domenica 2 dicembre 2012

Avvento: arte di attendere la salvezza



Riporto di seguito due artcoli sull'Avvento: da "Avvenire" di oggi, 2 dicembre, a firma di Luigino Bruni e da "Il Sole 24 Ore", a firma di Mons. Bruno Forte.
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L’Avvento – ogni avvento, e ogni ve­ra attesa di salvezza – è una e­sperienza fondamentale soprattutto nei tempi di crisi. Non si esce da nes­suna crisi se non ci si esercita nell’arte dell’attesa di una salvezza, arte gioio­sa e dolorosa assieme. Una salvezza che occorre prima volere per poi deside­rarla. La nostra è crisi epocale perché manca il desiderio di salvezza, e man­ca perché non abbiamo, collettiva­mente, occhi capaci di vederla o, quan­tomeno, di intravvederla.

Per chiedere 'quanto manca al giorno?', è necessa­rio il desiderio dell’alba, e saperne ri­conoscere i segni. In questi anni si an­nunciano troppe 'albe', perché ognu­no vede i segni della propria alba lad­dove per altri è solo notte fonda. Qualcuno la in­dividua nella ri­presa del Pil, e spera di veder­ne i primi se­gnali nella ri­presa dei con­sumi (la malat­tia che diventa cura), altri in u­na ecumenica, ma piuttosto vaga, 'econo­mia sociale di mercato', altri ancora nella eliminazione dei partiti per affidare anche la cosa pubblica a impre­se for-profit, realtà finalmente efficienti e responsabili. Tutte queste 'albe' non sono però abbastanza forti e cariche sim­bolicamente per muovere le passioni u­mane alte, e quindi per aggregare attor­no a esse grandi azioni collettive e po­polari. E così più scorre il tempo, più lon­tana appare - ed è - la fine della notte. U­na economia dell’attesa oggi dovrebbe contenere alcune parole fondamentali. Insieme a 'lavoro' e 'giovani', su cui non si scrive e soffre mai abbastanza, ci sono almeno tre parole che se mancano dal vocabolario e dalla grammatica civi­le, rendono illusione ogni attesa.

La prima di queste parole è virtù, in par­ticolare virtù civile. C’è invece tutta un’antica e persino gloriosa tradizione che ha teorizzato che dalle crisi si esce con i vizi, non con le virtù. Ma l’attesa è una virtù poiché va coltivata, accudita, mantenuta soprattutto quando i tempi sono duri. Bernard de Mandeville, tre­cento anni fa, ci ha raccontato 'La favo­la delle api', dove la conversione dell’al­veare vizioso (ma opulento) in virtuoso aveva prodotto miseria per tutti. La tesi è chiara: solo i vizi creano sviluppo, per­ché se la gente non ama lusso, comodità, edonismo, giochi, l’economia si blocca per mancanza di domanda. 
E questo varrebbe anche e soprattutto in un Paese come il nostro la cui economia dipende molto, forse troppo, dal consumo di questi beni. È un’idea che purtroppo si ritrova ben radicata in buona parte della classe dirigente italiana, che invoca le virtù civili ormai solo in riferimento all’evasione fiscale, senza comprendere la regola elementare che sta alla base della vita in comune: se uno 'spot progresso' condanna il «parassita sociale» e quello successivo spinge il gioco d’azzardo, i due segni si annullano l’un l’altro. La vera lotta all’evasione si chiama coerenza etica, che diventa forza politica e amministrativa.

Una seconda grande parola dell’attesa è 'relazioni'. Sono impressionanti i dati sull’aumento della litigiosità nel nostro Paese durante questa crisi. Dai condomini ai rapporti con i colleghi, dal traffico alle denunce a maestri e dottori, la crisi sta incattivendo le relazioni di prossimità – sebbene, come sempre accade, questi anni vedano anche il fiorire di nuove esperienze di relazioni virtuose e produttive. Il peggiorare delle relazioni è un dato preoccupante, perché altre gravi crisi che abbiamo attraversato (pensiamo alle grandi guerre e alla dittatura) avevano nella sofferenza rinsaldato i legami sociali, ri-creato amicizia e concordia civile che furono essenziali anche per la ripresa economica. Se non saremo capaci di curare le nostre antiche e nuove malattie relazionali (che cos’è la corruzione se non relazioni malate che creano istituzioni malate che a loro volta riproducono relazioni ancora più malate?), nessuna economia, che è prima di tutto un intreccio di relazioni, potrà mai ripartire.

