedove risposati? (Fu il caso presentato a Gesù dei sette fratelli che avevano avuto, successivamente, in moglie la stessa donna). Anche per essi dobbiamo ripetere la stessa cosa: quello che c’è stato di amore e donazione veri con ognuno dei mariti o delle mogli avuti, essendo obbiettivamente un “bene” e venendo da Dio, non sarà annullato. Lassù non ci sarà più rivalità in amore o gelosia. Queste cose non appartengono all’amore vero, ma al limite intrinseco della creatura.

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Beato Charles de Foucauld. «Ha dato tutto quanto aveva»


Beato Charles de Foucauld (1858-1916), eremita e missionario nel Sahara
Meditazioni sui Santi Vangeli

«Ha dato tutto quanto aveva»

« Padre mio, nelle tue mani consegno il mio spirito » (Lc 23,46). Questa è l’ultima preghiera del nostro Maestro, del nostro prediletto. Possa essa essere nostra, e essere non soltanto la preghiera dei nostri ultimi istanti, ma pure quella di ogni nostro istante : « Padre mio, io mi consegno nelle tue mani ; Padre mio io mi affido a te ; Padre mio, io mi abbandono a te ; Padre mio, fa’ di me ciò che ti piace ; qualunque cosa tu faccia di me, ti ringrazio ; grazie di tutto. Sono pronto a tutto, accetto tutto, ti ringrazio di tutto, purchè la tua volontà si compia in me, mio Dio, purchè la tua volontà si compia in tutte le tue creature, in tutti i tuoi figli, in tutti coloro che il tuo cuore ama ; non desidero niente altro, mio Dio. Rimetto la mia anima nelle tue mani, te la dono, mio Dio, con tutto l’amore del mio cuore, perchè ti amo, ed è per me una esigenza d’amore il donarmi, il rimettermi nelle tue mani senza misura. Mi rimetto nelle tue mani con una confidenza infinita, poichè tu sei il Padre mio ».