lunedì 19 novembre 2012

La leva e la Croce



Ci si può fare un idolo persino della verità, perché la verità, scissa dalla carità, non è Dio: ne è soltanto l’immagine, un idolo che non dobbiamo né amare né adorare (e tanto meno dobbiamo amare e adorare il suo contrario, ossia la menzogna.
(Blaise Pascal)
Parole come “certezza” e “verità” non godono di buona stampa nel nostro mondo. Viviamo, è ampiamente noto, in una “civiltà ipotetica” dove ogni convinzione reca il marchio della provvisorietà e che, per contrasto, sembra nutrire una fastidiosa allergia per ogni forma di “pensiero forte”. Tanto che, come ha scritto qualcuno, la minaccia attuale in campo religioso non è certo più l’intolleranza, ma il suo calco rovesciato: un indifferentismo mascherato da “tolleranza”. Sembrano essere davvero giunti i tempi della “religione dell’umanità” annunciata da Robert Benson, una religione infinitamente “dialogante” desiderosa unicamente di trovare il consenso di tutti e di accantonare ogni divergenza, vista come il male radicale. Carità senza verità, misericordia senza giustizia: è l’insidia idolatrica che la penna tagliente di Nicolás Gómez Dávila ha denominato «tentazione della carità», contrastata con limpida decisione da Benedetto XVI nella Caritas in veritate. «Senza verità», scrive il papa, «la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario. La verità libera la carità dalle strettoie di un emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali, e di un fideismo che la priva di respiro umano ed universale».
La tentazione della verità
Reagire alle seduzioni dell’idolo è cosa naturale, in uno spirito sano e vitale. Occorre però scansare l’agguato di una nuova e speculare idolatria, sapersi guardare da un’altra minaccia, e non di minor conto: la tentazione della verità, ossia la verità separata dalla carità, che altro non è se non risentimento travestito da ideale di giustizia.
Un’ira immoderata può condurre, in spiriti eccessivamente polemici, a cadere in quella che Thomas Merton ha chiamato la«teologia morale del diavolo» (1): verità senza carità, giustizia senza misericordia, sono questi i momenti fondamentali, dice Merton, al cuore di questa perversa «teologia del castigo, dell’odio, della vendetta» in cui «non l’amore, ma il castigo è il compimento della Legge».
A voler combattere l’idolo senza aver prima ingaggiato una lotta con se stessi si rischia infatti di diventarne la copia uguale e contraria. Ci si illude di trovare liberazione passando da un eccesso all’eccesso contrario. Abbaglio accecante. L’idolo è una verità impazzita che rivendica un posto spettante non a se stesso ma all’unico vero Dio; è da ridimensionare, non da abbattere con le sue stesse armi. «Due errori opposti e successivi», scrive Thibon, «non si annullano, si sommano».
Perdere la misura: qui si trova la scaturigine d’ogni fanatismo, vale a dire di una fede assimilata a ideologia.
Non nella fede come armatura risiede la via d’uscita da una simile impasse, ma nella fede come comunione spirituale e comunicazione interiore col Dio-Uomo. In un cristianesimo autenticamente vissuto non può darsi fanatismo di sorta.
La falsa fede nella forza del numero
Fanatico, ci dice il filosofo tedesco Robert Spaemann, è «colui che tiene per certo che il senso può essere soltanto qualcosa da lui posto e realizzato. Se prende atto del fatto che chi agisce è sottomesso al potere superiore del destino, il fanatico si rifiuta però di accettarlo. Vuole cambiare le condizioni entro cui agisce o perire. [...] Non è disposto a tollerare la sua impotenza di fronte all’ingiustizia che gli è toccata e dà fuoco a tutto il mondo perché il diritto sia ricostituito» (R. Spaemann, Concetti morali fondamentali, Piemme, Casale Monferrato 1993, p. 119).
Può sembrar paradossale, ma fanatico non è chi crede troppo nel Dio cristiano. È piuttosto colui che – per quanto verbalmente possa continuare a richiamarvisi – vi crede troppo poco, tanto da essere sordo alla Gelassenheit – termine tedesco di difficile traduzione, il cui senso può forse essere reso ricorrendo a una parafrasi come “abbandono fiducioso”. Il fanatico, contando solo sulle proprie forze, è incapace di seminare e attendere che la grazia “faccia il suo corso”. Vuol vincere con la forza del numero, finendo così solo per spezzare, con esiti infausti, i fili invisibili che legano, quaggiù sulla terra, la zizzania e il grano buono.
