domenica 2 dicembre 2012

Hikikomori





(Cristian Martini Grimaldi) «Finché si manterrà il dualismo on/off si moltiplicheranno le alienazioni. Finché si dirà che bisogna uscire dalle relazioni in rete per vivere relazioni reali si confermerà la schizofrenia di una generazione che vive l’ambiente digitale come un ambiente puramente ludico in cui si mette in gioco un secondo sé, un’identità doppia che vive di banalità effimere, come in una bolla priva di realismo fisico, di contatto reale con il mondo e con gli altri».
Parole pronunciate da Antonio Spadaro, direttore della «Civiltà Cattolica» durante una conferenza in cui ci si domandava come la rete possa essere una risorsa di senso. 
Spadaro sostiene che la rete non sia una realtà parallela dove accade tutto ciò che non accade nella realtà fisica di tutti i giorni, ma sia «uno spazio antropologico interconnesso radicalmente con gli altri spazi della nostra vita». Può darsi che abbia ragione, ma di certo in Giappone la pensano in maniera diversa. La sindrome da isolamento dal resto del mondo (hikikomori) è una vera piaga nel Paese del Sol Levante. Ma l’isolamento è solo fisico, in realtà questi ragazzi spendono gran parte del loro tempo in rete. 
Se davvero lo spazio della rete non è “altro” rispetto ai luoghi convenzionali della socialità e dell’incontro allora in Giappone — ma ormai il fenomeno si sta allargando anche ai Paesi occidentali — questi ragazzi che vivono reclusi nelle loro stanze, autoemarginati dalla società, eppure vivacissimi in rete, non sarebbero questa piaga sociale: se la rete non è questa «bolla priva di realismo fisico» insomma non rischierebbero alcuna patologia da alienazione. 
Si direbbe invece che questi ragazzi — giovanissimi, ma anche ultratrentenni — siano incastrati proprio in quel dualismo on/off che si vorrebbe negare. 
In Giappone fece clamore (ma casi simili non sono rari) il massacro di Akihabara, dove un giovane uccise tre persone investendole con un furgoncino di fronte la stazione. Si trattava di un ragazzo che spendeva la maggior parte del proprio tempo a navigare col suo cellulare ma non aveva neppure un amico. Si sente dire la stessa cosa ormai da qualche anno, quando si fa del sarcasmo sull’uso di Facebook, si usa dire: abbiamo duemila contatti online e neppure una persona con cui andare a mangiare una pizza assieme. Sarà esagerato, ma se certi luoghi comuni resistono è perché i più hanno sperimentato e continuano a sperimentare certe (comuni) situazioni. 
Chi ha frequentato per anni gli ostelli in tutto il mondo sa bene che questi erano i luoghi per eccellenza della socialità, in cui l’incontro con l’altro era un meccanismo automatico, bastava sedersi nella hall e qualcuno prima o poi arrivava a scambiare due chiacchiere. Tutto ciò è normale quando gente di nazionalità diversa, giovane e curiosa si ritrova a interagire nello stesso luogo per diversi giorni. 
Ma gli ostelli hanno finito di essere quei luoghi di socializzazione internazionale che erano una volta, ormai nella hall ognuno se ne sta col suo pc (tablet o smartphone che sia) in contatto con gli “amici” di sempre. Insomma in ostello ora si fanno le stesse cose che si farebbero seduti in ufficio o sulla poltrona di casa. Continuiamo a viaggiare sì, ma come dire, senza wi-fi ci sentiamo tutti un po’ off.
L'Osservatore Romano, 30 novembre 2012.