venerdì 21 dicembre 2012

Benedetto XVI: Alla Chiesa e al mondo intero...

 

... anche a quelli che stanno con Platone, come l'ottimo Massimo Gramellini. (*)


Roma, 21 dicembre 2012.

Nel discorso prenatalizio alla curia romana, Benedetto XVI ha criticato a fondo l'idea che i sessi siano il prodotto della società e dell'individuo. In difesa della famiglia fatta di padre, madre e figli. E in pieno accordo con il gran rabbino di Francia Gilles Bernheim

Augurando stamane un felice Natale alla curia romana, Benedetto XVI si è rivolto in realtà all'intera Chiesa e al mondo.

Come già negli anni precedenti, anche questa volta nel discorso prenatalizio alla curia – integralmente scritto di suo pugno – egli ha voluto dare evidenza alle linee maestre del suo pontificato. 

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Di seguito il testo.

Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato,
cari fratelli e sorelle!
Con grande gioia vi incontro oggi, cari Membri del Collegio Cardinalizio, Rappresentanti della Curia Romana e del Governatorato, per questo tradizionale momento prima del Santo Natale. Rivolgo a ciascuno un cordiale saluto, iniziando dal Cardinale Angelo Sodano, che ringrazio per le belle parole e per i fervidi auguri che mi ha indirizzato anche a nome vostro. Il Cardinale Decano ci ha ricordato un’espressione che ritorna spesso in questi giorni nella liturgia latina: Prope est iam Dominus, venite, adoremus!
Il Signore è ormai vicino, venite adoriamolo! Anche noi, come un’unica famiglia ci disponiamo ad adorare, nella grotta di Betlemme, quel Bambino che è Dio stesso fattosi così vicino da diventare uomo come noi. Ricambio volentieri gli auguri e ringrazio di cuore tutti, compresi i Rappresentanti Pontifici sparsi per il mondo, per la generosa e qualificata collaborazione che ognuno di voi presta al mio Ministero. Ci troviamo alla fine di un anno che nuovamente, nella Chiesa e nel mondo, è stato caratterizzato da molteplici situazioni travagliate, da grandi questioni e sfide, ma anche da segni di speranza. Menziono soltanto alcuni momenti salienti nell’ambito della vita della Chiesa e del mio ministero petrino. Ci sono stati, come ha detto il cardinale Decano, anzitutto i viaggi in Messico e a Cuba – incontri indimenticabili con la forza della fede, profondamente radicata nei cuori degli uomini, e con la gioia per la vita che scaturisce dalla fede. Ricordo che, dopo l’arrivo in Messico, ai bordi della lunga strada da percorrere, c’erano interminabili schiere di persone che salutavano, sventolando fazzoletti e bandiere. Ricordo che durante il tragitto verso Guanajuato, pittoresca capitale dello Stato omonimo, c’erano giovani devotamente inginocchiati ai margini della strada per ricevere la benedizione del Successore di Pietro; ricordo come la grande liturgia nelle vicinanze della statua di Cristo Re sia diventata un atto che ha reso presente la regalità di Cristo – la sua pace, la sua giustizia, la sua verità. Tutto ciò sullo sfondo dei problemi di un Paese che soffre per molteplici forme di violenza e per le difficoltà di dipendenze economiche. Sono problemi che, certo, non possono essere risolti semplicemente mediante la religiosità, ma lo possono ancor meno senza quella purificazione interiore dei cuori che proviene dalla forza della fede, dall’incontro con Gesù Cristo. E c’è stata poi l’esperienza di Cuba – anche qui le grandi liturgie, nei cui canti, preghiere e silenzi si è resa percepibile la presenza di Colui al quale, per molto tempo, si era voluto rifiutare un posto nel Paese. La ricerca, in quel Paese, di una giusta impostazione del rapporto tra vincoli e libertà, sicuramente non può riuscire senza un riferimento a quei criteri di fondo che si sono manifestati all’umanità nell’incontro con il Dio di Gesù Cristo. Quali ulteriori tappe dell’anno che volge al termine, vorrei menzionare la grande Festa della Famiglia a Milano, come anche la visita in Libano con la consegna dell’Esortazione Apostolica Postsinodale, che ora dovrà costituire, nella vita delle Chiese e della società in Medio Oriente, un orientamento sulle difficili vie dell’unità e della pace. L’ultimo avvenimento importante di questo anno che sta tramontando è stato il Sinodo sulla Nuova Evangelizzazione che è stato contemporaneamente un inizio comunitario dell’Anno della Fede, con cui commemoriamo l’inaugurazione del Concilio Vaticano II, cinquant’anni orsono, per comprenderlo e assimilarlo nuovamente nella mutata situazione.
Con tutte queste occasioni si sono toccati temi fondamentali del nostro momento storico: la famiglia (Milano), il servizio alla pace nel mondo e il dialogo interreligioso (Libano), come anche l’annuncio del messaggio di Gesù Cristo nel nostro tempo a coloro che ancora non l’hanno incontrato e ai tanti che lo conoscono soltanto dall’esterno e, proprio per questo, non lo riconoscono.
Tra queste grandi tematiche vorrei riflettere un po’ più dettagliatamente soprattutto sul tema della famiglia e sulla natura del dialogo, per aggiungere poi ancora una breve annotazione sul tema della Nuova Evangelizzazione. La grande gioia con cui a Milano si sono incontrate famiglie provenienti da tutto il mondo ha mostrato che, nonostante tutte le impressioni contrarie, la famiglia è forte e viva anche oggi. È incontestabile, però, anche la crisi che – particolarmente nel mondo occidentale – la minaccia fino nelle basi. Mi ha colpito che nel Sinodo si sia ripetutamente sottolineata l’importanza della famiglia come luogo autentico in cui si trasmettono le forme fondamentali dell’essere persona umana. Le si impara vivendole e anche soffrendole insieme. Così si è reso evidente che nella questione della famiglia non si tratta soltanto di una determinata forma sociale, ma della questione dell’uomo stesso – della questione di che cosa sia l’uomo e di che cosa occorra fare per essere uomini in modo giusto. Le sfide in questo contesto sono complesse. C’è anzitutto la questione della capacità dell’uomo di legarsi oppure della sua mancanza di legami. Può l’uomo legarsi per tutta una vita? Corrisponde alla sua natura? Non è forse in contrasto con la sua libertà e con l’ampiezza della sua autorealizzazione? L’uomo diventa se stesso rimanendo autonomo e entrando in contatto con l’altro solo mediante relazioni che può interrompere in ogni momento? Un legame per tutta la vita è in contrasto con la libertà? Il legame merita anche che se ne soffra? Il rifiuto del legame umano, che si diffonde sempre più a causa di un’errata comprensione della libertà e dell’autorealizzazione, come anche a motivo della fuga davanti alla paziente sopportazione della sofferenza, significa che l’uomo rimane chiuso in se stesso e, in ultima analisi, conserva il proprio “io” per se stesso, non lo supera veramente. Ma solo nel dono di sé l’uomo raggiunge se stesso, e solo aprendosi all’altro, agli altri, ai figli, alla famiglia, solo lasciandosi plasmare nella sofferenza, egli scopre l’ampiezza dell’essere persona umana. Con il rifiuto di questo legame scompaiono anche le figure fondamentali dell’esistenza umana: il padre, la madre, il figlio; cadono dimensioni essenziali dell’esperienza dell’essere persona umana.