Contrassegno del fanatico è l’incapacità di riconoscere limiti morali al proprio agire, nel suo animo alberga la folle convinzione secondo cui unicamente le proprie azioni possono conferire senso e significato all’esistenza (folle, secondo un noto passo di Chesterton, non è colui che ha perso la ragione, ma chi tutto ha perso fuorché la ragione). Convinto che se le proprie azioni scomparissero, se egli cessasse di agire, il mondo stesso cadrebbe nell’oblio, vuole plasmare con forza la realtà esercitando una “pressione” (“fare pressione” non a caso è espressione che rimanda alla meccanica, allo scontro di forze).
Oscuramento dell’intelligenza
Ancor prima che su una fede deviata, il fanatismo si fonda, direbbe Michele Federico Sciacca, sull’oscuramento dell’intelligenza. Solo una ragione dotata di senso del limite, cioè in relazione con l’essere e la realtà, è in grado di mutarsi in intelligenza e saggezza. Incline al fanatismo, ancora una volta, è invece la ragione arrogante, insuperbita e smisurata, una ragione raziocinante assurta a “misura di tutte le cose”, cui è ignota la docilitas (*).
Siamo spesso tentati di dimenticare i limiti della nostra conoscenza. Ne aveva invece un’acuta percezione il cardinale John Henry Newman, il celebre convertito che nella sua Grammatica dell’assenso ricorre a un’immagine molto efficace per dimostrare quanto vada evitata la confusione di certezza e infallibilità.
Si pensi a un uomo, dice Newman, che dovesse scorgere al chiaro di luna una figura confusa tra gli alberi. Mosso dalla curiosità, quegli comincia allora ad approssimarvicisi; quando, ad un tratto, ogni esitazione cessa: gli par certo d’aver intravisto la sagoma di un altro uomo, che però non si muove né risponde quando viene chiamato. L’uomo s’avvicina ulteriormente, fino a toccare la figura con la mano, e solo allora constata per certo il suo errore: quello che aveva preso per un suo simile altro non era infatti che un gioco di ombre creato dalla luce lunare proiettata sulle fronde. Eppure l’evidenza dell’errore commesso è stata preziosa: essa ha generato una nuova e più salda certezza, consegnandoci nel contempo un tesoro d’umiltà, ossia che esser certi ed essere infallibili sono cose ben differenti.
Pressione o leva?
In fondo il fanatismo è una maschera che palesa, in chi se ne serve, un devoto del potere ansioso di cogliere immediatamente i frutti del proprio sforzo “conversionistico”, l’adoratore di una religione della forza bruta che ha sacrificato lo Spirito Santo sull’altare dello spirito organizzato. Una fede senza speranza, priva di senso del mistero, pregna di quella falsa solennità in cui Borges ha visto un «simulacro della dignità e della saggezza», ignara tanto del paradosso della forza debole (nel Dio cristiano si incontrano estrema forza ed estrema soavità) quanto di quello del distacco.
Il distacco, questo marchio dell’autentica religiosità, rigetta il principio della pressione; esso sembra fondarsi piuttosto su un altro e ben diverso principio della fisica: quello della leva. Come ad unire in sé, in una misteriosa solidarietà, le leggi dello spirito e quelle della natura, il cristianesimo non si prefigge «di annullare la vita terrena, ma di innalzarla incontro a Dio che si abbassa. E come nel mondo fisico per sollevare un grosso peso ci vuole una leva, in cui la forza applicata deve trovarsi a una certa distanza dalla resistenza, così anche nel mondo morale la vita ideale deve avere una certa lontananza dalla vita immediata per poter agire su di essa con più forza, per poter agire su di essa con più forza, per poterla così più velocemente sollevare in alto. Solo chi è libero dal mondo può agire a suo vantaggio. Uno spirito prigioniero non ha la possibilità di trasformare la propria prigione in un tempio luminoso, deve innanzitutto uscirne» (Vladimir Solov’ëv, Islam ed ebraismo, La Casa di Matriona, Seriate (BG) 2002, p. 99).
È un prezioso condensato di saggezza quello di chi, come la Chiesa, seppure costantemente dileggiata dagli scherani della “dittatura del desiderio”, ci spinge al “sacrificio dell’immediato”, invitandoci a scansare le passioni “predatorie”.
