sabato 1 dicembre 2012

Intima Ecclesiae Natura



(Cardinale Robert Sarah) Vede la luce il motu proprio Intima Ecclesiae natura dopo un prolungato periodo di riflessione, di consultazione e di redazione. Entrerà in vigore per la Chiesa universale a partire dal 10 di questo stesso mese. Il testo concerne in primo luogo il ministero episcopale relativamente alla responsabilità dei pastori per il servizio di carità della Chiesa.
Del resto, il Papa sottolinea ripetutamente quanto questo servizio sia importante per la Chiesa; e lo si evince anche dal titolo stesso del motu proprio. Sulla funzione preminente della carità, infatti, il Pontefice è ritornato anche lo scorso 8 ottobre nel dare avvio al Sinodo sulla nuova evangelizzazione. Egli ricordava che le due colonne per la nuova evangelizzazione sono confessio e caritas.
Le origini ideali del documento si devono cercare nella prima enciclica di Benedetto XVI, nella quale egli osservava che il Codex iuris canonici non enuclea in dettaglio la responsabilità del vescovo nell’esercizio del servizio della carità (Deus caritas est [Dce], 32). Tale lacuna viene oggi colmata con la presente legislazione, che contempla tre grandi soggetti dell’attività caritativa e ne esplicita diritti e doveri: il vescovo, i fedeli e gli organismi di carità, che sono espressione di quell’ «organizzazione che è presupposto per un servizio comunitario ordinato» (Dce, 20). Il documento si articola in due parti, un’introduzione teologica e una parte dispositiva. Le considerazioni che seguono vogliono approfondire quella dimensione teologica del servizio di carità della Chiesa che ispira anche la nuova normativa.
La dimensione teologica
La riflessione teologica è necessaria perché la natura dell’oggetto del motu proprio lo è nella sua intima essenza. Il grande merito di Benedetto XVI con la sua prima enciclica Deus caritas est è stato di ancorare il servizio della carità alla sua reale fonte, secondo quanto la rivelazione ha di più prezioso e quanto di più centrale. Noi abbiamo conosciuto Dio come amore. Il nome di Dio è carità: è il modo in cui si presenta, il criterio — se così si può dire — con il quale si definisce e si distingue e ci rende possibile entrare in comunione di vita con Lui. Questo nome di Dio, il modo in cui lo possiamo riconoscere come nostro Dio e invocarlo, è appunto carità. E questo a sua volta ci rimanda alla Trinità. Dio è carità perché è sì unico, e tuttavia non è solo, ma Padre e Figlio e Spirito santo. Queste persone divine amano e si donano reciprocamente. Chi a sua volta accoglie questo amore, manifestatosi visibilmente in Cristo, forma la Chiesa, che diventa lo specchio in terra di una comunione di amore celeste. E come non possiamo intendere la Chiesa senza la Trinità, così non possiamo intendere la carità della Chiesa senza la carità della Trinità. Perciò possiamo dire con sant’Agostino: «Se hai visto la carità, hai visto la Trinità».
Queste considerazioni ci portano al cuore della nostra riflessione: la missione di carità della Chiesa non è comprensibile senza questo fondamentale dato teologico e ha bisogno perciò del dato teologico per giungere alla sua piena espressione. Perché ogni azione della Chiesa ha per sorgente la Trinità. Ed è dunque questo amore trinitario che vogliamo in ultima analisi rivelare con la nostra azione caritativa. Abbiamo la missione di rivelare, tramite la carità, l’amore che Dio ha per ogni uomo e fare dunque in modo che ogni uomo possa sperimentare personalmente di essere amato da Dio.
Missione della Chiesa
In questo senso l’azione caritativa della Chiesa si inserisce nella più vasta missione ecclesiale. Sin dal-l’inizio, i primi apostoli e quanti annunciavano la buona Novella hanno compreso che la missione della Chiesa era, alla sequela di Cristo, quella di vivere ispirandosi alla bontà e all’amore di Dio Padre. Poi hanno progressivamente e intimamente sviluppato la convinzione che la diaconia fosse l’altra dimensione dell’annuncio di salvezza e che questi due compiti pastorali non potessero essere dissociati. Al riguardo, la Chiesa di Gerusalemme aveva compreso che gli atti di compassione di Cristo, quando moltiplicava i pani (Matteo, 14, 17-21; 15, 32-39; Giovanni , 6, 1-65), guariva i malati o resuscitava i morti (Luca, 7, 11-17; Giovanni, 11, 1-43), parlava con la Samaritana (Giovanni, 4, 1-41), o mangiava a casa di Zaccheo (Luca, 18, 1-10), erano manifestazioni dell’annuncio di salvezza, al punto che non era possibile scindere la dottrina di Cristo dalla sua presenza compassionevole e piena d’amore verso coloro che soffrono e versano in condizioni di necessità.