Il Gran Rabbino di Francia, Gilles Bernheim, in un trattato accuratamente documentato e profondamente toccante, ha mostrato che l’attentato, al quale oggi ci troviamo esposti, all’autentica forma della famiglia, costituita da padre, madre e figlio, giunge ad una dimensione ancora più profonda. Se finora avevamo visto come causa della crisi della famiglia un fraintendimento dell’essenza della libertà umana, ora diventa chiaro che qui è in gioco la visione dell’essere stesso, di ciò che in realtà significa l’essere uomini. Egli cita l’affermazione, diventata famosa, di Simone de Beauvoir: “Donna non si nasce, lo si diventa” (“On ne naît pas femme, on le devient”). In queste parole è dato il fondamento di ciò che oggi, sotto il lemma “gender”, viene presentato come nuova filosofia della sessualità. Il sesso, secondo tale filosofia, non è più un dato originario della natura che l’uomo deve accettare e riempire personalmente di senso, bensì un ruolo sociale del quale si decide autonomamente, mentre finora era la società a decidervi. La profonda erroneità di questa teoria e della rivoluzione antropologica in essa soggiacente è evidente. L’uomo contesta di avere una natura precostituita dalla sua corporeità, che caratterizza l’essere umano. Nega la propria natura e decide che essa non gli è data come fatto precostituito, ma che è lui stesso a crearsela. Secondo il racconto biblico della creazione, appartiene all’essenza della creatura umana di essere stata creata da Dio come maschio e come femmina. Questa dualità è essenziale per l’essere umano, così come Dio l’ha dato. Proprio questa dualità come dato di partenza viene contestata. Non è più valido ciò che si legge nel racconto della creazione: “Maschio e femmina Egli li creò” (Gen 1,27). No, adesso vale che non è stato Lui a crearli maschio e femmina, ma finora è stata la società a determinarlo e adesso siamo noi stessi a decidere su questo. Maschio e femmina come realtà della creazione, come natura della persona umana non esistono più. L’uomo contesta la propria natura. Egli è ormai solo spirito e volontà. La manipolazione della natura, che oggi deploriamo per quanto riguarda l’ambiente, diventa qui la scelta di fondo dell’uomo nei confronti di se stesso. Esiste ormai solo l’uomo in astratto, che poi sceglie per sé autonomamente qualcosa come sua natura. Maschio e femmina vengono contestati nella loro esigenza creazionale di forme della persona umana che si integrano a vicenda. Se, però, non esiste la dualità di maschio e femmina come dato della creazione, allora non esiste neppure più la famiglia come realtà prestabilita dalla creazione. Ma in tal caso anche la prole ha perso il luogo che finora le spettava e la particolare dignità che le è propria. Bernheim mostra come essa, da soggetto giuridico a sé stante, diventi ora necessariamente un oggetto, a cui si ha diritto e che, come oggetto di un diritto, ci si può procurare. Dove la libertà del fare diventa libertà di farsi da sé, si giunge necessariamente a negare il Creatore stesso e con ciò, infine, anche l’uomo quale creatura di Dio, quale immagine di Dio viene avvilito nell’essenza del suo essere. Nella lotta per la famiglia è in gioco l’uomo stesso. E si rende evidente che là dove Dio viene negato, si dissolve anche la dignità dell’uomo. Chi difende Dio, difende l’uomo. Con ciò vorrei giungere al secondo grande tema che, da Assisi fino al Sinodo sulla Nuova Evangelizzazione, ha pervaso tutto l’anno che volge al termine: la questione cioè del dialogo e dell’annuncio. Parliamo anzitutto del dialogo. Vedo per la Chiesa nel nostro tempo soprattutto tre campi di dialogo nei quali essa deve essere presente, nella lotta per l’uomo e per che cosa significhi essere persona umana: il dialogo con gli Stati, il dialogo con la società – in esso incluso il dialogo con le culture e con la scienza – e, infine, il dialogo con le religioni. In tutti questi dialoghi, la Chiesa parla a partire da quella luce che le offre la fede. Essa, però, incarna al tempo stesso la memoria dell’umanità che, fin dagli inizi e attraverso i tempi, è memoria delle esperienze e delle sofferenze dell’umanità, in cui la Chiesa ha imparato ciò che significa essere uomini, sperimentandone il limite e la grandezza, le possibilità e le limitazioni. La cultura dell’umano, di cui essa si fa garante, è nata e si è sviluppata dall’incontro tra la rivelazione di Dio e l’esistenza umana. La Chiesa rappresenta la memoria dell’essere uomini di fronte a una civiltà dell’oblio, che ormai conosce soltanto se stessa e il proprio criterio di misure. Ma come una persona senza memoria ha perso la propria identità, così anche un’umanità senza memoria perderebbe la propria identità. Ciò che, nell’incontro tra rivelazione ed esperienza umana, è stato mostrato alla Chiesa va, certo, al di là dell’ambito della ragione, ma non costituisce un mondo particolare che per il non credente sarebbe senza alcun interesse. Se l’uomo con il proprio pensiero entra nella riflessione e nella comprensione di quelle conoscenze, esse allargano l’orizzonte della ragione e ciò riguarda anche coloro che non riescono a condividere la fede della Chiesa. Nel dialogo con lo Stato e con la società, la Chiesa certamente non ha soluzioni pronte per le singole questioni. Insieme con le altre forze sociali, essa lotterà per le risposte che maggiormente corrispondano alla giusta misura dell’essere umano. Ciò che essa ha individuato come valori fondamentali, costitutivi e non negoziabili dell’esistenza umana, lo deve difendere con la massima chiarezza. Deve fare tutto il possibile per creare una convinzione che poi possa tradursi in azione politica.