Infine, una terza parola è 'imprenditore'. I grandi maestri dell’attesa sono stati e sono i contadini, gli artisti, gli scienziati, soprattutto le madri. Ma anche l’imprenditore. I veri imprenditori, tutti e soprattutto quelli medio­piccoli, i cooperatori, gli imprenditori civili e sociali, oggi stanno soffrendo molto, più di quanto si dica e si racconti. Questi imprenditori nei decenni passati sono stati capaci di creare valore dai valori 'mettendo a reddito' le vocazioni produttive e cooperative delle nostre valli, dei borghi, delle montagne, delle coste e del mare, e oggi vedono svanire ricchezza e lavoro per le strette creditizie, per la mancanza di politiche di sistema, e per l’invasione di speculatori che spiazzano e spesso mangiano le loro imprese. L’imprenditore è uomo e donna dell’attesa, perché vive solo se è capace di sperare (la speranza, altra virtù civile), perché se non sperasse che il mondo di domani potrà essere migliore di quello di oggi, farebbe meglio a godersi le sue risorse, o a speculare in cerca di profitti (solo degli speculatori senza scrupoli possono fare miliardi di profitti inquinando e uccidendo territori e persone). Chi ha generato e fatto crescere un’impresa sa che i momenti più importanti della sua storia sono stati quelli nei quali è stato capace di attesa di una salvezza e di speranza contro gli eventi, contro i consigli prudenti degli amici ('ma chi te lo fare?'), contro le previsioni degli esperti ('ma perché non vendi?'), quando ha avuto la forza di insistere e credere nel suo progetto. Il mondo - e in esso l’Italia - vive ancora perché esistono persone capaci di attendere e di sperare in una salvezza, in attesa di un’alba, di un Natale.

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Il villaggio globale deve ritrovare la speranza
di Bruno Forte
da “Il sole 24 Ore” di oggi, 2 dicembre 2012
Avvento: un tempo dell'anno liturgico che nella cosiddetta "era di cristianità" segnava ancora, in 
qualche misura, la temperatura della vita sociale. Oggi certamente non è più così. E tuttavia, il 
messaggio di questo tempo d'attesa, che prepara nella speranza e nel desiderio la nascita di Colui 
che per la fede cristiana è il Figlio di Dio fatto uomo per noi, mi sembra abbia ancora da dire 
qualcosa d'importante a noi, abitatori del post-moderno e delle sue inquietudini.
Di fronte alla crisi che attraversa il "villaggio globale", di fronte alla penuria di fiducia che si fa
strada in tanti a causa delle difficoltà del presente, un'iniezione di desiderio e di speranza ha il
valore  della  boccata  d'ossigeno  offerta  a  coloro  cui  sta  mancando  l'aria.  Lo  aveva  intuito  il
pensatore marxista Ernst Bloch, quando - nel tempo dell'ideologia trionfante, intravedendone già i
segnali di crisi - aveva puntato tutto su Il principio di speranza: «Solo con la liquidazione del
concetto di essere statico si apre la dimensione effettiva della speranza. II mondo è pieno di
disposizione nei confronti di qualcosa, di tendenza verso qualcosa, di latenza di qualcosa.» (vol. I,
23). I1 pensiero, insomma, afferra ciò che è già stato, ma il più gli è davanti in-compreso, «patria
intravista, ma non posseduta»: «In quel campo di problemi che è il "novum" è di per sé collocata la
pienezza di campi ancora vergini del sapere; il sapere mondano vi ridiventa giovane e originario»
(ib.). Verso questo "novum" si protende la «coscienza anticipante», disvelata nei «piccoli sogni a
occhi aperti», che fanno la vita. Ed è in questa coscienza anticipante che il "nuovo" viene a incidere
sul presente e ad aprirlo all'avvenire della speranza, rendendo ogni attesa passione per compimenti
futuri: «Ogni sogno resta sogno perché troppo poco ancora gli è riuscito, si è compiuto. Perciò esso
non può dimenticare ciò che resta, in tutte le cose mantiene la porta aperta. La porta almeno
semiaperta, quando sembra aprirsi su oggetti propizi, si chiama speranza» (I,390). Pensare nella
speranza non è solo allora pensare la speranza, ma restare desti nel sogno, anticipando l'avvenire e
costruendolo, pur senza mai raggiungere alcuna presuntuosa e ambigua estasi dell'adempimento,
come l'ideologia indulgeva a far credere.
Se merito di Bloch è stato l'aver fatto della speranza il principio del conoscere e dell'agire umano,
liberando il cor inquietum dalle secche dell'ideologia paralizzante, l'utopia che egli propone non
esce dalle limitate possibilità dell'umano: lo rilevava sin dall'inizio del suo dialogo con lui Jürgen
Moltmann, il teologo della speranza: «Il ricordo della promessa ... pungola come una spina nella
carne qualsiasi presente e lo apre al futuro... Appunto questa promissio inquieta impedisce che
l'esperienza umana del mondo diventi una completa e autosufficiente immagine cosmica della
divinità e fa sì, invece, che essa rimanga aperta alla storia» (Teologia della speranza, 85). Non è
l'esodo umano che "spiega" l'avvento divino e lo contiene in sé come latenza da disvelare: è
piuttosto l'avvento che, raggiungendo la storia, la apre al futuro e la rende nuova. «L'escatologia
cristiana parla di Cristo e del suo futuro. Il suo linguaggio è il linguaggio della promessa. Essa
intende la storia come la realtà inaugurata dalla promessa. Nella promessa e nella speranza presente,
il futuro della promessa, che non si è ancora realizzato, si trova in contraddizione con la realtà data. 
In questa contraddizione si fa l'esperienza della storicità del reale sulla linea del fronte che divide il
presente dal futuro che è stato promesso. La storia, con le sue estreme possibilità e pericoli, viene
rivelata nell'evento della risurrezione e della croce di Cristo» (229). Per Bloch - come per ogni
visione ideologica - il futuro della speranza non è che il nascosto presente del mondo, mentre la
speranza teologale è fondata nel sorprendente venire del Deus absconditus. Con le ideologie non si
esce dal dominio del soggetto storico: senza l'avvento dell'Altro, sovrano e trascendente, fattosi a
nostra misura per amore nostro, la speranza resta utopia, prigioniera delle proiezioni di ciò che è già
dato e non si apre alla novità ultima, di cui ha così profondamente bisogno l'uomo, specialmente
post-ideologico, per vivere e per morire.


