lunedì 10 dicembre 2012

Come vivere il Tempo di Avvento?


ROMA, lunedi 10 dicembre 2012.- Di seguito il testo dell’intervento del Patriarca monsignor Francesco Moraglia al Ritiro spirituale d’Avvento per i sacerdoti e i diaconi della Diocesi di Venezia, che si è svolto giovedì 6 dicembre a Mestre.
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1.
Carissimi sacerdoti e diaconi, iniziamo il nostro ritiro d’Avvento ringraziando innanzitutto il Signore di quest’opportunità: trascorrere insieme una mattinata in preparazione al santo Natale con la possibilità d’accostarci al sacramento della penitenza.
Lo stare insieme del Vescovo con i presbiteri e i diaconi per pregare è già, in sé, una vera grazia. Viviamo queste ore con questo spirito. Chiediamoci poi: come vivere il tempo d’Avvento in questo Anno della Fede?
La risposta non può prescindere dalla nostra identità sacerdotale  e diaconale. Per grazia abbiamo ricevuto il sacramento dell’ordine che ci abilita a compiere i gesti propri di Gesù-capo-sposo e di Gesù-servo del Padre e dei fratelli. Solo guardando a quello che siamo diventati, in forza di questo sacramento, possiamo dare risposta alla domanda: come vivere il tempo d’Avvento in quest’Anno della Fede?
La liturgia della Chiesa, all’inizio dell’Avvento, propone una preghiera che ci conduce subito a fare un esame di coscienza molto concreto. Mi riferisco all’orazione dei primi Vespri della prima domenica d’Avvento.
E’, quindi, la prima orazione del tempo d’Avvento che poi ritroviamo come colletta nella santa Messa della prima domenica di questo breve ma importantissimo tempo liturgico: “O Dio, nostro Padre, suscita in noi la volontà di andare incontro con le buone opere al tuo Cristo che viene, perché ci chiami accanto a sé nella gloria a possedere il regno dei cieli”.
Il punto è proprio questo: quali sono le opere buone con cui il vescovo, il presbitero e il diacono vanno incontro al Signore che viene? Non si tratta di opere genericamente intese ma delle opere proprie del vescovo, del presbitero, del diacono. Bisogna essere chiari: la santità non può prescindere dalla fedeltà alla propria vocazione personale, non può essere mai al di fuori di essa.
Anche per noi, ministri ordinati, assume grande valore la parabola del Seminatore (cfr. Mc. 4, 1-20). Intendo dire che anche noi - vescovi, presbiteri, diaconi - possiamo essere terra “buona” o terra “non buona” proprio in rapporto agli atti specifici del nostro ministero. Andiamo al testo della parabola che leggiamo nella versione dell’evangelista Marco[1].
La lettura e spiegazione della parabola ci ricordano che anche i vescovi, i sacerdoti e i diaconi sono - agli occhi di Dio, che vede come Lui solo può - terreno “buono” o terreno “non buono”, capace o non capace di dare frutto. Possono essere terra fertile che produce il trenta, il sessanta o il cento per uno oppure selciato, pietraio o roveto improduttivi.
Si può essere diaconi, sacerdoti, vescovi ma - come ci ha ricordato la parabola - essere distratti, dissipati e incapaci di darsi una regola di vita. Sono gli atteggiamenti che la parabola identifica con la strada, luogo della dissipazione e del vuoto chiacchiericcio, terreno dove il seme appena gettato viene portato via e non può attecchire.
Ogni tipo di rapporto e legame spirituale e pastorale del ministro ordinato nasce e si sviluppa a partire dalla relazione personale col Signore Gesù: in stretta connessione con essa, non al di fuori o contro di essa. Ma se il rapporto personale con Gesù si attenua, o addirittura viene meno, si crea un vero e proprio corto circuito e, in tal modo, l’efficacia del ministero viene vanificato. E ciò vuol dire che già prima si era smarrita la percezione della propria consapevolezza o identità sacerdotale.
In tale situazione non potremo farci carico in modo valido - ossia col giusto coinvolgimento e giusto distacco - di quell’umanità dolente che quotidianamente incontriamo, passo dopo passo, sulla nostra strada.
