martedì 27 novembre 2012

Paolo VI e la fede del popolo



Erano passati solo cinque anni dalla conclusione del Concilio Ecumenico Vaticano II, e Papa Paolo VI pubblicava l’esortazione apostolica «Quinque iam anni» (8 dicembre 1970) (*), intervenendo con chiarezza nel travaglio vissuto dalla Chiesa nel post-concilio. Colpisce come già allora, il Papa del dialogo con il mondo evidenziasse con estrema chiarezza la tendenza a mettere in discussione l’essenziale della fede richiamando il dovere dei vescovi a difendere la fede dei semplici. Ve ne propongo alcuni brani.
«Molti fedeli sono turbati nella loro fede da un cumulo di ambiguità, d’incertezze e di dubbi che la toccano in quel che essa ha di essenziale. Tali sono i dogmi trinitario e cristologico, il mistero dell’Eucaristia e della presenza reale, la Chiesa come istituzione di salvezza, il ministero sacerdotale in mezzo al popolo di Dio, il valore della preghiera e dei sacramenti, le esigenze morali riguardanti, ad esempio, l’indissolubilità del matrimonio o il rispetto della vita umana. Anzi, si arriva a tal punto da mettere in discussione anche l’autorità divina della Scrittura, in nome di una radicale demitizzazione. Mentre il silenzio avvolge a poco a poco alcuni misteri fondamentali del cristianesimo, vediamo delinearsi una tendenza a ricostruire, partendo dai dati psicologici e sociologici, un cristianesimo avulso dalla Tradizione ininterrotta che lo ricollega alla fede degli Apostoli, e ad esaltare una vita cristiana priva di elementi religiosi».
«Eccoci allora chiamati – noi tutti che abbiamo ricevuto, con l’imposizione delle mani, la responsabilità di conservare puro e integro il deposito della fede e la missione di annunciare incessantemente il Vangelo – a offrire la testimonianza della nostra comune obbedienza al Signore. Per il popolo, che ci è stato affidato, è diritto imprescrittibile e sacro il ricevere la parola di Dio, tutta la parola di Dio, di cui la Chiesa non ha cessato di acquistare una sempre più profonda comprensione. Per noi è grave e urgente dovere di annunciargliela instancabilmente, perché esso cresca nella fede e nella intelligenza del messaggio cristiano e dia testimonianza, con tutta la sua vita, della salvezza in Gesù Cristo».
«Nell’attuale crisi che investe il linguaggio e il pensiero, spetta a ciascun Vescovo nella propria Diocesi, a ciascun Sinodo, a ciascuna Conferenza Episcopale curare attentamente che questo sforzo necessario non tradisca mai la verità e la continuità della dottrina della fede. Bisogna segnatamente vigilare affinché una scelta arbitraria non coarti il disegno di Dio entro le nostre umane vedute, e non limiti l’annuncio della sua Parola a quel che le nostre orecchie amano ascoltare, escludendo, secondo criteri puramente naturali, quel che non è di gradimento ai gusti odierni. “Ma anche se noi – ci previene l’apostolo Paolo – o anche un angelo del Cielo vi annunciasse un vangelo diverso da quello che noi vi abbiamo annunciato, sia anatema” (Gal. 1, 8)».
«Infatti, non siamo noi i giudici della parola di Dio: è essa che ci giudica e che mette in luce il nostro conformismo alla moda del mondo. “Le manchevolezze dei cristiani, anche di coloro che hanno la missione di predicare, non saranno mai nella Chiesa un motivo per attenuare il carattere assoluto della parola. Il filo tagliente della spada (Cfr. Hebr. 4, 12; Apoc. 1, 16; 2, 16) non potrà mai essere smussato. Essa mai potrà parlare della santità, della verginità, della povertà e dell’obbedienza diversamente da Cristo” (Hans Urs von Balthasar, Das Ganze im Fragment, Einsiedeln, Benziger, 1963, p. 296).