Nella situazione attuale dell’umanità, il dialogo delle religioni è una condizione necessaria per la pace nel mondo, e pertanto è un dovere per i cristiani come pure per le altre comunità religiose. Questo dialogo delle religioni ha diverse dimensioni. Esso sarà innanzi tutto semplicemente un dialogo della vita, un dialogo della condivisione pratica. In esso non si parlerà dei grandi temi della fede – se Dio sia trinitario o come sia da intendere l’ispirazione delle Sacre Scritture ecc. Si tratta dei problemi concreti della convivenza e della responsabilità comune per la società, per lo Stato, per l’umanità. In ciò bisogna imparare ad accettare l’altro nel suo essere e pensare in modo diverso. A questo scopo è necessario fare della responsabilità comune per la giustizia e per la pace il criterio di fondo del colloquio. Un dialogo in cui si tratta di pace e di giustizia diventa da sé, al di là di ciò che è semplicemente pragmatico, una lotta etica circa le valutazioni che sono presupposte al tutto. Così il dialogo, in un primo momento meramente pratico, diventa tuttavia anche una lotta per il giusto modo di essere persona umana. Anche se le scelte di fondo non sono come tali in discussione, gli sforzi intorno a una questione concreta diventano un processo in cui, mediante l’ascolto dell’altro, ambedue le parti possono trovare purificazione e arricchimento. Così questi sforzi possono avere anche il significato di passi comuni verso l’unica verità, senza che le scelte di fondo vengano cambiate. Se ambedue le parti muovono da un’ermeneutica di giustizia e di pace, la differenza di fondo non scomparirà, crescerà tuttavia anche una vicinanza più profonda tra loro. Per l’essenza del dialogo interreligioso, oggi in genere si considerano fondamentali due regole:
1. Il dialogo non ha di mira la conversione, bensì la comprensione. In questo si distingue dall’evangelizzazione, dalla missione. 2. Conformemente a ciò, in questo dialogo ambedue le parti restano consapevolmente nella loro identità, che, nel dialogo, non mettono in questione né per sé né per gli altri. Queste regole sono giuste. Penso, tuttavia, che in questa forma siano formulate troppo superficialmente. Sì, il dialogo non ha di mira la conversione, ma una migliore comprensione reciproca: ciò è corretto. La ricerca di conoscenza e di comprensione, però, vuole sempre essere anche un avvicinamento alla verità. Così, ambedue le parti, avvicinandosi passo passo alla verità, vanno in avanti e sono in cammino verso una più grande condivisione, che si fonda sull’unità della verità. Per quanto riguarda il restare fedeli alla propria identità: sarebbe troppo poco se il cristiano con la sua decisione per la propria identità interrompesse, per così dire, in base alla sua volontà, la via verso la verità. Allora il suo essere cristiano diventerebbe qualcosa di arbitrario, una scelta semplicemente fattuale. Allora egli, evidentemente, non metterebbe in conto che nella religione si ha a che fare con la verità. Rispetto a questo direi che il cristiano ha la grande fiducia di fondo, anzi, la grande certezza di fondo di poter prendere tranquillamente il largo nel vasto mare della verità, senza dover temere per la sua identità di cristiano. Certo, non siamo noi a possedere la verità, ma è essa a possedere noi: Cristo, che è la Verità, ci ha presi per mano, e sulla via della nostra ricerca appassionata di conoscenza sappiamo che la sua mano ci tiene saldamente. L’essere interiormente sostenuti dalla mano di Cristo ci rende liberi e al tempo stesso sicuri. Liberi: se siamo sostenuti da Lui, possiamo entrare in qualsiasi dialogo apertamente e senza paura. Sicuri, perché Egli non ci lascia, se non siamo noi stessi a staccarci da Lui. Uniti a Lui, siamo nella luce della verità. Alla fine, è doverosa ancora una breve annotazione sull’annuncio, sull’evangelizzazione, di cui infatti, a seguito delle proposte dei Padri sinodali, parlerà ampiamente il documento postsinodale. Trovo che gli elementi essenziali del processo di evangelizzazione appaiano in modo eloquente nel racconto di san Giovanni sulla chiamata di due discepoli del Battista, che diventano discepoli di Cristo (cfr Gv 1,35-39). C’è anzitutto il semplice atto dell’annuncio. Giovanni Battista addita Gesù e dice: “Ecco l’agnello di Dio!” Un po’ più avanti l’evangelista racconta un evento simile. Questa volta è Andrea che dice a suo fratello Simone: “Abbiamo trovato il Messia” (1,41). Il primo e fondamentale elemento è il semplice annuncio, il kerigma, che attinge la sua forza dalla convinzione interiore dell’annunciatore. Nel racconto dei due discepoli segue poi l’ascolto, l’andare dietro i passi di Gesù, un seguire che non è ancora sequela, ma piuttosto una santa curiosità, un movimento di ricerca. Sono, infatti, ambedue persone alla ricerca, persone che, al di là del quotidiano, vivono nell’attesa di Dio – nell’attesa perché Egli c’è e quindi si mostrerà. Toccata dall’annuncio, la loro ricerca diventa concreta. Vogliono conoscere meglio Colui che il Battista ha qualificato come Agnello di Dio. Il terzo atto poi prende avvio per il fatto che Gesù si volge indietro, si volge verso di essi e domanda loro: “Che cosa cercate?”. La risposta dei due è, nuovamente, una domanda che indica l’apertura della loro attesa, la disponibilità a fare nuovi passi. Domandano: “Rabbì, dove dimori?” La risposta di Gesù: “Venite e vedrete!” è un invito ad accompagnarlo e, camminando con Lui, a diventare vedenti.
La parola dell’annuncio diventa efficace là dove nell’uomo esiste la disponibilità docile per la vicinanza di Dio; dove l’uomo è interiormente in ricerca e così in cammino verso il Signore. Allora, l’attenzione di Gesù per lui lo colpisce al cuore e poi l’impatto con l’annuncio suscita la santa curiosità di conoscere Gesù più da vicino. Questo andare con Lui conduce al luogo dove Gesù abita, nella comunità della Chiesa, che è il suo Corpo. Significa entrare nella comunione itinerante dei catecumeni, che è una comunione di approfondimento e, insieme, di vita, in cui il camminare con Gesù ci fa diventare vedenti. “Venite e vedrete!” Questa parola che Gesù rivolge ai due discepoli in ricerca, la rivolge anche alle persone di oggi che sono in ricerca. Alla fine dell’anno vogliamo pregare il Signore, affinché la Chiesa, nonostante le proprie povertà, diventi sempre più riconoscibile come sua dimora. Lo preghiamo perché, nel cammino verso la sua casa, renda anche noi sempre più vedenti, affinché possiamo dire sempre meglio e in modo sempre più convincente: Abbiamo trovato Colui, del quale è in attesa tutto il mondo, Gesù Cristo, vero Figlio di Dio e vero uomo. In questo spirito auguro di cuore a tutti voi un Santo Natale e un felice Anno Nuovo.

