lunedì 3 dicembre 2012

L'esultanza di Gesù


Di seguito il Vangelo di oggi, 4 dicembre, martedi della I settimana di Avvento, con un commento.
Per altri commenti a questo Vangelo vedi:


29 Nov 2011
Di seguito il Vangelo di oggi, 29 novembre, martedi della I settimana di Avvento, con un commento, una pagina breve di sant'Alfonso e un testo di Benedetto XVI. E c'è l'altro modo di usare la ragione,. di essere sapienti, ...


Mosaico della Visitazione, Basilica eufrasiana, Parenzo - Istria


E c'è l'altro modo di usare la ragione, 
di essere sapienti, 
quello dell'uomo che riconosce chi è
riconosce la propria misura e la grandezza di Dio, 
aprendosi nell'umiltà alla novità dell'agire di Dio. 
Così, proprio accettando la propria piccolezza, 
facendosi piccolo come realmente è, arriva alla verità
In questo modo, anche la ragione può esprimere tutte le sue possibilità, 
non viene spenta, ma si allarga, diviene più grande.

Benedetto XVI



Dal Vangelo secondo Luca 10,21-24. 

In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: «Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così a te è piaciuto. 
Ogni cosa mi è stata affidata dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare». 
E volgendosi ai discepoli, in disparte, disse: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. 
Vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò che voi udite, ma non l'udirono». 


Il commento


La nostra piccolezza è la gioia del Signore. Il Padre, infatti, ha voluto rivelare "queste cose" - “il grande mistero del Figlio” (Benedetto XVI) - ai “nèpioi”, i “piccoli” e ultimi della terra. Incontrando i settantadue discepoli al ritorno dalla missione, dove erano stati inviati "come agnelli in mezzo ai lupi, senza borsa, né bisaccia, né sandali", Gesù “riconosce” - secondo il significato del greco originale dell’espressione “ti rendo lode” - in quegli sguardi "pieni di gioia" il riflesso di Dio in ciò che i loro “occhi hanno visto”, e, “in quello stesso istante”, “esulta nello stesso Spirito” che li aveva preceduti e accompagnati. L'annuncio del Vangelo aveva segnato la sconfitta di satana impotente contro i piccoli discepoli del Signore; durante la missione si era compiuta in loro la stessa beatitudine che, attraverso la predicazione, aveva raggiunto la "messe" alla quale erano stati inviati: beati i poveri perché "vedono" avvicinarsi il Regno dei Cieli preparato per loro. Il Vangelo, infatti, è sempre annunciato dai poveri per i poveri, perché solo loro sanno guardare Cristo nell’umiltà che si fa semplicità e che esplode in una lode purissima. Scriveva San Tommaso d’Aquino che “la luce della fede fa vedere le cose che sono credute…; l’habitus della fede inclina lo spirito dell’uomo ad assentire alle cose della vera fede, non alle altre”. E’ lo stesso Spirito che agisce in chi annuncia e in chi ascolta, come accadde nell’incontro tra la Vergine Maria ed Elisabetta, entrambe immagini degli ’anawim, i poveri e i piccoli che attendono la salvezza. Non a caso, infatti, Giovanni “esultò” di gioia nel grembo di Elisabetta all’udire lo “shalom” di Maria, il saluto della prima evangelizzatrice incamminatasi per portare alla cugina l’annuncio che Dio aveva finalmente visitato il suo popolo deponendo nel suo grembo il Figlio di Dio; la stessa gioia “nello stesso Spirito Santo“ sboccia poi sulle labbra di Maria all’udire la benedizione di Elisabetta, e ancora su quelle di Gesù suo Figlio,il più piccolo tra i piccoli. In loro, infatti, vi è una connaturalità che li rende docili all’opera del Padre che prepara e precede sempre l’annuncio del Vangelo. I piccoli figli della pace accolgono senza indugio la pace, come gli apostoli accolsero, con "grandissima gioia", il saluto di Gesù risorto la sera di Pasqua. In quell’uomo avevano riconosciuto, come Maria, come Elisabetta, come i poveri, il "mistero" nascosto anche agli angeli, che "molti profeti e re hanno desiderato vedere e udire".