Lo ricordiamo di passaggio: se le inchieste sociologiche ci sono utili per meglio conoscere la mentalità dell’ambiente, le preoccupazioni e le necessità di coloro ai quali annunciamo la parola di Dio, come pure le resistenze che le oppone l’umana ragione nell’età moderna, con l’idea largamente diffusa che non esisterebbe, fuori della scienza, alcuna forma legittima di sapere, le conclusioni di tali inchieste non potrebbero costituire di per se stesse un criterio determinante di verità».
«All’indomani di un Concilio, che è stato preparato con le migliori conquiste della scienza biblica e teologica, un considerevole lavoro resta da compiere, specialmente per approfondire la teologia della Chiesa e per elaborare un’antropologia cristiana adeguata allo sviluppo delle scienze umane e alle questioni che esse pongono all’intelligenza dei credenti. Chi di noi non riconosce, con l’importanza di questo lavoro, le sue esigenze e non ne comprende le inevitabili incertezze? Ma, dinanzi alla rovina che causa oggi nel popolo cristiano la divulgazione di ipotesi avventate o di opinioni che turbano la fede, noi abbiamo il dovere di ricordare con il Concilio che la vera teologia si basa come su un fondamento perenne sulla parola di Dio scritta, inseparabile dalla sacra Tradizione (Cfr. Dei verbum, 24; A.A.S., LVIII (1966), p. 828)».
«Non ci riduca al silenzio, Fratelli carissimi, il timore delle critiche sempre possibili e a volte fondate. Per quanto necessaria la funzione dei teologi, non ai sapienti però Dio ha affidato la missione di interpretare autenticamente la fede della Chiesa: questa s’innesta nella vita di un popolo, di cui responsabili dinanzi a Dio sono i Vescovi. Tocca appunto a loro di annunciare a questo popolo quel che Dio gli domanda di credere». (A. Tornielli)


*  *  *

 (*): Di seguito il testo.
QUINQUE IAM ANNI
ESORTAZIONE APOSTOLICA
DI SUA SANTITÀ
PAOLO VI
 
Fratelli carissimi,
salute e Apostolica Benedizione
Sono ormai trascorsi cinque anni da quando i vescovi del mondo intero, dopo intense sessioni di lavoro vissute nella preghiera, nello studio, nello scambio fraterno di proposte e di idee, han fatto ritorno nelle loro diocesi, risoluti «a che nessun impedimento arrestasse quell’onda abbondante di grazie celesti che oggi “allieta la Città di Dio” (Ps. 45, 5), e perché in alcun modo si affievolisse quello slancio vitale, che attualmente pervade la Chiesa» (Postrema sessio, 4 nov. 1965; A.A.S., LVII (1965), p. 867).
Ringraziando Iddio per il lavoro compiuto, ciascuno di essi riportava dal Concilio, con l’esperienza vissuta della collegialità, i testi dottrinali e pastorali laboriosamente redatti, come altrettanti tesori spirituali da comunicare ai presbiteri, nostri collaboratori nel sacerdozio, ai religiosi e alle religiose, a tutti i membri del popolo di Dio, trattandosi di documenti destinati ad essere guida sicura per l’annuncio della parola di Dio nel nostro tempo e per l’interiore rinnovamento delle comunità cristiane.
Questo fervore non è diminuito. Ognuno al posto dove lo Spirito Santo lo ha chiamato a reggere la Chiesa di Dio (Cfr. Act. 20, 28), e tutti insieme, in vari modi, ma particolarmente nelle conferenze episcopali e nei sinodi dei vescovi, i successori degli Apostoli si sono applicati senza risparmio di forze a tradurre nella vita della Chiesa gli insegnamenti e le direttive conciliari. Secondo il voto espresso nella Nostra prima Enciclica «Ecclesiam suam» (Cfr. A.A.S., LVI (1964), pp. 609-659), il Concilio ha fatto sì che la Chiesa acquistasse una più profonda coscienza di se stessa. Esso ha posto in più chiara luce le esigenze della sua missione apostolica nel mondo contemporaneo, e l’ha aiutata a impegnarsi nel dialogo della salvezza in uno spirito autenticamente ecumenico e missionario.