Coniugare fermezza e mitezza, sapersi fare inermi lottatori (2) abbracciati alla croce, disarmati dell’odio che interiormente consuma. Qui, tra la leva e la croce, s’incammina l’unica via di fuga dalla prigione del regno della quantità e della ferrea legge del numero, cifra d’ogni fanatismo.

(*) La docilitas – elemento fondamentale della virtù della prudenza, che san Tommaso definisce genetrix virtutum, madre delle virtù – è la facoltà che per definizione marca il limite. Per docilitas va intesa «la capacità di istruirsi, che al cospetto della molteplicità delle cose e delle situazioni da apprendere, rinuncia a fuggire nell’assurda autarchia di un sapere presunto. S’intende la capacità di lasciarsi dire qualche cosa, che non sorge da una vaga modestia ma semplicemente dalla volontà di raggiungere una reale conoscenza (che include d’altronde necessariamente vera umiltà). Incapacità di apprendere e saccenteria sono in fin dei conti forme di resistenza contro la verità delle cose reali; ambedue poggiano sulla incapacità di obbligare il soggetto col suo «interesse» a quel tacere che è una premessa imprescindibile, dalla quale non si può transigere, di ogni conoscenza della realtà» (Josef Pieper,La prudenza, Morcelliana, Brescia 1999, p. 40).
 (A. Hofer)

* * *
 

(1): Di seguito un brano che traggo da "Semi di Contemplazione", di T. Merton
 
 Il diavolo ha un intero sistema teologico e filosofico per cui spiegherà, a chiunque voglia ascoltare, che tutte le cose create sono male, che gli uomini sono male, che Dio ha creato il male, che Egli vuole direttamente che gli uomini soffrano il male e gioisce delle sofferenze degli uomini, e che, in definitiva, tutto l’universo è pieno di miseria perché Dio così ha voluto e disposto.
Anzi, secondo questo sistema teologico, Dio Padre provò un autentico piacere a consegnare Suo Figlio ai carnefici e il Figlio di Dio venne sulla terra perché voleva essere punito dal Padre. E tutt’e due non cercano altro che di punire e di perseguitare i loro fedeli. Difatti, nel creare il mondo Dio sapeva benissimo che l’uomo avrebbe inevitabilmente peccato, ed era come se il mondo fosse stato creato per permettere all’uomo di peccare, onde Dio avesse occasione di manifestare la Sua giustizia.
Così, secondo il diavolo, la prima cosa ad essere creata fu proprio l’inferno — come se ogni altra cosa fosse in un certo modo creata per l’inferno. Quindi la vita «devota» di coloro che sono «fedeli» a questo genere di teologia consiste soprattutto nell’ossessione del male. E, come se non vi fossero già abbastanza guai nel mondo, costoro moltiplicano le proibizioni, inventano nuovi precetti, legano ogni cosa con spine, di modo che uno non può sfuggire al male ed al castigo; perché lo vorrebbero vedere sanguinare da mattina a sera, anche se, nonostante tutto questo sangue, non v’è remissione del peccato! La Croce quindi non è più simbolo di misericordia (perché la misericordia non trova posto in una simile teologia) ; ma è segno che la Legge e la Giustizia hanno trionfato in pieno, come se Cristo avesse detto: «Io sono venuto non per di-struggere la Legge, ma per essere da essa distrutto». Perché questo, secondo il diavolo, è l’unico modo in cui la Legge può essere veramente e pienamente «compiuta».
Non l’amore, ma il castigo è il compimento della Legge. La Legge deve divorare ogni cosa, anche Dio. Questa è la teologia del castigo, dell’odio, della vendetta. Colui che vuol vivere secondo un simile dogma, deve rallegrarsi del castigo. Egli può, difatti, evitare il castigo per sé, sgattaiolando fra la Legge e il Legislatore. Ma deve stare bene attento a che gli altri non sfuggano alla sofferenza, deve riempirsi la testa del loro castigo presente e futuro. La Legge deve trionfare. Non deve esservi misericordia.
Questo è il principale contrassegno della teologia dell’inferno, perché nell’inferno vi è tutto all’infuori della misericordia. Ecco perché Dio stesso è assente dall’inferno. La misericordia è manifestazione della Sua presenza.
La teologia del diavolo è per coloro che, o per una ragione o per l’altra, non hanno più bisogno di misericordia, sia perché sono perfetti, o perché sono giunti ad un accordo con la Legge. Di loro (gioia sinistra!) Dio è «soddisfatto». Lo è anche il diavolo. Ed è veramente una bella impresa far contenti tutti!