Nella sua infinita misericordia Dio prepara nello stesso modo gli apostoli e chi è destinato ad ascoltare il loro annuncio. La storia, infatti, ci fa tutti piccoli. E’ pur vero che ci riesce molto difficile accogliere i fatti che ci umiliano e accettare d'essere quello che siamo. Nessuno che ci abbia detto che proprio nell'indigenza e nella totale precarietà che ci definisce è nascosto il segreto dell'autentica beatitudine. Ma oggi, in questo inizio di Avvento, la gioia prorompente di Gesù vuole raggiungerci e contagiarci, assorbirci nella verità che ci può fare davvero liberi. Piccolezza infatti è sinonimo della verità che scioglie le catene del dover dimostrare sempre e a tutti i costi qualcosa. Siamo piccoli e bisognosi di tutto: ogni mattina ci svegliamo dal sonno ed è come il giorno in cui siamo nati, nudi, fragili, incapaci. L’Avvento ci annuncia che Cristo torna ancora ogni giorno a visitarci, come Maria fece con Elisabetta, perché “così è piaciuto al Padre”. Certo, potrebbe trovare le porte del nostro cuore sbarrate dalla “sapienza” della carne, quell’orgoglio che ci fa "dotti" secondo il mondo che ci "nasconde" le "cose" di Dio, la sua intimità e i suoi segreti d'amore. Ma Cristo ha il potere di passare anche attraverso le barriere dei nostri peccati e mostrarci il “frutto benedetto” del suo amore, la vita nuova e piena che è pronto a donarci accogliendoci nella sua intimità. Solo Lui “conosce” il Padre, e lo “vuole rivelare” a ciascuno di noi, proprio perché piccoli. Siamo chiamati allora ad abbandonare le certezze, gli schemi e i criteri per fare nostra la sapienza di Cristo che ci invia nel mondo piccoli per parlare ai piccoli. Abbiamo i sospiri, le lacrime, i dolori, le ansie, le preoccupazioni, l'apparente routine di cose sempre uguali - la stessa fermata dell'autobus, le stesse scartoffie, gli stessi libri, gli stessi banchi al mercato - questa nostra vita visitata dal Signore, con la quale annunciare ai piccoli che incontreremo, la beatitudine di essere e sentirsi amati sempre e ovunque, "vedendo" lo sguardo di Cristo in ogni circostanza, l'unico capace di far risuonare nell'intimo la gioia che il mondo soffoca nella menzogna.
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S. Agostino. L’umiltà è la via privilegiata per accedere al mistero di Gesù

Ascolta dunque il Signore che "confessa": Confesso a te, Padre, Signore del cielo e della terra. Che cosa "confesso"? Per che cosa ti lodo? Quest’azione di "confessare" ha – come ho detto – il significato di lode. Perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai fatte conoscere ai piccoli (Mt 11, 25). Che vuol dire ciò, fratelli? Dovete intenderlo nel senso contrario: Hai nascosto queste cose – dice – ai sapienti e agli intelligenti; ma non dice: "Le hai fatte conoscere agli stolti e agli stupidi", ma dice: Le hai nascoste, bensì, ai sapienti e agli intelligenti e le hai fatte conoscere ai piccoli. Ai superbi e agli intelligenti degni d’essere derisi, agli arroganti falsamente grandi, ma in verità gonfi di sé, oppose non gli stolti né gli stupidi, ma i piccoli. Chi sono i "piccoli"? Gli umili. Ebbene: Hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti. Egli stesso spiegò che sotto il nome di "sapienti e intelligenti" s’intendono i superbi, quando dice: E le hai fatte conoscere ai piccoli. Dunque: "Le hai nascoste a coloro che non sono piccoli". Che significa "ai non piccoli"? Significa: "ai non umili". E che significa "ai non umili" se non "ai superbi"? O via del Signore! O non c’era o era nascosta perché fosse fatta conoscere a noi! Perché il Signore esultò? Perché essa è stata rivelata ai piccoli. Dobbiamo essere piccoli, poiché se vorremo essere grandi, ritenendoci sapienti e intelligenti, non ci sarà rivelata. Chi sono i grandi? I sapienti e gli intelligenti. Affermando d’esser sapienti, son diventati stolti (Rom 1, 22). Hai un rimedio nel contrario. Se, affermando d’essere sapiente, diventi stolto, chiamati stolto e sarai sapiente. Ma dillo sul serio, dillo nel tuo intimo, poiché è come tu dirai. Se lo dici, non dirlo davanti alla gente e non tacerlo davanti a Dio. Per quanto riguarda te stesso e le tue facoltà, sei del tutto pieno di tenebre. Che cos’altro infatti è essere stolto, se non essere tenebroso nel cuore? Così in effetti di essi la Scrittura afferma: Dicendo d’essere sapienti son divenuti stolti. E prima di fare quest’affermazione, che cosa dice d’altro? E il loro cuore stolto si ottenebrò (Rom 1, 21). Tu devi dire che non sei luce a te stesso. Al massimo sei un occhio, non sei luce. A che giova un occhio aperto e sano, se manca la luce? Di’ dunque che la luce non proviene da te e grida ciò che dice la Scrittura: Tu, o Signore, darai luce alla mia lampada; con la tua luce, Signore, illuminerai le mie tenebre (Sal 17, 29). Io non sono altro che tenebre, tu invece sei la luce che fuga le tenebre e che m’illumina; luce per me che non si sprigiona da me, bensì luce ch’è parte di quella che proviene da te.
(Sermo 67, 5.8)
 