In questa luce si comprende perché la missione della Chiesa si compone pertanto di tre munera: annuncio e testimonianza (kèrygma e martyrìa), celebrazione (leitourgìa) e servizio (diakonìa). Per il motu proprio il Papa prende avvio dal numero 25 della Deus caritas est, dove essi vengono definiti come tre compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l’uno dall’altro. Nella misura in cui la Chiesa esercita tali tre compiti, essa diventa se stessa, rendendo pertanto possibile la comunione tra gli uomini e il Dio trinitario. Questo ci induce anche a considerare che la carità non è consecutiva, ma costitutiva rispetto all’azione ecclesiale. Essa cioè non è successiva alla fede creduta e celebrata, ma si dà con essa. Infatti, dal punto di vista cristiano, la fede opera mediante la carità e la liturgia stessa vive della carità fraterna e della fede che contempla e adora il volto di Dio, mentre l’adorazione di Dio si trasforma poi in servizio al prossimo. «La carità non è per la Chiesa una specie di attività di assistenza sociale che si potrebbe anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura, è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza» (Dce, 25 a). Tutto cioè è importante per evitare di accreditare un’identità di Chiesa che si vede affidati determinati servizi dalla società, o che prende iniziative rispetto a determinati problemi ed emergenze, senza invece sentirsi generare e animare continuamente dalla carità che è Dio. Dunque per una comunità cristiana l’attenzione ai bisognosi, ai sofferenti, agli emarginati, non è succedanea o accessoria all’azione ecclesiale, ma sostanziale e coessenziale.
Il servizio di carità come ministero
Fin dall’inizio la Chiesa ha dato espressione istituzionale alla sua missione di carità. Infatti il primo ministero diaconale nasce in seno alla Chiesa delle origini, nella comunità di Gerusalemme, quando gli apostoli scelgono sette diaconi per servire alle mense. Non si trattava, però di offrire un servizio tecnico di mera distribuzione: quegli uomini dovevano essere «pieni di Spirito e di sapienza» (cfr. At 6, 1-6). «Ciò significa — commenta Benedetto XVI — che il servizio sociale che dovevano effettuare era assolutamente concreto, ma al contempo era senz’altro anche un servizio spirituale; il loro perciò era un vero ufficio spirituale, che realizzava un compito essenziale della Chiesa, quello dell’amore ben ordinato del prossimo». E conclude scrivendo: «Con la formazione di questo consesso dei Sette, la “diaconia” — il servizio (ministerium nell’originale latino) dell’amore del prossimo esercitato comunitariamente e in modo ordinato era ormai instaurata nella struttura fondamentale della Chiesa stessa» (Dce, 21).
L’espressione utilizzata dal Pontefice per definire la diaconia della carità mi sembra molto importante: un vero ufficio spirituale.
L’ufficio o ministero consiste nel partecipare alla missione, al servizio e alla dignità di Cristo come inviato dal Padre e servitore degli uomini, poiché è venuto per servire e non per essere servito (cfr. Matteo, 20, 28). E partecipare vuol dire essere in qualche modo strumento, rigettando qualunque pretesa di essere «a fianco di», sorgente o fine di quanto si serve. Ciò implica che l’azione di carità rientra anche strutturalmente nella missione ecclesiale e questo è designato dall’uso del concetto di ministero, cioè di un servizio ordinato della Chiesa al quale è associato il dono dello Spirito Santo. È in questo senso che forse va maggiormente illuminato il significato del diaconato, specialmente quello permanente. In ogni caso, anche nel Proemio della nuova normativa si parla di «ministerium caritatis» in quanto parte costitutiva della missione ecclesiale. Il concetto di ministero consente soprattutto di evidenziare il nesso che il servizio della carità ha con il ministero ordinato e, più in specie, con il ministero episcopale. E questo è uno dei punti di maggiore interesse per il motu proprio Intima Ecclesiae natura. D’altro canto, situare il servizio della carità dentro la missione ecclesiale significa relazionarlo necessariamente con il ministero episcopale, essendo episcopale la natura della Chiesa (Dce, 32).