Coloro che ascoltano queste cose, e le assorbono, e ne gioiscono, ritengono che la vita spirituale sia una specie di ipnosi del male. I concetti di peccato, sofferenza, dannazione, punizione, giustizia di Dio, retribuzione, fine del mondo e così via, fanno loro schioccare le labbra con indicibile piacere. E ciò perché essi traggono un profondo, in-conscio conforto dal pensiero che molti cadranno nell’inferno che essi invece eviteranno. E come possono sapere che lo eviteranno? Non possono dare una ragione precisa, possono dire solo di provare un certo senso di sollievo al pensiero che tutti quei castighi sono preparati per la quasi totalità degli uomini, ma non per loro.
Tale sentimento di soddisfazione è ciò che essi definiscono «fede», e costituisce per loro una specie di assicurazione di «salvezza».
Il diavolo si procura molti discepoli, predicando contro il peccato. Li convince della grande malvagità del peccato, provoca in essi una crisi di «colpevolezza» che li persuade che Dio è «soddisfatto»; e poi fa che essi per il resto della loro vita meditino sulla terribile peccaminosità e l’evidente riprovazione degli altri uomini.
La teologia morale del diavolo parte dal principio: «Il piacere. è peccato». Poi lo rovescia e ne deduce che: «Ogni peccato è piacere».
Quindi egli fa notare che il piacere è praticamente inevitabile, che noi abbiamo una naturale tendenza a fare le cose che ci piacciono, e ne deduce che tutte le nostre tendenze naturali sono cattive e che la nostra natura è cattiva in se stessa. E ci porta alla conclusione che nessuno può sfuggire al peccato, perché il piacere è inevitabile.
Dopo di ciò, per essere sicuro che nessuno tenterà di sfuggire o di evitare il peccato, aggiunge che ciò che è inevitabile non può essere un peccato. Allora l’intero concetto di peccato viene gettato dalla finestra come trascurabile, e la gente decide che non rimane altro che vivere per il piacere, e in questo modo i piaceri che sono naturalmente buoni diventano cattivi a causa di questo sovvertimento, e la vita viene sprecata nell’infelicità e nel peccato.
Avviene qualche volta che coloro i quali predicano con maggior veemenza intorno al male e alla punizione del male, tanto da far pensare di non aver in mente altro che il peccato, sono in realtà inconsci odiatori del prossimo. Pensano che il mondo non li apprezzi, e questo è il loro modo di saldare la partita.
Il diavolo non ha paura di predicare la volontà di Dio, purché la possa predicare a suo modo.
L’argomento suona press’a poco così: «Dio vuole che tu faccia ciò che è giusto. Ma tu hai un’inclinazione interiore che ti fa distinguere, per mezzo di un caldo e piacevole senso di soddisfazione, quel che è giusto. Quindi, se altri cerca di intromettersi e di farti fare qualcosa che non produce questo confortevole senso di soddisfazione interiore, cita la Scrittura, rispondi che devi obbedire a Dio piuttosto che, agli uomini, poi tira diritto, fa’ la tua volontà, fa’ ciò che ti dà questo dolce piacevole ardore».
La teologia del diavolo non è, a dir vero, teologia ma magia. La «fede» per questa teologia non è credere in un Dio che si rivela come misericordia. È una «forza» psicologica soggettiva, che investe la realtà con una certa violenza allo scopo di mutarla secondo il proprio capriccio. La fede per questa teologia è una specie di brama ultra efficace; una supremazia che deriva da una forza di volontà particolare, misteriosamente dinamica, prodotta da «convinzioni profonde». In virtù di questa meravigliosa energia è possibile esercitare un’azione persuasiva nei confronti di Dio stesso e piegare la Sua volontà alla propria. Mediante questa nuova, sbalorditiva e dinamica tensione spirituale di fede (che qualsiasi ciarlatano è capace di suscitare in voi, purché lo paghiate abbastanza) voi potrete servirvi di Dio stesso come mezzo per raggiungere i vostri fini.
Diventiamo degli stregoni evoluti e Dio diventa nostro servo. Nonostante Egli sia di diritto il Dio terribile, Egli rispetta la nostra stregoneria, lasciandosi addomesticare da questa. Egli apprezzerà il nostro dinamismo e ricompenserà con il successo ogni nostra iniziativa. Saremo universalmente ammirati perché abbiamo la «fede». Saremo ricchi, perché abbiamo la «fede» Tutti i nemici del nostro Paese verranno a deporre le armi a nostri piedi, perché abbiamo la «fede». Gli affari prospereranno in tutto il mondo e potremo arricchirci alle spese di tutto di tutti in virtù della vita magica che conduciamo. Abbiamo la «fede».