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 Il commento seguente è del direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi:

Il discorso di fine anno per gli auguri natalizi della Curia Romana è sempre uno di quelli più personali e attentamente studiati dal Santo Padre. Una riflessione sull’anno trascorso, ma anche un approfondimento di temi che il Papa ritiene più urgenti e di maggiore momento.

Sono cose su cui sente il dovere di manifestare il suo pensiero, andando ai fondamenti, con la nettezza e il coraggio che gli sono caratteristici: è il suo dovere verso la Chiesa e l’umanità, anche se ciò può suscitare resistenze o reazioni negative. I temi scelti quest’anno sono due: la famiglia e la dualità dell’uomo e della donna; e il dialogo e l’annuncio della fede.

Sulla famiglia, il Papa non entra nelle discussioni sulla legislazione e sui matrimoni omosessuali, e non riprende neppure le indimenticabili parole di vicinanza alle coppie in difficoltà pronunciate nella veglia di Milano, ma riafferma che oggi qui è in gioco la stessa questione su “chi è l’uomo”. La dualità dell’uomo e della donna è essenziale per l’essere umano. Da essa nascono le relazioni fondamentali fra padre, madre e figli. La dualità è iscritta nella natura della persona, nel disegno di Dio creatore. Negarlo è contrario alla verità, e affermare che è la persona umana stessa a determinare la sua identità è un passo distruttivo, che apre la via alla manipolazione arbitraria della natura, con conseguenze gravissime per la dignità dell’uomo; a cominciare dalla dignità dei figli, considerati come oggetto di un diritto e non più come soggetti di diritto. Nella “lotta per la famiglia”, insomma, ne va della stessa persona umana. Il Papa fa ampio riferimento a quanto scritto dal Gran Rabbino di Francia, dimostrando che la posizione della Chiesa non è strettamente confessionale, ma è quella della ragione, condivisa nella grande tradizione giudeo-cristiana.

Anche il secondo tema approfondito dal Papa farà discutere. E’ attualissimo e non è staccato dal primo: il cristiano entra nel rapporto di dialogo come portatore della grande esperienza della umanità letta alla luce della fede, sentendosi responsabile dei valori più preziosi e durevoli aldilà delle soluzioni meramente pragmatiche. Ed entra nel dialogo con la fiducia che la ricerca della verità non metterà mai in questione la sua identità cristiana. Perché la verità non è da noi orgogliosamente posseduta, ma ci chiama e ci guida, come Cristo che ci accompagna per mano. Anche questo è un augurio di Natale. Profondo, impegnativo, attuale.