La responsabilità dei vescovi
La motivazione principale della nuova normativa è proprio quella di ribadire la responsabilità del vescovo nell’azione caritativa in quanto missione ecclesiale, sia quando anima l’azione svolta dai fedeli, senza che ciò limiti la loro libertà di iniziativa o la loro autonomia nelle attività di loro competenza, sia in particolare quando si tratta di organismi caritativi cattolici. Già l’enciclica Deus caritas est ci ricorda come «nelle Chiese particolari, i Vescovi quali successori degli Apostoli portino la prima responsabilità della realizzazione, anche nel presente, del programma indicato negli Atti degli Apostoli cfr. 2, 42-44)» (Dce, 32). Tale responsabilità era stata menzionata a suo tempo nel Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi, in cui si considera il vescovo come «presidente e ministro della carità nella Chiesa» (n. 195).
Tutto questo implica, da un punto di vista personale, un impegno concreto e una testimonianza di sobrietà personale, di vicinanza paterna e di carità affettuosa verso i poveri e, da un punto di vista pastorale, un’attenzione particolare, affinché la Chiesa, a livello diocesano e parrocchiale, viva la diaconìa nel modo che Cristo ci ha mostrato. Il vescovo deve, tramite un programma di catechesi e formazione cristiana, fare di tutto perché la sua comunità abbia un «cuore che vede» le miserie della società e venga incontro, portando conforto e consolazione, ai poveri e ai sofferenti. Soprattutto però questa responsabilità indica che il vescovo è garante della comunione. Nella sua persona si incontrano e si crea unità tra i diversi munera della Chiesa: annuncio, sacramenti e carità, in quanto egli ne garantisce l’autenticità e il reciproco alimentarsi. Poi questa responsabilità della comunione fa sì che il vescovo sia il garante prezioso del dialogo che deve esistere in seno a quegli organismi di carità che si richiamano a una comune appartenenza cristiana. Questo deve valere anche per quegli organismi che operano nella sua diocesi, pur provenendo geograficamente da altre realtà ecclesiali. Il motu proprio insiste nella parte dispositiva su questa comunione intorno al vescovo, che mi sembra necessaria soprattutto in tanti Paesi di missione.
Sulla scorta del documento pontificio vi è un altro importante aspetto di tale responsabilità, e cioè l’esortare i fedeli a vivere la loro vita cristiana e a mettere in atto il comandamento di Cristo: «Che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Giovanni , 15, 12), in modo che essi percepiscano la necessità di operare pratiche di carità, che vanno dall’impegno personale all’azione organizzata nei tanti gruppi di volontariato cattolico.
Evidentemente il vescovo non può presiedere da solo a questo servizio della carità, perché l’amore «ha bisogno anche di organizzazione quale presupposto per un servizio comunitario ordinato» (Dce, 20). Perciò si suggerisce di istituire un ufficio specifico che curi a suo nome il servizio della carità. È questo un possibile ruolo della Caritas diocesana. La sua peculiarità consiste, a differenza di altre organizzazioni nate da aggregazioni di laici o istituti religiosi, nell’essere l’organo ufficiale del vescovo per la pastorale della carità. Analogamente in ambito parrocchiale è opportuno che si crei un servizio di Caritas parrocchiale, che esprime la sollecitudine della Chiesa per i poveri e i sofferenti e che animi i fedeli alla testimonianza di carità. Infatti, proprio in virtù della sua origine e della sua natura, ogni Caritas è più strettamente legata ai pastori della Chiesa, e, come tale, è chiamata a «condividere, in collaborazione con la Gerarchia ecclesiastica, la missione della Chiesa di manifestare, attraverso la carità vissuta, quell’amore che è Dio stesso» (Decreto del 2 maggio 2012 per l’approvazione degli Statuti di Caritas Internationalis). Tuttavia non sarebbe corretto, e neppure realistico, restringere la pastorale della carità della Chiesa alla Caritas ai diversi livelli. Le iniziative dei fedeli e quelle nate nel corso della storia dal carisma di religiosi sono numerosissime e testimoniano la varietà di forme che da sempre caratterizza la vita della Chiesa; anzi possiamo ben affermare che a ogni necessità nuova nel corso dei tempi lo Spirito Santo ha aiutato a rispondere con sempre nuove intuizioni. Compito del vescovo è di sostenere questa pluralità di opere, non di omologarle, tenendo sempre presente che ogni funzione di coordinamento non è mai per sopprimere la varietà, ma al servizio di essa. Proprio questo criterio dovrà animare anche quella istanza di coordinamento che la nuova normativa prevede a livello diocesano come espressione della cura del vescovo per l’azione di carità della Chiesa.