Questi incontri richiedono saggezza e insieme capacità di discernimento, doti che si acquistano nel prolungato contatto col Signore, nella preghiera, nella lectio divina, nel silenzio interiore ed esteriore. Si può leggere, in proposito, il cosiddetto “Discorso tenuto da san Carlo, vescovo, nell'ultimo Sinodo” (cfr. Breviario IV volume, Ufficio delle Letture, Seconda lettura della Memoria di san Carlo Borromeo).
Maria - la Regina apostolorum, che custodiva ogni cosa nel suo cuore (cfr. Lc 2,19.51) - diventa il nostro comune imprescindibile riferimento. Lei è la zolla di terreno fecondo; noi, invece, siamo non di rado il terreno sassoso della parabola che non permette alla pianta, per mancanza di terra, di buttar fuori radici capaci di attecchire.
Si può essere vescovi, preti, diaconi essendo testimoni veraci e sinceri del proprio episcopato, presbiterato e diaconato. E allora si è benedizione per il proprio popolo. Ma se la logica umana prende il sopravvento sul servizio delle anime e alla Chiesa, ci si scopre sassi improduttivi.
In proposito, ricordiamo che le promesse dell’ordinazione non ci sono state imposte ma, dopo anni di discernimento e preparazione, ci sono state proposte e noi, in quel momento, le abbiamo accolte liberamente e con gioia, non come costrizione ma con lo spirito di chi avverte l’aprirsi di un nuovo orizzonte di senso nella vita. Sì, un nuovo orizzonte di senso nella propria vita.
I legami umani - che impropriamente possono impadronirsi di noi, all’inizio in modi anche impercettibili, e vincolarci a persone e a beni materiali - finiscono così per soffocarci. Ciò avviene quando si smarrisce la logica del dono e non si compie più, come Maria, l’offerta della propria persona  semel et semper.
La mancanza di questa totalità nel dono può essere l’inizio del venir meno. In san Giovanni della Croce troviamo questo esempio significativo: un uccello - anche se è libero da tutto ma è legato ad un sottilissimo filo di seta - non può spiccare il volo in alcun modo, anche se c’è solo quel sottile filo... Prendiamo occasione oggi di rinnovare, di fronte al Signore, la nostra piena totale offerta a Lui, attraverso le promesse sacerdotali.
Vigiliamo perché ogni nostro incontro inizi sempre nel Signore, in Domino, e rimanga tale, in Domino, così da non rimanere soffocati come  il seme caduto tra i rovi e le spine.
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NOTE
[1] “Cominciò di nuovo a insegnare lungo il mare. Si riunì attorno a lui una folla enorme, tanto che egli, salito su una barca, si mise a sedere stando in mare, mentre tutta la folla era a terra lungo la riva. Insegnava loro molte cose con parabole e diceva loro nel suo insegnamento: «Ascoltate. Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; e subito germogliò perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde tra i rovi, e i rovi crebbero, la soffocarono e non diede frutto. Altre parti caddero sul terreno buono e diedero frutto: spuntarono, crebbero e resero il trenta, il sessanta, il cento per uno». E diceva: «Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti!». Quando poi furono da soli, quelli che erano intorno a lui insieme ai Dodici lo interrogavano sulle parabole. Ed egli diceva loro: «A voi è stato dato il mistero del regno di Dio; per quelli che sono fuori invece tutto avviene in parabole, affinché guardino, sì, ma non vedano, ascoltino, sì, ma non comprendano, perché non si convertano e venga loro perdonato». E disse loro: «Non capite questa parabola, e come potrete comprendere tutte le parabole? Il seminatore semina la Parola. Quelli lungo la strada sono coloro nei quali viene seminata la Parola, ma, quando l’ascoltano, subito viene Satana e porta via la Parola seminata in loro. Quelli seminati sul terreno sassoso sono coloro che, quando ascoltano la Parola, subito l’accolgono con gioia, ma non hanno radice in se stessi, sono incostanti e quindi, al sopraggiungere di qualche tribolazione o persecuzione a causa della Parola, subito vengono meno. Altri sono quelli seminati tra i rovi: questi sono coloro che hanno ascoltato la Parola, ma sopraggiungono le preoccupazioni del mondo e la seduzione della ricchezza e tutte le altre passioni, soffocano la Parola e questa rimane senza frutto. Altri ancora sono quelli seminati sul terreno buono: sono coloro che ascoltano la Parola, l’accolgono e portano frutto: il trenta, il sessanta, il cento per uno»”.