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Il commento che segue è di Massimo Introvigne.

Benedetto XVI ha impartito alcuni dei suoi più memorabili insegnamenti con i discorsi annuali alla Curia romana per gli auguri natalizi, che ha trasformato in un vero e proprio nuovo genere letterario. In questo discorsi, ogni anno, ricorda i momenti più importanti del suo Magistero nei dodici mesi passati e segnala le sfide principali per la Chiesa per il tempo a venire.

Per il 2012 il Papa segnala come «momenti salienti» del suo Magistero il viaggio in Messico e a Cuba, la Festa delle Famiglie a Milano, l'esortazione apostolica post-sinodale «Ecclesia in Oriente» consegnata durante il viaggio in Libano, e il Sinodo sulla nuova evangelizzazione.  Non certo come mera nota di colore, ma perché è un grande segno di speranza, il Pontefice ricorda il grande successo di popolo dei suoi viaggi, che sempre regolarmente smentisce lo scetticissimo dei media. «Ricordo che, dopo l’arrivo in Messico, ai bordi della lunga strada da percorrere, c’erano interminabili schiere di persone che salutavano, sventolando fazzoletti e bandiere. Ricordo che durante il tragitto verso Guanajuato, pittoresca capitale dello Stato omonimo, c’erano giovani devotamente inginocchiati ai margini della strada per ricevere la benedizione del Successore di Pietro; ricordo come la grande liturgia nelle vicinanze della statua di Cristo Re sia diventata un atto che ha reso presente la regalita? di Cristo». E le stesse scene di entusiasmo si sono ripetute a Cuba e in Libano.

I punti salienti del Magistero del 2012 annunciano anche le sfide del 2013. Il Papa le ha riassunte in tre punti: fare fronte alle ideologie che minacciano la famiglia e la stessa persona umana, nella linea tracciata dai suoi interventi a Milano; impostare correttamente il dialogo interreligioso, specie con l'islam, riprendendo l'esortazione «Ecclesia in Oriente»; trarre il massimo profitto dall'Anno della fede per la nuova evangelizzazione, dando un seguito concreto al Sinodo.

L'aspetto più grave della situazione attuale, ha detto il Papa, è una crisi della famiglia che «la minaccia fino nelle basi». È una sfida radicale che minaccia l'essenza della persona umana: «nella questione della famiglia non si tratta soltanto di una determinata forma sociale, ma della questione dell’uomo stesso – della questione di che cosa sia l’uomo e di che cosa occorra fare per essere uomini in modo giusto». La famiglia è in crisi perché la persona è in crisi. «Il rifiuto del legame umano, che si diffonde sempre piu? a causa di un’errata comprensione della liberta? e dell’autorealizzazione, come anche a motivo della fuga davanti alla paziente sopportazione della sofferenza, significa che l’uomo rimane chiuso in se stesso e, in ultima analisi, conserva il proprio “io” per se stesso, non lo supera veramente». 

Ma questa crisi, ha detto con coraggio il Pontefice, deriva anche dall'attacco metodico di forze che propongono una vera «rivoluzione antropologica» in nome della più pericolosa ideologia apparsa negli ultimi anni, quella del gender.

«Il Gran Rabbino di Francia, Gilles Bernheim - ha detto il Papa -, in un trattato accuratamente documentato e profondamente toccante ["Mariage homosexuel, homoparentalité et adoption. Ce que l'on oublie souvent de dire"], ha mostrato che l’attentato, al quale oggi ci troviamo esposti, all’autentica forma della famiglia, costituita da padre, madre e figlio, giunge ad una dimensione ancora piu? profonda. Se finora avevamo visto come causa della crisi della famiglia un fraintendimento dell’essenza della liberta? umana, ora diventa chiaro che qui e? in gioco la visione dell’essere stesso, di cio? che in realta? significa l’essere uomini».  Sulla scia di Bernheim il Papa ricorda «l’affermazione, diventata famosa, di Simone de Beauvoir [teorica francese del femminismo, 1908-1986]: "Donna non si nasce, lo si diventa” (“On ne nai?t pas femme, on le devient”). In queste parole e? dato il fondamento di cio? che oggi, sotto il lemma “gender”, viene presentato come nuova filosofia della sessualita?. Il sesso, secondo tale filosofia, non e? piu? un dato originario della natura che l’uomo deve accettare e riempire personalmente di senso, bensi? un ruolo sociale del quale si decide autonomamente, mentre finora era la societa? a decidervi».

Si tratta di una delle più gravi sfide cui la Chiesa si è trovata di fronte nella sua storia. E non solo la Chiesa: l'ideologia del gender minaccia tutta la società e sovverte la stessa persona umana. «La profonda erroneita? di questa teoria e della rivoluzione antropologica in essa soggiacente e? evidente. L’uomo contesta di avere una natura precostituita dalla sua corporeita?, che caratterizza l’essere umano. Nega la propria natura e decide che essa non gli e? data come fatto precostituito, ma che e? lui stesso a crearsela».

Si tratta in ultimo, afferma Benedetto XVI, di una rivolta contro Dio. «Non e? piu? valido cio? che si legge nel racconto della creazione: “Maschio e femmina Egli li creo?” (Gen 1,27). No, adesso vale che non e? stato Lui a crearli maschio e femmina, ma finora e? stata la societa? a determinarlo e adesso siamo noi stessi a decidere su questo. Maschio e femmina come realta? della creazione, come natura della persona umana non esistono piu?. L’uomo contesta la propria natura. Egli e? ormai solo spirito e volonta?». Con questa scelta faustiana l'uomo in concreto, propriamente, muore. «Esiste ormai solo l’uomo in astratto, che poi sceglie per se? autonomamente qualcosa come sua natura. Maschio e femmina vengono contestati nella loro esigenza creazionale».  