Tra i diversi aspetti che in questa sede non possono essere approfonditi, non vorrei però dimenticare la responsabilità del vescovo per la formazione di chi lavora nella carità della Chiesa e su questo insiste anche il motu proprio. Spesso ci accontentiamo semplicemente del fatto che qualcuno offre tempo ed energie per gli altri. Ma non si tratta solo di fare il bene, ma di fare bene il bene, e in particolare di far sì che gli operatori abbiano anche quella struttura di umanità e di fede che consenta loro di affrontare anche situazioni difficili. Perciò mi sembra doveroso insistere sulla necessità della formazione a diversi livelli. In primo luogo è la formazione del vescovo che non si stanca di fare propria una concezione pastorale dell’attività caritativa. In seguito si tratta della formazione dei fedeli, perché vivano la carità, ma nel contempo perché vivendo la carità conoscano sempre più quel mistero di Cristo, modello di amore, al quale sono chiamati a conformarsi, a configurarsi, fino a diventare addirittura Ipse Christus, «il Cristo stesso» (cfr. Galati, 2, 19-20). Inoltre vi è la formazione degli operatori, sia nella sua dimensione professionale, sia in quella propriamente interiore, perché sappiano prendere sul serio la pienezza della persona che vogliono servire e che non è semplicemente un povero o un ammalato. Infine la necessità della formazione dovrà indurci anche a una più approfondita riflessione sul senso vero della carità cristiana, che non possiamo restringere a un modello sociale. Lo studio della dottrina sociale della Chiesa è ampiamente diffuso e accettato, anche nelle istituzioni accademiche. Meno accolto e compreso sembra invece lo studio della teologia della carità, cioè di quella riflessione sull’impronta teologica, sulla dimensione ecclesiologica e sull’approccio personalistico che deve caratterizzare il servizio della carità degli organismi cattolici, se non vogliono limitarsi a un’attività puramente sociale. In questo campo molto cammino di coscientizzazione e di attuazione deve ancora farsi.
Una carità per evangelizzare
Anche nel servizio della carità uno strumento giuridico vale esattamente come strumento: non può sostituire l’attività e può invece promuoverla, orientarla, sostenerla. È ciò che il nostro Pontificio Consiglio Cor Unum si augura con la pubblicazione del motu proprio Intima Ecclesiae natura: che questo sia il suo frutto nella Chiesa universale. Non mi sembra un caso che veda la luce proprio nell’Anno della fede, forse per ricordarci che, come senza le opere la fede è morta, così senza la fede le opere perdono il loro senso profondo. Ritengo invece che l’insistenza del Papa nel ricordare a tutta la Chiesa il luogo ecclesiale del servizio di carità ci aiuti a viverlo come un grande mezzo di evangelizzazione. Perché a questo, in ultima analisi, la Chiesa è chiamata: non a concentrarsi su se stessa, ma a far splendere quel volto di Cristo, luce delle genti, della quale essa è solo un riflesso, come la luna, che non possiede luce propria, ma riflette la luce del sole.

L'Osservatore Romano. 1° dicembre 2012.

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Di seguito il testo della Lettera Apostolica.
Proemio
«L'intima natura della Chiesa si esprime in un triplice compito: annuncio della Parola di Dio (kerygma-martyria), celebrazione dei Sacramenti (leiturgia), servizio della carità (diakonia). Sono compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l’uno dall’altro» (Lett. enc.Deus caritas est, 25).
Anche il servizio della carità è una dimensione costitutiva della missione della Chiesa ed è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza (cfr ibidem); tutti i fedeli hanno il diritto ed il dovere di impegnarsi personalmente per vivere il comandamento nuovo che Cristo ci ha lasciato (cfrGv 15,12), offrendo all’uomo contemporaneo non solo aiuto materiale, ma anche ristoro e cura dell’anima (cfr Lett. enc. Deus caritas est, 28).
All’esercizio della diakonia della carità la Chiesa è chiamata anche a livello comunitario, dalle piccole comunità locali alle Chiese particolari, fino alla Chiesa universale; per questo c’è bisogno anche di un’«organizzazione quale presupposto per un servizio comunitario ordinato» (cfr ibid., 20), organizzazione articolata pure mediante espressioni istituzionali.