Ma la Nostra intenzione, oggi, non è di tentare un bilancio delle ricerche, delle iniziative, delle riforme che si sono moltiplicate dopo la fine del Concilio. Con l’animo attento a discernere i segni dei tempi, Noi vorremmo, insieme con voi in spirito di fraternità, interrogarci sulla nostra fedeltà all’impegno da noi preso all’inizio del Concilio, nel nostro Messaggio a tutti gli uomini: «Noi cercheremo di presentare agli uomini d’oggi la verità di Dio nella sua integrità e nella sua purezza, in modo che essa sia resa loro intelligibile ed essi l’accolgano volentieri» (20 ottobre 1962; A.A.S., LIV (1962), p. 822).
Questo impegno la Costituzione pastorale Gaudium et spes - magna carta del Concilio sulla presenza della Chiesa nel mondo - lo ha precisato senza equivoci: «Posta in mezzo alle angosce del tempo presente, la Chiesa di Cristo non cessa tuttavia di nutrire la più ferma speranza. Agli uomini della nostra età essa intende suggerire continuamente, sia che l’accolgano favorevolmente o lo respingano come importuno, il messaggio che le viene dagli Apostoli» (Gaudium et spes, 82; A.A.S., LVIII (1966), pp. 1106-1107).
Indubbiamente i Pastori hanno sempre avuto questo dovere di trasmettere la fede nella sua pienezza e in maniera adeguata agli uomini del loro tempo, sforzandosi cioè di usare un linguaggio che fosse loro facilmente accessibile, rispondendo ai loro interrogativi, suscitando il loro interesse, aiutandoli a scoprire, attraverso l’insufficienza delle parole umane, tutto il messaggio di salvezza che Gesù Cristo ci ha portato. È infatti il collegio episcopale che, con Pietro e sotto la di lui autorità, garantisce la trasmissione autentica del deposito rivelato, e che appunto per questo ha ricevuto, secondo l’espressione di S. Ireneo, «un sicuro carisma di verità» (Adv. haer. IV, 26, 2; PG 7, 1053). Ed è la fedeltà della sua testimonianza, saldamente ancorata nella Tradizione e nella Sacra Scrittura, nutrita della vita ecclesiale di tutto il popolo di Dio, che consente alla Chiesa, grazie all’assistenza indefettibile dello Spirito Santo, di predicare senza mai venir meno la parola di Dio e di spiegarla in maniera progressiva.
Tuttavia, la condizione presente della fede esige da parte di noi tutti un maggiore sforzo perché tale parola, nella sua pienezza, giunga ai nostri contemporanei e le opere compiute da Dio siano ad essi mostrate senza alcuna adulterazione, con tutta l’intensità d’amore della verità che li salva (Cfr. 2 Thess. 2, 10). Infatti, nel momento stesso in cui la proclamazione della parola di Dio nella liturgia registra, grazie al Concilio, un meraviglioso rinnovamento, l’uso della Bibbia diventa sempre più familiare in mezzo al popolo cristiano; i progressi della catechesi, purché attuati secondo gli orientamenti conciliari, permettono di evangelizzare in profondità; la ricerca biblica, patristica e teologica offre spesso un prezioso contributo all’espressione viva del dato rivelato: ecco che molti fedeli sono turbati nella loro fede da un cumulo di ambiguità, d’incertezze e di dubbi che la toccano in quel che essa ha di essenziale. Tali sono i dogmi trinitario e cristologico, il mistero dell’Eucaristia e della presenza reale, la Chiesa come istituzione di salvezza, il ministero sacerdotale in mezzo al popolo di Dio, il valore della preghiera e dei sacramenti, le esigenze morali riguardanti, ad esempio, l’indissolubilità del matrimonio o il rispetto della vita umana. Anzi, si arriva a tal punto da mettere in discussione anche l’autorità divina della Scrittura, in nome di una radicale demitizzazione.
Mentre il silenzio avvolge a poco a poco alcuni misteri fondamentali del cristianesimo, vediamo delinearsi una tendenza a ricostruire, partendo dai dati psicologici e sociologici, un cristianesimo avulso dalla Tradizione ininterrotta che lo ricollega alla fede degli Apostoli, e ad esaltare una vita cristiana priva di elementi religiosi.