La crisi della famiglia è solo un aspetto di una crisi globale. «Dove la liberta? del fare diventa liberta? di farsi da se?, si giunge necessariamente a negare il Creatore stesso e con cio?, infine, anche l’uomo quale creatura di Dio». Ma «dove Dio viene negato, si dissolve anche la dignita? dell’uomo. Chi difende Dio, difende l’uomo».

A questa difesa dell'uomo di fronte a minacce radicali e inaudite la Chiesa convoca tutte le religioni e anche i non credenti che credono nel diritto naturale. È questa la seconda sfida per il 2013: capire bene la nozione di dialogo. Il Papa fa riferimento al suo viaggio in Libano e ribadisce che «il dialogo delle religioni e? una condizione necessaria per la pace nel mondo, e pertanto e? un dovere per i cristiani come pure per le altre comunita? religiose».  Il dialogo, oggi, deve partire non tanto dalla teologia, ma dall'antropologia e dal diritto naturale. Questo vale anche nel caso, così obiettivamente difficile, dell'islam. Benedetto XVI ricorda le due regole del dialogo di cui parlano diversi documenti di dicasteri vaticani: «1. Il dialogo non ha di mira la conversione, bensi? la comprensione. In questo si distingue dall’evangelizzazione, dalla missione. 2. Conformemente a cio?, in questo dialogo ambedue le parti restano consapevolmente nella loro identita?, che, nel dialogo, non mettono in questione ne? per se? ne? per gli altri». «Queste regole - commenta il Papa - sono giuste. Penso, tuttavia, che in questa forma siano formulate troppo superficialmente. Si?, il dialogo non ha di mira la conversione, ma una migliore comprensione reciproca: cio? e? corretto. La ricerca di conoscenza e di comprensione, pero?, vuole sempre essere anche un avvicinamento alla verita?». 

A costo di correggere qualche documento dei dicasteri preposti al dialogo, il Pontefice osserva che «sarebbe troppo poco se il cristiano con la sua decisione per la propria identita? interrompesse, per cosi? dire, in base alla sua volonta?, la via verso la verita?. Allora il suo essere cristiano diventerebbe qualcosa di arbitrario, una scelta semplicemente fattuale. Allora egli, evidentemente, non metterebbe in conto che nella religione si ha a che fare con la verita?». Dialogo sì, dunque: ma senza mai rinunciare all'annuncio, senza mai il più piccolo cedimento al relativismo, che alla fine favorisce le ideologie anti-religiose e danneggia tutte le religioni.

Per resistere a queste ideologie e proporre un dialogo che non sia relativista, è necessario anzitutto che i cristiani siano cristiani. Ecco allora la terza sfida del 2013: trarre davvero profitto dall'Anno della fede, conoscere la verità della fede cattolica, essere «docili» al Magistero, acquisire e sviluppare il senso della Chiesa. L'ideologia ci ha lanciato una sfida radicale. C'è bisogno di cattolici che lo siano veramente, e che quindi siano capaci di dialogare con gli altri in modo non relativista, per rispondere in modo adeguato. 
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Il commento che segue è di Andrea Tornielli.

A pochi giorni dalla diffusione del messaggio per la Giornata della Pace, nel quale aveva definito «ferite alla pace» la negazione di alcuni principi riguardanti la vita umana e la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, Benedetto XVI è tornato a parlare della crisi della famiglia e della «filosofia della sessualità gender». E nel tradizionale discorso degli auguri alla Curia romana, ha chiesto alla politica di difendere i «valori non negoziabili». Mostrando così, inequivocabilmente, che questi temi sono priorità del suo pontificato e che i media, quando lo segnalano, non travisano il suo pensiero.


Tracciando un bilancio dell’anno appena trascorso, dopo aver ricordato i viaggi in Messico e Cuba, Papa Ratzinger ha ricordato l’incontro delle famiglie a Milano, affermando che «la famiglia è forte e viva anche oggi», ma «è incontestabile» che la crisi «la minacci fino alle basi» soprattutto in occidente. Per Benedetto XVI la questione della famiglia riguarda l’uomo stesso, «la questione di che cosa sia l’uomo e di che cosa occorra fare per essere uomini in modo giusto». Il Papa, di fronte al diminuire dei matrimoni, ha citato «il rifiuto del legame umano, che si diffonde sempre più a causa di un’errata comprensione della libertà e dell’autorealizzazione», lasciando l’uomo «chiuso in se stesso». Solo nel «dono di sé», aprendosi all’altro, ai figli e alla famiglia l’uomo invece «scopre l’ampiezza dell’essere persona umana». Se si rifiuta questo legame, ha aggiunto il Pontefice, «scompaio anche le figure fondamentali dell’esistenza umana, il padre, la madre, il figlio».


Criticando la teoria del “gender”, Benedetto XVI ha fatto proprio il giudizio del Gran Rabbino di Francia Gilles Bernheim, il quale «ha mostrato che l’attentato, al quale oggi ci troviamo esposti, all’autentica forma della famiglia, costituita da padre, madre e figlio, giunge a una dimensione ancora più profonda». Fino ad oggi la crisi della famiglia era causata dal «fraintendimento» sulla libertà, ora invece è in gioco «ciò che in realtà significa essere uomini». Il rabbino ricordava la famosa affermazione di Simone de Beauvoir: «Donna non si nasce, lo si diventa». In queste parole, spiega il Papa, «è dato il fondamento di ciò che oggi, sotto il lemma “gender”, viene presentato come nuova filosofia della sessualità. Il sesso, secondo tale filosofia, non è più un dato originario della natura che l’uomo deve accettare e riempire personalmente di senso, bensì un ruolo sociale del quale si decide autonomamente, mentre finora era la società a decidervi. La profonda erroneità di questa teoria e della rivoluzione antropologica in essa soggiacente è evidente».