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 2.
Se la dissipazione, la superficialità e i legami impropri dovessero segnare la vita del vescovo, del presbitero, del diacono - mandati per essere segno di Gesù buon pastore e servitore in mezzo ai fratelli e alle sorelle - allora quella dissipazione, quella superficialità e quei legami impropri rivestirebbero un’odiosità molto più grande.
Quanto il Santo Curato d’Ars era solito dire - parlando del parroco - ha oggi per noi tutto il suo valore, particolarmente all’inizio di quest’Anno della Fede: “Un buon pastore, secondo il cuore di Dio, è il più grande tesoro che il buon Dio possa accordare a una parrocchia e un dono dei più preziosi della misericordia divina”.
Sì, noi - in quanto vescovi, presbiteri e diaconi - siamo il grande dono fatto dal cuore di Dio alla nostra gente, al di là di ogni nostro merito e consapevolezza. Non veniamo meno nel nostro essere dono alla comunità a cui siamo mandati. Interroghiamoci, su questo punto, alla fine di ogni nostra giornata.
Così il vescovo, il prete e il diacono sono chiamati e mandati, secondo la loro specificità, per essere, per la loro gente, terreno “buono”: ossia non dissipati, non superficiali, non legati in modo improprio a persone o a beni materiali. Sì, terreno “buono” innanzitutto in ciò che ci identifica come vescovi, preti e diaconi in vista del ministero ecclesiale e capaci di compiere gli atti propri di Gesù-sposo-capo e di Gesù-servo.
Essi, allora, devono domandarsi all’inizio di quest’Anno della Fede - e particolarmente nel periodo d’Avvento - se riescono ad essere, col loro ministero, aiuti veri e reali per la fede delle loro comunità e dei singoli membri che le compongono. Sì, siamo chiamati ad essere cooperatori della loro gioia, ossia della loro fede.
Chiediamoci, quindi, se realmente aiutiamo, col nostro ministero, i fratelli a crescere nella vita di fede: la nostra predicazione nasce dalla preghiera? E il sacramento della penitenza è annunciato e celebrato in modo attento e disponibile nella nostra parrocchia?
I ministri ordinati, costituiti nei vari gradi dell’ordine, sono chiamati innanzitutto a essere cooperatori della grazia divina, ossia della misericordia e della tenerezza condiscendente di Dio verso le anime.
Sappiamo, infatti, che i ministri ordinati - nel bene e, Dio non voglia, nel male - non passano mai inosservati. Non sono mai irrilevanti per la gente di cui sono servitori. Essi, dinanzi ai singoli membri e all’intera comunità, sono - lo diciamo con un’immagine - posti sul candelabro, dove si dà la luce che rischiara e riscalda.
Le persone che guardano a noi - perché siamo mandati a loro come vescovi, preti e diaconi - spesso per timidezza, ritrosia o complicatezza d’animo (bisogna, infatti, fare i conti anche con le varie scansioni dell’animo umano) attendono da noi anche ciò che espressamente non ci domandano.
Dobbiamo avere grande rispetto e stima del dono del sacerdozio e del diaconato che sono in noi. Certo, l’apostolo Paolo ci ricorda che siamo  poveri e fragili vasi di creta: nessuno di noi dubita di questo ma il contenuto di tali cocci di creta è preziosissimo e ci è stato donato gratuitamente. A noi, quindi, spetta perpetuare con il dono di noi stessi - le promesse dell’ordinazione - un tale dono in spirito di vera gratuità.
Richiamo qui il relativo passo della seconda lettera ai Corinzi[1] perché, applicato al sacerdozio (di primo e secondo grado) e al diaconato, ci stimola ad andare incontro al Signore che, soprattutto in questo tempo d’Avvento, è Colui che incessantemente viene e al quale, come ministri ordinati, dobbiamo andar incontro non da soli, ma con le nostre comunità.