Eccoci allora chiamati - noi tutti che abbiamo ricevuto, con l’imposizione delle mani, la responsabilità di conservare puro e integro il deposito della fede e la missione di annunciare incessantemente il Vangelo - a offrire la testimonianza della nostra comune obbedienza al Signore. Per il popolo, che ci è stato affidato, è diritto imprescrittibile e sacro il ricevere la parola di Dio, tutta la parola di Dio, di cui la Chiesa non ha cessato di acquistare una sempre più profonda comprensione. Per noi è grave e urgente dovere di annunciargliela instancabilmente, perché esso cresca nella fede e nella intelligenza del messaggio cristiano e dia testimonianza, con tutta la sua vita, della salvezza in Gesù Cristo.
Questo il Concilio ha voluto richiamarcelo con forza: «Tra i principali doveri dei vescovi eccelle la predicazione del Vangelo. I vescovi, infatti, sono gli araldi della fede, che portano a Cristo nuovi discepoli, sono dottori autentici, cioè rivestiti dell’autorità di Cristo, che predicano al popolo loro affidato la fede di credere e da applicare nella pratica della vita e la illustrano alla luce dello Spirito Santo, traendo fuori dal tesoro della Rivelazione cose nuove e vecchie (Cfr. Matth. 13, 52), la fanno fruttificare e vegliano per tenere lontani dal loro gregge gli errori che lo minacciano (Cfr. 2 Tim, 4, l-4).
I vescovi quando insegnano in comunione col Romano Pontefice, devono essere da tutti ascoltati con venerazione quali testimoni della divina e cattolica verità; e i fedeli devono accettare il giudizio dato dal loro vescovo a nome di Cristo in cose di fede e di morale, e aderirvi con religioso rispetto» (Lumen gentium, 25; A.A.S., LVII (1965), pp. 29-30). Senza dubbio, la fede è sempre un assenso dato a motivo dell’autorità di Dio stesso. Ma il magistero dei vescovi è, per il credente, il segno ed il tramite che gli consente di ricevere e di riconoscere la parola di Dio. Ciascun vescovo, nella sua diocesi, è solidale con tutto il collegio episcopale, al quale è stato affidato, in quanto succede al collegio apostolico, l’ufficio di vigilare sulla purezza della fede e sull’unità della Chiesa.
II
Riconosciamolo francamente: nelle presenti circostanze, il compimento necessario e urgente di questo fondamentale dovere incontra più difficoltà di quante non ne incontrasse nel corso dei secoli passati.
In realtà, se l’esercizio del magistero episcopale era relativamente facile quando la Chiesa viveva a stretto contatto con la società del suo tempo, ispirava la sua cultura e le partecipava le sue forme di espressione, a noi oggi è richiesto un serio sforzo perché la dottrina della fede conservi la pienezza del suo contenuto e del suo significato, esprimendosi in una forma che le permetta di raggiungere la mente e il cuore di tutti coloro ai quali essa è diretta. Nessuno meglio del Nostro predecessore Giovanni XXIII, nel suo discorso di apertura delle assise conciliari, ha mostrato il dovere che noi abbiamo a questo riguardo: «Occorre che, rispondendo al vivo desiderio di quanti sono sinceramente attaccati a tutto ciò che è cristiano, cattolico e apostolico, questa dottrina sia più largamente e profondamente conosciuta, che le anime ne siano più intimamente penetrate e trasformate. Occorre che questa dottrina sicura e immutabile, la quale deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze della nostra epoca. Altro, infatti, è il deposito della fede in se stesso, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altro è la forma con la quale queste verità sono enunziate, conservando loro, tuttavia, lo stesso significato e lo stesso valore. Occorrerà dare molta importanza a questa forma e lavorare pazientemente, se necessario, alla sua elaborazione; si dovrà cioè far ricorso a modi di esposizione che meglio corrispondano a un insegnamento di indole soprattutto pastorale» (A.A.S., LIV (1962), p. 792).