A proposito di questa diakonia della carità, nella Lettera enciclica Deus caritas est segnalavo che «alla struttura episcopale della Chiesa […] corrisponde il fatto che, nelle Chiese particolari, i Vescovi quali successori degli Apostoli portino la prima responsabilità della realizzazione» del servizio della carità (n. 32), e notavo che «il Codice di Diritto Canonico, nei canoni riguardanti il ministero episcopale, non tratta espressamente della carità come di uno specifico ambito dell'attività episcopale» (ibidem).
Anche se «il Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi ha approfondito più concretamente il dovere della carità come compito intrinseco della Chiesa intera e del Vescovo nella sua Diocesi» (ibidem), rimaneva comunque il bisogno di colmare la suddetta lacuna normativa in modo da esprimere adeguatamente, nell'ordinamento canonico, l'essenzialità del servizio della Carità nella Chiesa ed il suo rapporto costitutivo con il ministero episcopale, tratteggiando i profili giuridici che tale servizio comporta nella Chiesa, soprattutto se esercitato in maniera organizzata e col sostegno esplicito dei Pastori.
In tale prospettiva, perciò, col presente Motu Proprio intendo fornire un quadro normativo organico che serva meglio ad ordinare, nei loro tratti generali, le diverse forme ecclesiali organizzate del servizio della carità, che è strettamente collegata alla natura diaconale della Chiesa e del ministero episcopale.
E’ importante, comunque, tenere presente che «l’azione pratica resta insufficiente se in essa non si rende percepibile l’amore per l’uomo, un amore che si nutre dell’incontro con Cristo» (ibid., 34). Pertanto, nell’attività caritativa, le tante organizzazioni cattoliche non devono limitarsi ad una mera raccolta o distribuzione di fondi, ma devono sempre avere una speciale attenzione per la persona che è nel bisogno e svolgere, altresì, una preziosa funzione pedagogica nella comunità cristiana, favorendo l’educazione alla condivisione, al rispetto e all’amore secondo la logica del Vangelo di Cristo. L’attività caritativa della Chiesa, infatti, a tutti i livelli, deve evitare il rischio di dissolversi nella comune organizzazione assistenziale, divenendone una semplice variante (cfr ibid., 31).
Le iniziative organizzate che, nel settore della carità, vengono promosse dai fedeli nei vari luoghi sono molto differenti tra di loro e richiedono un’appropriata gestione. In modo particolare, si è sviluppata a livello parrocchiale, diocesano, nazionale ed internazionale l'attività della «Caritas», istituzione promossa dalla Gerarchia ecclesiastica, che si è giustamente guadagnata l’apprezzamento e la fiducia dei fedeli e di tante altre persone in tutto il mondo per la generosa e coerente testimonianza di fede, come pure per la concretezza nel venire incontro alle richieste dei bisognosi.
Accanto a quest'ampia iniziativa, sostenuta ufficialmente dall'autorità della Chiesa, nei vari luoghi sono sorte molteplici altre iniziative, scaturite dal libero impegno di fedeli che, in forme differenti, vogliono contribuire col proprio sforzo a testimoniare concretamente la carità verso i bisognosi. Le une e le altre sono iniziative diverse per origine e per regime giuridico, pur esprimendo egualmente sensibilità e desiderio di rispondere ad un medesimo richiamo.
La Chiesa in quanto istituzione non può dirsi estranea alle iniziative promosse in modo organizzato, libera espressione della sollecitudine dei battezzati per le persone ed i popoli bisognosi. Perciò i Pastori le accolgano sempre come manifestazione della partecipazione di tutti alla missione della Chiesa, rispettando le caratteristiche e l’autonomia di governo che, secondo la loro natura, competono a ciascuna di esse quali manifestazione della libertà dei battezzati.
Accanto ad esse, l’autorità ecclesiastica ha promosso, di propria iniziativa, opere specifiche, attraverso le quali provvede istituzionalmente ad incanalare le elargizioni dei fedeli, secondo forme giuridiche e operative adeguate che consentano di arrivare più efficacemente a risolvere i concreti bisogni.