L’esempio è Maria che visita la cugina Elisabetta, recandosi da lei con passo spedito. Come ministri ordinati dobbiamo domandarci con quali buone opere andiamo verso la capanna di Betlemme. Un ministro ordinato che non percepisca più la grandezza del dono che egli è con la sua persona - proprio in quanto vescovo, sacerdote o diacono - per la sua comunità finisce, ben presto, per  trovarsi allo “stretto” nei panni del vescovo, del prete o del diacono, con tutto ciò che da questo deriva.
Il Natale ci interpella su questo punto: la risposta la dobbiamo dare di fronte al Signore e alle nostre comunità con sincerità e verità.
Negli anni dell’infanzia la solennità del santo Natale - con la novena così attesa, preceduta dalla festa dell’Immacolata, e con i piccoli ma così significativi fioretti - bussava alla porta del nostro cuore di bambini, capaci ancora di stupirsi, parlando col linguaggio eloquente della semplicità, della gioia e della bellezza.
Tutto questo ci rinnovava a partire esattamente dalla realtà concreta di una fede vissuta, in cui c’era vera devozione e anche vero desiderio di conversione nella riscoperta del Dio bambino.
Poi, con i suoi testi e le sue musiche, la liturgia - che è il linguaggio più significativo che la Chiesa possiede - faceva il resto parlando al nostro cuore di bambini e, attraverso di noi, ai nostri genitori e viceversa. Ecco la pastorale familiare in atto.
Così, di anno in anno, attraverso una semplice ma reale esperienza di Chiesa - il metodo “catecumenale” allora non era teorizzato ma era prassi concreta - eravamo così condotti, al di là di noi stessi, verso il mistero del Signore Gesù attraverso una fede condivisa anche in famiglia. Oggi è questa la grande sfida: la pastorale familiare deve diventare pastorale ordinaria.
L’incanto del presepio era, poi, un richiamo potente al realismo dell’incarnazione e così - in modo semplice, familiare e parrocchiale - tutti insieme si “imparava” Gesù Cristo.
Noi, oggi, sentiamo il desiderio di offrire ai nostri bambini e, in modo differente, agli adulti la realtà e la gioia di una fede che torni a dare il sapore della bellezza di Dio e a ringiovanire ogni realtà, incominciando dal cuore del pastore e dei fedeli, piccoli e grandi. Così siamo grati ai bambini e alla loro fede che la Chiesa - attraverso i parroci, le catechiste e, dove è possibile, i genitori e i nonni - ha la gioia di custodire e portare a maturazione.
Degli anni della nostra fanciullezza, trascorsi in parrocchia e in patronato, quante cose sono rimaste scritte, in modo indelebile, nei nostri cuori! Nei nostri cuori, ma anche nei cuori di tanti nostri coetanei che, poi, hanno intrapreso strade diverse dalle nostre. Per esempio, quanto  dobbiamo al nostro antico parroco o cappellano, alle nostre catechiste e alla pastorale ordinaria della nostra antica parrocchia di provenienza: catechismo, prima confessione e prima comunione, confermazione, gruppo dei chierichetti, gruppo dei cantori, Grest, campi estivi ecc.
Di fronte al Signore nulla della fatica di un prete e di un diacono - che si spendono generosamente nel loro ministero dove sono mandati dal vescovo - va perso. Sono certo che, in Paradiso, molti sacerdoti e diaconi avranno tante gradite sorprese e vedranno una fecondità inaspettata del loro ministero.
Sorprese che ne sveleranno l’efficacia anche quando essi lo ritenevano ministero inutile, privo di risultati e quasi una perdita di tempo. San Paolo ci insegna che quando si avverte la propria impotenza, la fatica del non riuscire, la pochezza delle nostre risorse, ebbene proprio allora la grazia del Signore lavora e cambia il cuore delle persone, anche se ciò a noi rimane nascosto. “Quando sono debole - scrive l’Apostolo - è allora che sono forte” (cfr. 2 Cor 12,10).