Nell’attuale crisi che investe il linguaggio e il pensiero, spetta a ciascun Vescovo nella propria Diocesi, a ciascun Sinodo, a ciascuna Conferenza Episcopale curare attentamente che questo sforzo necessario non tradisca mai la verità e la continuità della dottrina della fede. Bisogna segnatamente vigilare affinché una scelta arbitraria non coarti il disegno di Dio entro le nostre umane vedute, e non limiti l’annuncio della sua Parola a quel che le nostre orecchie amano ascoltare, escludendo, secondo criteri puramente naturali, quel che non è di gradimento ai gusti odierni. «Ma anche se noi - ci previene l’apostolo Paolo - o anche un angelo del Cielo vi annunciasse un vangelo diverso da quello che noi vi abbiamo annunciato, sia anatema» (Gal. 1, 8).
Infatti, non siamo noi i giudici della parola di Dio: è essa che ci giudica e che mette in luce il nostro conformismo alla moda del mondo. «Le manchevolezze dei cristiani, anche di coloro che hanno la missione di predicare, non saranno mai nella Chiesa un motivo per attenuare il carattere assoluto della parola. Il filo tagliente della spada (Cfr. Hebr. 4, 12; Apoc. 1, 16; 2, 16) non potrà mai essere smussato. Essa mai potrà parlare della santità, della verginità, della povertà e dell’obbedienza diversamente da Cristo» (HANS URS VON BALTHASAR, Das Ganze im Fragment, Einsiedeln, Benziger, 1963, p. 296).
Lo ricordiamo di passaggio: se le inchieste sociologiche ci sono utili per meglio conoscere la mentalità dell’ambiente, le preoccupazioni e le necessità di coloro ai quali annunciamo la parola di Dio, come pure le resistenze che le oppone l’umana ragione nell’età moderna, con l’idea largamente diffusa che non esisterebbe, fuori della scienza, alcuna forma legittima di sapere, le conclusioni di tali inchieste non potrebbero costituire di per se stesse un criterio determinante di verità.
Non dobbiamo peraltro ignorare i problemi che incontra oggi un credente, giustamente desideroso di progredire ulteriormente nell’intelligenza della sua fede. Questi problemi dobbiamo conoscerli, non per mettere in dubbio il loro giusto fondamento o per negarne le esigenze, ma per accoglierne le giuste richieste, sul piano nostro, quello della fede. Questo è vero per i grandi interrogativi dell’uomo moderno sulle sue origini, sul significato della vita, sulla felicità alla quale aspira, come sul destino della umana famiglia. Ma questo non è meno vero per le questioni che pongono oggi i dotti, gli storici, gli psicologi, i sociologi, e che sono per noi altrettanti stimoli a meglio annunciare, nella sua trascendenza incarnata, la Buona Novella di Cristo Salvatore, la quale non contraddice affatto alle scoperte dello spirito umano, ma lo eleva al piano delle realtà divine, sino a farlo partecipe, in maniera ancora balbettante e incipiente, ma tuttavia reale, a quel mistero d’amore, del quale l’apostolo ci dice che «sorpassa ogni conoscenza» (Eph. 3, 19).
A coloro che si assumono nella Chiesa il compito delicato di approfondire l’insondabile ricchezza di tale mistero, teologi ed esegeti in particolare, noi daremo a testimonianza un incoraggiamento e un sostegno che li aiuterà a condurre avanti il loro lavoro nella fedeltà alla grande corrente della Tradizione cristiana (Cfr. Relatio Commissionis in Synodo Episcoporum constitutae, Roma, ott. 1967, pp. 10-11). È stato detto, or non è molto, assai giustamente: «La teologia, come scienza della fede, non può trovare il suo luogo se non nella Chiesa, comunità dei credenti. Quando la teologia rinnega i suoi presupposti e intende altrimenti il suo luogo, perde il suo fondamento e il suo oggetto. La libertà religiosa affermata dal Concilio, che si appoggia sulla libertà di coscienza, vale per la decisione personale di fronte alla fede, ma non è assolutamente valida per la determinazione del contenuto e della portata della rivelazione divina» (Cfr. Dichiarazione dei Vescovi tedeschi, Fulda, 27 dicembre 1968, in «Herder Korrespondenz», Friburgo in Brisgovia, genn. 1969, p. 75). Così pure, l’utilizzazione delle scienze umane nei lavori di ermeneutica è una forma di investigazione del dato rivelato; ma questo non potrebbe ridursi ad oggetto delle loro analisi, perché le trascende sia per la sua origine sia per il suo contenuto.