Tuttavia, nella misura in cui dette attività siano promosse dalla Gerarchia stessa, oppure siano esplicitamente sostenute dall'autorità dei Pastori, occorre garantire che la loro gestione sia realizzata in accordo con le esigenze dell'insegnamento della Chiesa e con le intenzioni dei fedeli, e che rispettino anche le legittime norme date dall'autorità civile.
Davanti a queste esigenze, si rendeva necessario determinare nel diritto della Chiesa alcune norme essenziali, ispirate ai criteri generali della disciplina canonica, che rendessero esplicite in questo settore di attività le responsabilità giuridiche assunte in materia dai vari soggetti implicati, delineando, in modo particolare, la posizione di autorità e di coordinamento al riguardo che spetta al Vescovo diocesano.
Dette norme dovevano avere, tuttavia, sufficiente ampiezza per comprendere l’apprezzabile varietà di istituzioni di ispirazione cattolica, che come tali operano in questo settore, sia quelle nate su impulso dalla stessa Gerarchia, sia quelle sorte dall’iniziativa diretta dei fedeli, ma accolte ed incoraggiate dai Pastori del luogo. Pur essendo necessario stabilire norme a questo riguardo, occorreva però tener conto di quanto richiesto dalla giustizia e dalla responsabilità che i Pastori assumono di fronte ai fedeli, nel rispetto della legittima autonomia di ogni ente.
Parte dispositiva
Di conseguenza, su proposta del Cardinale Presidente del Pontificio Consiglio «Cor Unum», sentito il parere del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, stabilisco e decreto quanto segue:
Art. 1
§ 1. I fedeli hanno il diritto di associarsi e d'istituire organismi che mettano in atto specifici servizi di carità, soprattutto in favore dei poveri e dei sofferenti. Nella misura in cui risultino collegati al servizio di carità dei Pastori della Chiesa e/o intendano avvalersi per tale motivo del contributo dei fedeli, devono sottoporre i propri Statuti all'approvazione della competente autorità ecclesiastica ed osservare le norme che seguono.
§ 2. Negli stessi termini, è anche diritto dei fedeli costituire fondazioni per finanziare concrete iniziative caritative, secondo le norme dei cann. 1303 CIC e 1047 CCEO. Se questo tipo di fondazioni rispondesse alle caratteristiche indicate nel § 1 andranno anche osservate, congrua congruis referendo, le disposizioni della presente legge.
§ 3. Oltre ad osservare la legislazione canonica, le iniziative collettive di carità a cui fa riferimento il presente Motu Proprio sono tenute a seguire nella propria attività i principi cattolici e non possono accettare impegni che in qualche misura possano condizionare l'osservanza dei suddetti principi.
§ 4. Gli organismi e le fondazioni promossi con fini di carità dagli Istituti di vita consacrata e Società di vita apostolica sono tenuti all'osservanza delle presenti norme ed in essi deve anche seguirsi quanto stabilito dai cann. 312 § 2 CIC e 575 § 2 CCEO.
Art. 2
§ 1. Negli Statuti di ciascun organismo caritativo a cui fa riferimento l'articolo precedente, oltre alle cariche istituzionali ed alle strutture di governo secondo il can. 95 § 1 CIC, saranno espressi anche i principi ispiratori e le finalità dell'iniziativa, le modalità di gestione dei fondi, il profilo dei propri operatori, nonché i rapporti e le informazioni da presentare all'autorità ecclesiastica competente.
§ 2. Un organismo caritativo può usare la denominazione di "cattolico" solo con il consenso scritto dell'autorità competente, come indicato dal can. 300 CIC.
§ 3. Gli organismi promossi dai fedeli ai fini della carità possono avere un Assistente ecclesiastico nominato a norma degli Statuti, secondo i cann. 324 § 2 e 317 CIC.
§ 4. Allo stesso tempo, l'autorità ecclesiastica tenga presente il dovere di regolare l'esercizio dei diritti dei fedeli secondo i cann. 223 § 2 CIC e 26 § 3 CCEO, onde venga evitato il moltiplicarsi delle iniziative di servizio di carità a detrimento dell'operatività e dell'efficacia rispetto ai fini che si propongono.
Art. 3
§ 1. Agli effetti degli articoli precedenti, s'intende per autorità competente, nei rispettivi livelli, quella indicata dai cann. 312 CIC e 575 CCEO.
§ 2. Trattandosi di organismi non approvati a livello nazionale, anche se operanti in varie diocesi, per autorità competente si intende il Vescovo diocesano del luogo dove l'ente abbia la sua sede principale. In ogni caso, l'organizzazione ha il dovere di informare i Vescovi delle altre diocesi ove operasse, e di rispettare le loro indicazioni riguardanti le attività delle varie entità caritative presenti in diocesi.