Il teologo luterano tedesco, Dietrich Bonhoeffer, all’interno della sua visione teologica, così s’esprime: “Cristo non aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza, della sua sofferenza! Qui sta la differenza decisiva rispetto a qualsiasi religione. La religiosità umana rinvia l’uomo nella sua tribolazione alla potenza di Dio nel mondo, Dio è il Deus ex machina. La Bibbia rinvia l’uomo all’impotenza e alla sofferenza di Dio; solo il Dio sofferente può aiutare”.
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NOTE
[1] La seconda lettera ai Corinzi così s’esprime: “Noi … abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi. In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo consegnati alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale. Cosicché in noi agisce la morte, in voi la vita” (2 Cor 4, 7-12).  

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 3.
I vescovi, i presbiteri e i diaconi, innanzitutto, sono chiamati a farsi carico - con cura - della fede dei semplici, dei bambini, degli anziani e di chi, più degli altri, accusa i colpi della vita o ha perso il gusto del vivere.
Chiediamoci, allora, da dove prendere l’energia divina necessaria al nostro ministero per non cedere allo scoramento e venir meno. Noi ministri ordinati, infatti, siamo chiamati a sorreggere e a guidare i nostri fratelli nelle cose che riguardano Dio.
Questa forza soprannaturale, che proviene da Dio, è necessaria perché anche i vescovi, i presbiteri e i diaconi hanno le loro stanchezze, le loro fatiche apostoliche e non sempre i loro sforzi pastorali hanno esito favorevole; non sempre il ministero sorride, non di rado emergono difficoltà e disagi.
Come si fa, allora, per non venir meno e per continuare a lavorare fedelmente, nonostante tutto, in quella parte della vigna del Signore che ci è stata affidata?
Ciò che dà forza al ministro ordinato è il rapporto personale e diretto che ha col Signore Gesù. Senza tale legame con Lui, prima o poi, tutto è destinato a sfaldarsi. Riscoprire quotidianamente il rapporto col Signore è fondamentale per il nostro ministero. A tal proposito san Paolo scrive a Timoteo di rivitalizzare il dono ricevuto per l’imposizione delle sue mani (cfr. 1 Tim. 4, 14).
Nel libro dell’Esodo Dio esige - nella raccolta della manna - di non prenderne più del fabbisogno giornaliero, ad eccezione del giorno di sabato, pena il marcire di quanto raccolto in eccedenza rispetto alla razione quotidiana stabilita (cfr. Es 16, 13-31). Dio intendeva, in tal modo, educare il popolo alla Sua presenza e fargli vivere la grazia del momento presente, così che il Suo popolo comprendesse che era Dio a salvarlo, giorno dopo giorno.
Non dobbiamo, quindi, cercare facili o false giustificazioni: quando manca il rapporto personale col Signore tutto s’appanna e diventano faticose e insormontabili anche le cose che non lo sono. Il rapporto personale d’amore reale col Signore, alla fine, s’esprime, giorno dopo giorno, soprattutto nell’Eucaristia quotidianamente celebrata e adorata, come pure nella preghiera personale e nel ministero fedele a servizio del proprio popolo, per amore al Signore Gesù.
E il monito ripetuto, per ben tre volte, da Gesù riguarda proprio l’amore dell’apostolo Pietro verso di Lui. E’ emblematico che solo dopo aver chiesto a Pietro, per tre volte, se lo amava gli ingiunga di seguirlo (cfr. Gv 21, 15-19). A tal proposito si può leggere il brano dai «Trattati su Giovanni» di sant'Agostino (cfr. Breviario, vol. I, Ufficio delle Letture, Seconda lettura della Memoria di san Nicola).
Il vescovo, il presbitero, il diacono devono essere umilmente consci della loro identità, della grandezza del loro ministero e del loro amore per il Signore Gesù; tale consapevolezza, umile ma ferma, deve accompagnarli ovunque. Non c’è momento del giorno e della notte, nella salute o nella malattia, nella giovinezza o nella vecchiaia, in cui la propria identità di ministri ordinati possa venire meno o appannarsi.