All’indomani di un Concilio, che è stato preparato con le migliori conquiste della scienza biblica e teologica, un considerevole lavoro resta da compiere, specialmente per approfondire la teologia della Chiesa e per elaborare un’antropologia cristiana adeguata allo sviluppo delle scienze umane e alle questioni che esse pongono all’intelligenza dei credenti. Chi di noi non riconosce, con l’importanza di questo lavoro, le sue esigenze e non ne comprende le inevitabili incertezze? Ma, dinanzi alla rovina che causa oggi nel popolo cristiano la divulgazione di ipotesi avventate o di opinioni che turbano la fede, noi abbiamo il dovere di ricordare con il Concilio che la vera teologia si basa come su un fondamento perenne sulla parola di Dio scritta, inseparabile dalla sacra Tradizione (Cfr. Dei verbum, 24; A.A.S., LVIII (1966), p. 828).
Non ci riduca al silenzio, Fratelli carissimi, il timore delle critiche sempre possibili e a volte fondate. Per quanto necessaria la funzione dei teologi, non ai sapienti però Dio ha affidato la missione di interpretare autenticamente la fede della Chiesa: questa s’innesta nella vita di un popolo, di cui responsabili dinanzi a Dio sono i Vescovi. Tocca appunto a loro di annunciare a questo popolo quel che Dio gli domanda di credere.
Per ciascuno di noi tutto questo esige molto coraggio, perché se siamo aiutati dall’esercizio comunitario di questa responsabilità di sede di sinodo dei Vescovi e di Conferenza Episcopale, non in minor misura entra qui in gioco la responsabilità personale, assolutamente inalienabile, dovendosi dare risposta a bisogni immediati e quotidiani del popolo di Dio. Non è il momento di domandarci, come alcuni vorrebbero insinuare, se è veramente utile, opportuno, necessario parlare, ma piuttosto di usare i mezzi per farci capire. A noi Vescovi è diretta di certo l’esortazione di Paolo a Timoteo: «Ti scongiuro davanti a Dio e a Gesù Cristo, che deve giudicare i vivi e i morti e per la sua venuta e per il suo regno: predica la parola, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi, minaccia, esorta con tutta pazienza e dottrina. Perché verrà un tempo in cui gli uomini non sopporteranno più la sana dottrina, ma sollecitati ad ascoltare cose piacevoli, si circonderanno di una folla di dottori secondo i loro capricci e, distogliendo l’orecchio dalla verità, si volgeranno a favole. Quanto a te, sii vigilante in tutto, paziente nelle sofferenze, fa’ opera di vero evangelizzatore, compi bene il tuo ministero» (2 Tim. 4. l-5).
III
Che ciascuno di noi, Fratelli carissimi, si interroghi circa il modo con cui adempie questo sacro dovere; esso esige da noi un culto assiduo della parola rivelata e una costante attenzione alla vita degli uomini.
Come potremmo, infatti, annunciare con frutto la parola di Dio, se questa non ci fosse divenuta familiare con la meditazione e la preghiera di ogni giorno? E come essa potrebbe essere accolta se non fosse sostenuta da una vita di fede profonda, di operosa carità, di totale obbedienza, di preghiera fervente e di umile penitenza? Dopo aver insistito, come dovevamo, sull’insegnamento della dottrina della fede, dobbiamo aggiungere: la cosa spesso più necessaria non è tanto una sovrabbondanza di parole, quanto una parola che sia in consonanza con una vita più evangelica. Sì, il mondo ha bisogno della testimonianza dei santi, perché «in essi - ci ricorda il Concilio - è Dio stesso che ci parla: Egli ci offre un segno del suo regno, al quale siamo potentemente attirati
» (Lumen gentium, 50; A.A.S., LVII (1965), p. 56).