Secondo questa nuova teoria della sessualità, «l’uomo contesta di avere una natura precostituita dalla sua corporeità», nega «la propria natura e decide che essa non gli è data come fatto precostituito, ma che è lui stesso a crearsela». Benedetto XVI ribadisce invece che «appartiene all’essenza della creatura umana di essere stata creata da Dio come maschio e come femmina», anche se ora si ritiene che l’essere maschio e femmina sia stato determinato dalla società «e adesso siamo noi stessi a decidere su questo».


Se non esiste più la dualità di maschio e di femmina, ha spiegato il Pontefice, «allora non esiste più la famiglia come realtà prestabilita dalla creazione. Ma in tal caso anche la prole ha perso il luogo che finora le spettava e la particolare dignità che le è propria» e diventa «necessariamente un oggetto a cui si ha diritto e che, come oggetto di un diritto, ci si può procurare». «Nella lotta per la famiglia – ha detto il Papa – è in gioco l’uomo stesso. E si rende evidente che là dove Dio viene negato, si dissolve anche la dignità dell’uomo. Chi difende Dio, difende l’uomo».


Il secondo tema affrontato da Benedetto XVI è stato quello del dialogo, spiegando che la Chiesa, ha deve essere presente nel «dialogo con gli Stati, con la società – in esso incluso il dialogo con le culture e con la scienza» come pure in quello con le religioni. La Chiesa «rappresenta la memoria dell’essere uomini di fronte a una civiltà dell’oblio, che ormai conosce soltanto se stessa e il proprio criterio». E nel dialogo con lo Stato e con la società la Chiesa «non ha soluzioni pronte per le singole questioni» ma «insieme con le altre forze sociali » lotta «per le risposte che maggiormente corrispondano alla giusta misura dell’essere umano». E sui «valori fondamentali, costitutivi e non negoziabili dell’esistenza umana», deve fare «tutto il possibile per creare una convinzione che poi possa tradursi in azione politica».


Per quanto riguarda il dialogo con le religioni, il Papa afferma che esso è «condizione necessaria per la pace nel mondo» ed è dunque «un dovere per i cristiani». Sarà innanzi tutto «un dialogo della vita» e della «condivisione pratica» nel quale non si parlerà dei «grandi temi della fede», ma dei «problemi concreti della convivenza e della responsabilità comune per la società, lo Stato, per l’umanità». Avendo come criterio di fondo la responsabilità comune per la giustizia e la pace

Infine il Papa ha definito «giuste», ma formulate «troppo superficialmente» le regole secondo cui il dialogo non deve mirare alla conversione perché entrambe le parti in dialogo restano «consapevolmente della loro identità». Sì, ha detto, il dialogo non mira alla conversione, «ma a una migliore comprensione», però «vuole sempre essere anche un avvicinamento alla verità». E «sarebbe troppo poco «se il cristiano con la sua decisione per la propria identità interrompesse, per così dire, in base alla sua volontà la via verso la verità». Il cristiano, ha spiegato Benedetto XVI, «ha una grande fiducia di fondo, anzi, la grande certezza di fondo di poter prendere tranquillamente il largo nel vasto mare della verità, senza dover temere per la sua identità di cristiano». L’essere «interiormente sostenuti dalla mano di Cristo ci rende liberi» e «possiamo entrare in qualsiasi dialogo apertamente e senza paura».


Nel suo discorso di bilancio del 2012 il Papa non ha fatto il minimo cenno al caso vatilekas.