Si è vescovi sempre, si è presbiteri sempre, si è diaconi sempre, a prescindere dall’ufficio e il compito concreto che, in quel momento, ci è stato affidato dalla Chiesa. Non si fa il vescovo, il presbitero o il diacono ma si è vescovi, si è presbiteri, si è diaconi a tempo pieno e senza soluzione di continuità.
Al di fuori di tale logica, tutto nella struttura sacramentale dell’ordine - episcopato, presbiterato, diaconato - decade nel funzionalismo e, alla fine,  nell’incomprensibile perché la logica intrinseca del sacramento è il dono, così come risulta dalle promesse dell’ordinazione che richiedono fedeltà.
Si è vescovi, si è preti, si è diaconi quando la chiesa è affollata di persone e quando è semivuota o anche vuota, quando si è apprezzati o disprezzati, quando si è nel tempo della gioia o del dolore.
Il ministro ordinato sa poi che quando non è possibile parlare alla gente di Dio, si può sempre parlare a Dio della gente, ossia pregare per quel popolo che ci è stato affidato. Sì, parlare a Dio di quel popolo affidato alle nostre cure di ministri ordinati e che, oggi, fatica a percepire la voce del Padre comune che sta nei cieli.
Il vescovo, il prete e il diacono - in modi diversi, attraverso il loro ministero - sono a servizio del popolo loro affidato incoraggiandolo nella fede e dando a quel popolo l’unica certezza che veramente può garantirlo oltre la grande fragilità dell’uomo che è la morte. Il senso ultimo del ministero ordinato è portare gli uomini a Dio e Dio agli uomini, annunciando il Signore Gesù come il Risorto e il Vivente.
Ma se poi entriamo nella logica di guardare la comunità e i membri che la compongono, a partire da una prospettiva solo umana, allora è facile veder tutto unicamente secondo tale logica che è vera ma ancora parziale. E così si finisce - senza accorgersene - per porre se stessi come “riferimenti” della comunità, attendendo poi da essa - o da alcuni suoi membri - considerazioni, attenzioni e riconoscimenti particolari che poco o nulla hanno a che fare col ministero sacerdotale o diaconale.
Concludo, infine, con un passo della prima lettera ai Corinzi[1] (1 Cor 3, 1-23) che ci può aiutare a capire, in quanto ciò che Paolo scrive non è ipotesi astratta ma realtà. E i motivi dei legami inopportuni e malsani possono essere anche molti altri, oltre a quelli qui descritti dall’apostolo Paolo.
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NOTE
[1] Ecco il passo integrale (1 Cor 3, 1-23): “Io, fratelli, sinora non ho potuto parlare a voi come a esseri spirituali, ma carnali, come a neonati in Cristo. Vi ho dato da bere latte, non cibo solido, perché non ne eravate ancora capaci. E neanche ora lo siete, perché siete ancora carnali. Dal momento che vi sono tra voi invidia e discordia, non siete forse carnali e non vi comportate in maniera umana? Quando uno dice: «Io sono di Paolo», e un altro: «Io sono di Apollo», non vi dimostrate semplicemente uomini? Ma che cosa è mai Apollo? Che cosa è Paolo? Servitori, attraverso i quali siete venuti alla fede, e ciascuno come il Signore gli ha concesso. Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma era Dio che faceva crescere. Sicché, né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio, che fa crescere. Chi pianta e chi irriga sono una medesima cosa: ciascuno riceverà la propria ricompensa secondo il proprio lavoro. Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete campo di Dio, edificio di Dio. Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un saggio architetto io ho posto il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno stia attento a come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: infatti quel giorno la farà conoscere, perché con il fuoco si manifesterà, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera, che uno costruì sul fondamento, resisterà, costui ne riceverà una ricompensa. Ma se l’opera di qualcuno finirà bruciata, quello sarà punito; tuttavia egli si salverà, però quasi passando attraverso il fuoco. Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi. Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente, perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Sta scritto infatti: Egli fa cadere i sapienti per mezzo della loro astuzia. E ancora: Il Signore sa che i progetti dei sapienti sono vani. Quindi nessuno ponga il suo vanto negli uomini, perché tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio”.