Come scrive Benedetto XVI nell'Enciclica Spe salvi (2007), «la vera, grande speranza dell'uomo,
che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio - il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora
sino alla fine, fino al pieno compimento» (n.27). Di questa speranza, eccedente rispetto ai nostri
calcoli, e tuttavia garantita nella promessa divina, abbiamo tutti urgente necessità per scommettere
ancora sul nostro futuro: ne hanno bisogno i giovani, cui il quadro delle possibilità loro offerte
sembra schiudere solo scenari di sfiducia; ne hanno bisogno i lavoratori e le loro famiglie, in
particolare quanti hanno perso il lavoro o lo vedono a rischio in questa stagione di crisi; ne hanno
bisogno gli anziani, per dare senso e bellezza a ciascuno dei loro giorni carichi di vita passata, ma
anche di possibilità presenti di gesti d'amore. Ne ha bisogno l'intero Paese: un'Italia rinunciataria
davanti al futuro sarebbe un Paese in disfatta, peggio ancora poi se cadesse preda dei calcoli di
piccolo cabotaggio, che troppo spesso hanno ispirato e ispirano le parti in gioco nell'agone politico.
Bisogna abituarsi tutti a pensare in grande, per il bene comune. Sperare ed essere pronti a pagare
ciascuno il prezzo d'impegno, di sobrietà e di solidarietà perché l'attesa buona possa divenire realtà,
è sfida che ci tocca tutti, proprio al servizio di questo comune futuro di bene. E in questo l'avvento
ci ricorda che non siamo soli, perché un Altro è venuto a visitarci e a fare sue le nostre prove e le
nostre speranze più vere. Perciò, questo tempo liturgico del desiderio e dell'attesa può parlare a
ognuno di noi, e riscoprirne la forza sorgiva e nascosta, che si schiude insieme luminosa e discreta
agli occhi di chi crede e credendo ascolta e invoca, non può essere che dono e ragione di vita per
tutti.