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  Di seguito il documento del gran Rabbino di Francia, Gilles Bernheim, al quale Benedetto XVI ha fatto riferimento oggi nel suo tradizionale discorso. Si tratta di una sintesi dell'Osservato Romano pubblicata il 19 ottobre scorso.
 Il gran rabbino di Francia sulla proposta di legge riguardante il matrimonio omosessuale. Tutto quello che si dimentica di dire
C’è qualcosa «che si dimentica di dire». Il grande rabbino di Francia, Gilles Bernheim, scende in campo contro il controverso progetto di legge che punta all’introduzione del matrimonio e dell’adozione da parte di coppie omosessuali. Lo ha fatto con un corposo documento di venticinque pagine inviato al presidente, François Hollande, al primo ministro, Jean-Marc Ayrault, e con lui a tutti i ministri, con il quale vengono illustrati i motivi della sua netta contrarietà al progetto di legge, che verrà esaminato dal Governo a fine mese. «Non c’è coraggio né gloria a votare questa legge», scrive Bernheim nella sua lunga riflessione, intitolata «Matrimonio omosessuale, omogenitorialità e adozione: ciò che si dimentica di dire». Per la massima autorità ebraica d’oltralpe quello sulle nozze gay è un progetto di legge basato più sugli «slogan che sugli argomenti e che si conforma al dominio dei benpensanti per paura degli anatemi».
Nel documento si sottolinea che la presa di posizione non si è avuta sull’onda dell’emozione, bensì soppesando e analizzando attentamente i contenuti della proposta di legge. Proposta che dallo stesso mondo omosessuale viene ritenuta come una sorta di «cavallo di Troia». Infatti, «il loro progetto è più ambizioso: la negazione di qualsiasi differenza sessuale». In questa senso, nella lettera vengono analizzati tutti i fattori di una legge che oltre a snaturare il senso del matrimonio arriva a ledere i diritti del bambino. Sfatando anche alcuni luoghi comuni, secondo i quali il matrimonio omosessuale risponderebbe a delle norme di giustizia e di eguaglianza. «Un gran numero di nostri concittadini intende la rivendicazione del matrimonio omosessuale come un ulteriore passo nella lotta democratica contro l’ingiustizia e la discriminazione, in continuità con quella condotta contro il razzismo». Così, «in nome dell’uguaglianza, dell’apertura della mente, della modernità, del ben pensare dominante ci viene chiesto di mettere in discussione uno dei fondamenti della nostra società».
Per Bernheim, «dopo l’analisi degli argomenti, dopo il chiarimento delle teorie che li sottendono, occorre trovare un soluzione al dibattito in corso». Come altri, osserva il rabbino, «sono stato rispettosamente ascoltato, ma solo il progetto di legge e le posizioni che assumerà il Governo consentiranno di dire se la concertazione è stata vera o di facciata». A oggi, però, «risulta che gli argomenti addotti di uguaglianza, di amore, di protezione o di diritto al bambino si smontano e non possono da soli giustificare una legge». Anzi, il vero obiettivo dei militanti omosessuali sarebbe quello di «negare» e di «cancellare le differenze sessuali e di sostituirle con orientamenti che permettano alla stesso tempo di uscire dalla “costrizione naturale” e di rendere più dinamici i fondamenti eterosessuali della nostra società». In questa prospettiva, quello che più «disturba» è «il rifiuto di porsi domande, il rifiuto di uscire dalle proprie convinzioni». Quello che veramente costituisce un problema nella legge prospettata è «il danno che si provocherebbe all’insieme della nostra società a solo profitto di un’infima minoranza, una volta che verranno confusi in modo irreversibile tre concetti: le genealogie, sostituendo la parentalità alla paternità e alla maternità; lo statuto del bambino; le identità, dove la sessuazione come dato naturale sarebbe costretta a scomparire di fronte all’orientamento espresso da ognuno, in nome di una lotta contro le disuguaglianze, snaturata in uno sradicamento delle differenze».
Insomma, il gran rabbino di Francia chiede che tutte queste «poste in gioco» siano «chiaramente esaminate nel dibattito sul matrimonio omossessuale e sull’omoparentalità», poiché «esse si ricollegano ai fondamenti della società nella quale ognuno di noi vuole vivere». In proposito, Bernheim afferma di essere tra quelli che «pensano che l’essere umano non si costruisca senza struttura, senza ordine, senza statuto, senza regole; che l’affermazione della libertà non implichi la negazione dei limiti; che l’affermazione dell’uguaglianza non comporti il livellamento delle differenze; che la potenza della tecnica e dell’immaginazione esige di non dimenticare mai che l’essere è dono, che la vita ci precede sempre e che ha le sue leggi». In questa ottica, il leader ebraico dice di aver voglia «di una società in cui la modernità occupi tutto il suo posto, senza che però vengano negati i principi elementari dell’ecologia umana e familiare. Di una società in cui la diversità dei modi d’essere, di vivere e di desiderare sia accettata come una possibilità, senza che tale diversità venga però diluita riducendola a un denominatore più piccolo che cancelli ogni differenziazione. Di una società in cui, nonostante i progressi del virtuale e dell’intelligenza critica, le parole più semplici — padre, madre, coniugi, genitori — conservino il loro significato, allo stesso tempo simbolico e incarnato. Di una società in cui i bambini siano accolti e occupino il loro posto, tutto il loro posto, senza però diventare oggetto di possesso a ogni costo o posto in gioco del potere». Infine, «ho voglia di una società in cui ciò che accade di straordinario nell’incontro tra un uomo e una donna continui a essere istituito, con un nome preciso». L'Osservatore Romano, 20 ottobre 2012.

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(*): Da "La Stampa" di oggi, 21 dicembre

Io sto con Platone

di massimo gramellini
Secondo il vescovo di Senigallia monsignor Odo Fusi Pecci, il cattolico Vendola non è un vero cattolico ma un pervertito, perché le relazioni omosessuali sono contrarie al piano di Dio, che ci ha creati uomo e donna per mettere al mondo dei figli. Si potrebbe ribattere che con un piano simile avrebbero qualche problema anche i preti. Ma si avvicina il Natale e mi accontento di regalare idealmente al vescovo un testo anteriore e complementare ai Vangeli, il Simposio, scritto dal pensatore più spirituale di ogni epoca, Platone. Fra le tante cose, tutte mirabili, il filosofo greco racconta il mito dell’androgino. Gli esseri umani delle origini appartenevano a tre generi: il maschio, la femmina e l’androgino, provvisto di entrambi gli organi riproduttivi. Ma gli uomini fecero arrabbiare gli dei e Giove decise di punirli affettandoli in due. Da allora l’androgino vaga in cerca della sua metà di sesso opposto. E la stessa cosa fanno - con grande dispetto del monsignore - il maschio e la femmina dimezzati, che trovano pace solo nel riunirsi alla metà mancante e identica a loro. L’energia divina che muove la danza di tutte queste metà si chiama amore ed è uguale per tutti, etero e omosessuali. Le perversioni non sono dunque figlie dell’accetta di Giove, ma dei pensieri ossessivi di certi uomini, per lo più maschi e per lo più bigotti.

P.S. Oltre che con Platone, in questi giorni di festa sto con un altro antico, Pannella, e con la sua battaglia di civiltà per un carcere che non ci faccia vergognare di essere maschi, femmine, androgini, come ci pare, ma umani.