Art. 4
§ 1. Il Vescovo diocesano (cfr can. 134 § 3 CIC e can. 987 CCEO) esercita la propria sollecitudine pastorale per il servizio della carità nella Chiesa particolare a lui affidata in qualità di Pastore, guida e primo responsabile di tale servizio.
§ 2. Il Vescovo diocesano favorisce e sostiene iniziative ed opere di servizio al prossimo nella propria Chiesa particolare, e suscita nei fedeli il fervore della carità operosa come espressione di vita cristiana e di partecipazione alla missione della Chiesa, come segnalato dai cann. 215 e 222 CIC e 25 e 18 CCEO.
§ 3. Spetta al rispettivo Vescovo diocesano vigilare affinché nell'attività e nella gestione di questi organismi siano sempre osservate le norme del diritto universale e particolare della Chiesa, nonché le volontà dei fedeli che avessero fatto donazioni o lasciti per queste specifiche finalità (cfr cann. 1300 CIC e 1044 CCEO).
Art. 5
Il Vescovo diocesano assicuri alla Chiesa il diritto di esercitare il servizio della carità, e curi che i fedeli e le istituzioni sottoposte alla sua vigilanza osservino la legittima legislazione civile in materia.
Art. 6
E' compito del Vescovo diocesano, come indicato dai cann. 394 § 1 CIC e 203 § 1 CCEO, coordinare nella propria circoscrizione le diverse opere di servizio di carità, sia quelle promosse dalla Gerarchia stessa, sia quelle rispondenti all'iniziativa dei fedeli, fatta salva l'autonomia che loro competesse secondo gli Statuti di ciascuna. In particolare, curi che le loro attività mantengano vivo lo spirito evangelico.
Art. 7
§ 1. Le entità di cui all'art. 1 § 1 sono tenute a selezionare i propri operatori tra persone che condividano, o almeno rispettino, l'identità cattolica di queste opere.
§ 2. Per garantire la testimonianza evangelica nel servizio della carità, il Vescovo diocesano curi che quanti operano nella pastorale caritativa della Chiesa, accanto alla dovuta competenza professionale, diano esempio di vita cristiana e testimonino una formazione del cuore che documenti una fede all'opera nella carità. A tale scopo provveda alla loro formazione anche in ambito teologico e pastorale, con specifici curricula concertati con i dirigenti dei vari organismi e con adeguate offerte di vita spirituale.
Art. 8
Ove fosse necessario per numero e varietà di iniziative, il Vescovo diocesano stabilisca nella Chiesa a lui affidata un ufficio che a nome suo orienti e coordini il servizio della carità.
Art. 9
§ 1. Il Vescovo favorisca la creazione, in ogni parrocchia della sua circoscrizione, d'un servizio di «Caritas» parrocchiale o analogo, che promuova anche un’azione pedagogica nell’ambito dell’intera comunità per educare allo spirito di condivisione e di autentica carità. Qualora risultasse opportuno, tale servizio sarà costituito in comune per varie parrocchie dello stesso territorio.
§ 2. Al Vescovo ed al parroco rispettivo spetta assicurare che, nell'ambito della parrocchia, insieme alla «Caritas» possano coesistere e svilupparsi altre iniziative di carità, sotto il coordinamento generale del parroco, tenendo conto tuttavia di quanto indicato nell'art. 2 § 4.
§ 3. E' dovere del Vescovo diocesano e dei rispettivi parroci evitare che in questa materia i fedeli possano essere indotti in errore o in malintesi, sicché dovranno impedire che attraverso le strutture parrocchiali o diocesane vengano pubblicizzate iniziative che, pur presentandosi con finalità di carità, proponessero scelte o metodi contrari all'insegnamento della Chiesa.
Art. 10
§ 1. Al Vescovo spetta la vigilanza sui beni ecclesiastici degli organismi caritativi soggetti alla sua autorità.
§ 2. E' dovere del Vescovo diocesano assicurarsi che i proventi delle collette svolte ai sensi dei cann. 1265 e 1266 CIC, e cann. 1014 e 1015 CCEO, vengano destinati alle finalità per cui siano stati raccolti [cann. 1267 CIC, 1016 CCEO).