Ma vi è anche una dialettica subdola in tutto questo.
Sentiamo dire che la fede può tutto. Allora chiudiamo gli occhi e ci sforziamo per pro-durre un po’ di questa «tensione spirituale». Crediamo, crediamo!
Non accade nulla.
Chiudiamo nuovamente gli occhi per produrre un po’ più di questa «tensione». Al diavolo piace che noi la produciamo. Egli ci aiuta a produrne in abbondanza. Stiamo proprio per buttar fuori questa tensione spirituale.
Ma non accade nulla.
E così andiamo avanti, andiamo avanti, finché ci disgustiamo. Ci stanchiamo di produrre questa «tensione». Ci stanchiamo di questa «fede» che non muta nulla della realtà; che non ci toglie le nostre preoccupazioni, non appiana i nostri contrasti, ci lascia vittime dell’incertezza, non rimuove dalle nostre spalle il fardello delle nostre responsabilità. Quella magia non è poi tanto efficace. Non ci convince del tutto che Dio è soddisfatto di noi, e nemmeno che noi siamo soddisfatti di noi stessi (benché, quanto a questo, bisogna dire che la fede di alcuni fa miracoli).
Essendo rimasti disgustati della fede, e quindi di Dio, siamo ora pronti a seguire il Movimento Totalitario di Massa che ci raccoglierà di rimbalzo, per renderci felici con la guerra, la persecuzione delle «razze inferiori» o delle classi che ci sono nemiche o, in generale, di chi è diverso da noi.
Un’altra caratteristica della teologia morale del diavolo è la distinzione esagerata che fa tra questo e quello, tra bene e male, tra giusto e ingiusto. Queste distinzioni diventano divisioni irriducibili. Non presuppongono che forse tutti più o meno abbiamo un poco di colpa, che dovremmo accollarci i torti degli altri per mezzo del perdono, della sopportazione, della comprensione paziente e dell’amore, aiutandoci così, a vicenda, a trovare la verità. Al contrario, nella teologia del diavolo la cosa importante è di avere sempre assolutamente ragione e di dimostrare che tutti gli altri hanno torto. Questo non porta certo alla pace e all’unione tra gli uomini, perché significa che ognuno vuole aver ragione ad ogni costo o star dalla parte di chi ha ragione. E, per dimostrare di aver ragione, i «fedeli» devono punire ed eliminare tutti quelli che sono nel torto.
Quelli che sono nel torto, a loro volta sono convinti di aver ragione… e così via…
Infine, come era da prevedersi, la teologia del diavolo riserva un posto di eccezionale importanza al… diavolo. Difatti, ben presto ci si accorge che egli è al centro di tutto il sistema. Che è lui che si cela dietro tutto. Che muove tutti nel mondo, tutti all’infuori di noi stessi. Che però egli cerca di estendere il suo potere anche su di noi, e che probabilmente vi riuscirà perché, almeno così ora ci sembra, il suo potere è uguale a quello di Dio, ed è forse anche più grande…
In una parola, la teologia del diavolo è tutta qui: che il diavolo è dio.
(Thomas Merton, Nuovi semi di contemplazione, trad. it, Garzanti, Milano 1965, pp. 76-81)

* * *

(2): Si crede comunemente (e non c’è nulla di più vero) che il cristiano sia l’uomo della pace. Egli aspira, infatti, a conseguire la pace in sè, a diffonderla, come un’onda di luce, intorno a sè.
Ma è anche l’uomo della guerra: l’uomo che risponde alla guerra con la guerra, perché la pace trionfi.
Nessuno ha più nemici di quest’uomo che non odia; e nessuno contro i propri nemici (che sono i nemici di Cristo) è più armato di lui e si batte con più valore di lui.
Eppure in apparenza è inerme.
Cristo e la Chiesa gil hanno dato un’arma misteriosa, della quale il mondo, che ne è sconfitto, si ride e di cui l’inferno, che sa, trema.
Quest’arma è la Croce; e il cristiano (il Santo) vi si crocifigge, per vincere.
La Croce, bassa per Cristo, per me altissima. Ma se voglio salirvi bisogna che mi abbassi ancora. Il sublime paradosso cristiano dice: Discendere per ascendere.
(Domenico Giuliotti, Pensieri di un malpensante, Vallecchi, Firenze 1937, pp. 45-46)