Facciamo attenzione ai problemi che sorgono dalla vita degli uomini, specialmente dei giovani: «Se un figlio domanda del pane - dice Gesù - quale è fra di voi quel padre che gli darà un sasso?» (Luc. 11, 11). Accogliamo volentieri le istanze che vengono a turbare la nostra pacifica quiete. Siamo pazienti davanti alle indecisioni di coloro che cercano come a tentoni la luce. Sappiamo camminare fraternamente con tutti coloro che, privi di questa luce, della quale noi godiamo i benefici, nondimeno tendono, attraverso le nebbie del dubbio, verso la casa paterna. Ma se noi prendiamo parte alle loro angosce, sia per cercare di guarirle; se noi presentiamo loro Gesù Cristo, questi sia il Figlio di Dio fatto uomo per salvarci e per comunicarci la sua vita, non una figura puramente umana, per quanto meravigliosa e attraente possa essere per il nostro spirito (Cfr. 2 Io. 7, 9).
In questa fedeltà a Dio e agli uomini, ai quali siamo da lui inviati, noi sapremo prendere, certo con delicatezza e prudenza, ma con chiaroveggenza e fermezza, le indispensabili decisioni per un giusto discernimento, Ecco, senza dubbio, uno dei compiti più difficili, ma anche, oggi, dei più necessari, per l’episcopato. Infatti, nel contrasto delle opposte ideologie c’è pericolo che la più grande generosità si accompagni ad affermazioni quanto mai discutibili: «anche in mezzo a noi - come al tempo di San Paolo - sorgono uomini che insegnano delle dottrine perverse per trascinar dietro a sé dei discepoli» (Act. 20, 30), e coloro che parlano in tal modo sono a volte persuasi di farlo in nome di Dio, illudendosi sullo spirito che li anima. Siamo noi abbastanza vigili, per ben discernere la parola di fede, sui frutti che essa produce? Potrebbe venire da Dio una parola che faccia perdere ai fedeli il senso della rinunzia evangelica, o che proclami la giustizia tralasciando di annunciare la dolcezza, la misericordia e la purezza, una parola che ponga i fratelli contro i fratelli? Gesù ci ha avvertiti: «dai loro frutti li riconoscerete» (Matth. 7, 15-20).
Proprio tutto questo chiediamo ai collaboratori, che hanno con noi il compito di predicare la parola di Dio. Che la loro testimonianza sia sempre quella del Vangelo e la loro parola quella del Verbo che suscita la fede e, con essa, l’amore verso i nostri fratelli trascinando tutti i discepoli del Cristo a permeare del suo spirito la mentalità, i costumi, e la vita della città terrestre (Cfr. Apostolicam actuositatem, 7, 13, 24; A.A.S., LVIII (1966), pp. 843-844; 849-850; 856-857).
È così, secondo la meravigliosa espressione di S. Agostino, che «persino col ministero di uomini timidi Dio parla liberamente» (Enar. in Ps. 103; Sermo 1, 19; PL 37, 1351). Questi sono, Fratelli carissimi, alcuni dei pensieri che ci suggerisce l’anniversario del Concilio, questo «provvidenziale strumento del vero rinnovamento della Chiesa» (Cfr. Postrema Sessio; A.A.S., LVII (1965), p. 865). Esaminandoci con voi in fraterna semplicità sulla Nostra fedeltà a questa missione primordiale dell’annuncio della parola di Dio abbiamo avuto la consapevolezza di compiere un imperioso dovere. Ci sarà forse qualcuno che se ne meraviglierà o vorrà contestarlo? Con animo sereno Noi vi consideriamo testimoni di questa necessità che ci spinge ad essere fedeli al Nostro ufficio pastorale e di questo desiderio che ci muove a prendere con voi mezzi che siano insieme i più adatti al nostro tempo ed i più conformi all’insegnamento del Concilio, per meglio assicurarne la fecondità. Affidandoci con voi alla dolce maternità di Maria Vergine, Noi imploriamo di gran cuore sulle vostre persone, come sul vostro ministero pastorale, l’effusione delle grazie di «Colui che tutto può, infinitamente di più di tutto ciò che possiamo domandare o pensare mediante la potenza con cui già opera in noi; a Lui sia gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù. Amen» (Eph. 3 , 20-21). Con la Nostra affettuosa Apostolica Benedizione.
Dato a Roma, presso S. Pietro, nella festa dell’Immacolata Concezione della B. Vergine Maria, 1970, anno ottavo del Nostro Pontificato.
PAULUS PP. VI