§ 3. In particolare, il Vescovo diocesano deve evitare che gli organismi di carità che gli sono soggetti siano finanziati da enti o istituzioni che perseguono fini in contrasto con la dottrina della Chiesa. Parimenti, per non dare scandalo ai fedeli, il Vescovo diocesano deve evitare che organismi caritativi accettino contributi per iniziative che, nella finalità o nei mezzi per raggiungerle, non corrispondano alla dottrina della Chiesa.
§ 4. In modo particolare, il Vescovo curi che la gestione delle iniziative da lui dipendenti sia testimonianza di sobrietà cristiana. A tale scopo vigilerà affinché stipendi e spese di gestione, pur rispondendo alle esigenze della giustizia ed ai necessari profili professionali, siano debitamente proporzionate ad analoghe spese della propria Curia diocesana.
§ 5. Per consentire che l'autorità ecclesiastica di cui all'art. 3 § 1 possa esercitare il suo dovere di vigilanza, le entità menzionate nell'art. 1 § 1 sono tenute a presentare all’Ordinario competente il rendiconto annuale, nel modo indicato dallo stesso Ordinario.
Art. 11
Il Vescovo diocesano è tenuto, se necessario, a rendere pubblico ai propri fedeli il fatto che l'attività d'un determinato organismo di carità non risponda più alle esigenze dell'insegnamento della Chiesa, proibendo allora l'uso del nome "cattolico" ed adottando i provvedimenti pertinenti ove si profilassero responsabilità personali.
Art. 12
§ 1. II Vescovo diocesano favorisca l'azione nazionale ed internazionale degli organismi di servizio della carità sottoposti alla sua cura, in particolare la cooperazione con le circoscrizioni ecclesiastiche più povere analogamente a quanto stabilito dai cann. 1274 § 3 CIC e 1021 § 3 CCEO.
§ 2. La sollecitudine pastorale per le opere di carità, a seconda delle circostanze di tempo e di luogo, può essere esplicata congiuntamente da vari Vescovi viciniori nei riguardi di più Chiese insieme, a norma del diritto. Se si trattasse di ambito internazionale, sia consultato preventivamente il competente Dicastero della Santa Sede. E’ opportuno, inoltre, che, per iniziative di carità a livello nazionale, sia consultato da parte del Vescovo l’ufficio relativo della Conferenza Episcopale.
Art. 13
Resta sempre integro il diritto dell'autorità ecclesiastica del luogo di dare il suo assenso alle iniziative di organismi cattolici da svolgere nell'ambito della sua competenza, nel rispetto della normativa canonica e dell'identità propria dei singoli organismi, ed è suo dovere di Pastore vigilare perché le attività realizzate nella propria diocesi si svolgano conformemente alla disciplina ecclesiastica, proibendole o adottando eventualmente i provvedimenti necessari se non la rispettassero.
Art. 14
Dove sia opportuno, il Vescovo promuova le iniziative di servizio della carità in collaborazione con altre Chiese o Comunità ecclesiali, fatte salve le peculiarità proprie di ciascuno.
Art. 15
§ 1. II Pontificio Consiglio «Cor Unum» ha il compito di promuovere l'applicazione di questa normativa e di vigilare affinché sia applicata a tutti i livelli, ferma restando la competenza del Pontificio Consiglio per i Laici sulle associazioni di fedeli, prevista dall'art 133 della Cost. ap. Pastor Bonus, e quella propria della Sezione per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato e fatte salve le competenze generali degli altri Dicasteri e Organismi della Curia Romana. In particolare il Pontificio Consiglio «Cor Unum» curi che il servizio della carità delle istituzioni cattoliche in ambito internazionale si svolga sempre in comunione con le rispettive Chiese particolari.
§ 2. Al Pontificio Consiglio «Cor Unum» compete parimenti l'erezione canonica di organismi di servizio di carità a livello internazionale, assumendo successivamente i compiti disciplinari e di promozione che corrispondano in diritto.
Tutto ciò che ho deliberato con questa Lettera apostolica in forma di Motu Proprio, ordino che sia osservato in tutte le sue parti, nonostante qualsiasi cosa contraria, anche se degna di particolare menzione, e stabilisco che venga promulgato mediante la pubblicazione sul quotidiano «L'Osservatore Romano», ed entri in vigore il giorno 10 dicembre 2012.
Dato a Roma, presso San Pietro, l’11 Novembre 2012, ottavo Anno del Pontificato.
BENEDICTUS PP XVI