lunedì 17 dicembre 2012

E' giusto immolarsi per una buona causa?


 Il palazzo del Potala a Llhasa

È giusto immolarsi per una buona causa? Darsi la morte volontariamente per denunciare l’oppressione subita dal proprio popolo, come fanno i monaci tibetani? La riflessione proposta ieri su La Stampa da Enzo Bianchi (v. post dal titolo: "Fuoco non-violento", che ho pubblicato ieri))fa discutere: abbiamo chiesto al cardinale Renato Raffaele Martino e allo scrittore Vittorio Messori di intervenire sulle parole del priore della Comunità di Bose. «Vale la pena di lasciarci interrogare da questi monaci disposti a consumare la propria vita tra le fiamme come incenso», aveva scritto Bianchi, ricordando che i monaci suicidi «con la loro vita e la loro morte vogliono affermare la grandezza di una religione e di una cultura che non accetta di piegarsi al male».

«Per noi cristiani – spiega il cardinale Martino, già presidente del Pontificio consiglio per la giustizia e la pace, per molti anni nunzio apostolico nei Paesi asiatici e quindi rappresentante della Santa Sede all’Onu – è inconcepibile il suicidio. Anche se questo darsi la morte può avere fini nobili. Il Catechismo della Chiesa cattolica insegna che il suicidio contraddice la naturale inclinazione dell’essere umano a conservare la propria vita ed è contrario all’amore del Dio vivente. Se è commesso per servire da esempio, si carica anche della gravità dello scandalo. Anche se l’angoscia o il timore grave della prova, della sofferenza o della tortura possono attenuare la responsabilità di chi lo commette».

«È chiaro – sottolinea il cardinale – che il gesto dei monaci tibetani si iscrive in un determinato ambito religioso. Però non può essere paragonato al martirio cristiano. Tanti cristiani hanno subito persecuzioni in odio alla fede che professavano, ma non hanno compiuto gesti di questo tipo e hanno sopportato fino alla fine le conseguenze della persecuzione».

Vittorio Messori, uno dei più noti scrittori cattolici, invita innanzitutto a ricordare la storia del Tibet: «Non si deve dimenticare che fino al 1950, quel Paese era la più dura delle teocrazie sacrali. Il Dalai Lama aveva i suoi feudatari, che erano i Lama: possedevano tutta la terra, avevano potere di vita e di morte. Ogni famiglia era obbligata a mandare almeno un figlio in monastero, con conseguenze a dir poco spiacevoli in caso di disobbedienza. Insomma, il Tibet prima del dominio cinese non era certo un modello per i diritti umani».


Messori ritiene interessante la riflessione di Enzo Bianchi che, dice, «riconosce onestamente la differenza tra la prospettiva buddista e quella cristiana spiegando che sarebbe improprio tracciare un parallelo tra i monaci che si danno fuoco e l’atteggiamento di Gesù davanti ai suoi persecutori e i martiri cristiani». Il cristianesimo, spiega lo scrittore, «non ha mai derogato su questo: la vita è donata da Dio e solo Lui può toglierla. Il martire cristiano, ucciso in odio alla fede, è riconosciuto come santo, ma il martirio non può mai essere cercato. Nel Medio Evo ci furono dei francescani uccisi ad Algeri perché si erano messi a predicare il Vangelo e a denigrare Maometto in un bazar. Non furono riconosciuti martiri a motivo della loro imprudenza».

Messori cita a questo proposito alcuni esempi della storia passate e recente. «Santa Apollonia d’Alessandria, vissuta nel III secolo e divenuta protettrice di chi ha il mal di denti perché i suoi persecutori le spaccarono la dentatura con uno scalpello, venne portata di fronte a una fornace. Gli dissero: o bestemmi rinnegando la fede cristiana, o ti gettiamo tra le fiamme. Apollonia si divincolò e si buttò lei stessa. Il riconoscimento della sua santità è stato discusso e contestato, proprio perché aveva anticipato il gesto dei suoi persecutori». Lo scrittore ricorda infine due casi del secolo scorso, quello dello studente Jan Palach che si immolò dandosi fuoco durante la Primavera di Praga, nel 1969, e quello dell’irlandese Bobby Sands, che nel 1981 si lasciò morire di fame in un carcere dell’Irlanda del Nord protestando perché non gli veniva riconosciuto lo status di detenuto politico. «In entrambi i casi – spiega – la Chiesa cattolica espresse rispetto per i loro gesti, ma non approvò».