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Benedetto XVI. Il Vangelo rivelato ai piccoli

Cari fratelli e sorelle,

le parole del Signore, che abbiamo ascoltato poc'anzi nel brano evangelico  (Luca 10, 21 24), sono una sfida per noi teologi, o forse, per meglio dire, un invito a un esame di coscienza: che cosa è la teologia? che cosa siamo noi teologi? come fare bene teologia? Abbiamo sentito che il Signore loda il Padre perché ha nascosto il grande mistero del Figlio, il mistero trinitario, il mistero cristologico, davanti ai sapienti, ai dotti — essi non l'hanno conosciuto —, ma lo ha rivelato ai piccoli, ai nèpioi, a quelli che non sono dotti, che non hanno una grande cultura. A loro è stato rivelato questo grande mistero.

Con queste parole il Signore descrive semplicemente un fatto della sua vita; un fatto che inizia già ai tempi della sua nascita, quando i Magi dell'Oriente chiedono ai competenti, agli scribi, agli esegeti il luogo della nascita del Salvatore, del Re d'Israele. Gli scribi lo sanno perché sono grandi specialisti; possono dire subito dove nasce il Messia: a Betlemme! Ma non si sentono invitati ad andare: per loro rimane una conoscenza accademica, che non tocca la loro vita; rimangono fuori. Possono dare informazioni, ma l'informazione non diventa formazione della propria vita.

Poi, durante tutta la vita pubblica del Signore troviamo la stessa cosa. È inaccessibile per i dotti comprendere che questo uomo non dotto, galileo, possa essere realmente il Figlio di Dio. Rimane inaccettabile per loro che Dio, il grande, l'unico, il Dio del cielo e della terra, possa essere presente in questo uomo. Sanno tutto, conoscono anche Isaia 53, tutte le grandi profezie, ma il mistero rimane nascosto. Viene invece rivelato ai piccoli, iniziando dalla Madonna fino ai pescatori del lago di Galilea. Essi conoscono, come pure il capitano romano sotto la croce conosce: questi è il Figlio di Dio.

I fatti essenziali della vita di Gesù non appartengono solo al passato, ma sono presenti, in modi diversi, in tutte le generazioni. E così anche nel nostro tempo, negli ultimi duecento anni, osserviamo la stessa cosa. Ci sono grandi dotti, grandi specialisti, grandi teologi, maestri della fede, che ci hanno insegnato molte cose. Sono penetrati nei dettagli della Sacra Scrittura, della storia della salvezza, ma non hanno potuto vedere il mistero stesso, il vero nucleo: che Gesù era realmente Figlio di Dio, che il Dio trinitario entra nella nostra storia, in un determinato momento storico, in un uomo come noi. L'essenziale è rimasto nascosto! Si potrebbero facilmente citare grandi nomi della storia della teologia di questi duecento anni, dai quali abbiamo imparato molto, ma non è stato aperto agli occhi del loro cuore il mistero.

Invece, ci sono anche nel nostro tempo i piccoli che hanno conosciuto tale mistero. Pensiamo a santa Bernardette Soubirous; a santa Teresa di Lisieux, con la sua nuova lettura della Bibbia « non scientifica », ma che entra nel cuore della Sacra Scrittura; fino ai santi e beati del nostro tempo: santa Giuseppina Bakhita, la beata Teresa di Calcutta, san Damiano de Veuster. Potremmo elencarne tanti!

Ma da tutto ciò nasce la questione: perché è così? È il cristianesimo la religione degli stolti, delle persone senza cultura, non formate? Si spegne la fede dove si risveglia la ragione? Come si spiega questo?

Forse dobbiamo ancora una volta guardare alla storia. Rimane vero quanto Gesù ha detto, quanto si può osservare in tutti i secoli. E tuttavia c'è una « specie » di piccoli che sono anche dotti. Sotto la croce sta la Madonna, l'umile ancella di Dio e la grande donna illuminata da Dio. E sta anche Giovanni, pescatore del lago di Galilea, ma è quel Giovanni che sarà chiamato giustamente dalla Chiesa « il teologo », perché realmente ha saputo vedere il mistero di Dio e annunciarlo: con l'occhio dell'aquila è entrato nella luce inaccessibile del mistero divino.

Così, anche dopo la sua risurrezione, il Signore, sulla strada verso Damasco, tocca il cuore di Saulo, che è uno dei dotti che non vedono. Egli stesso, nella prima Lettera a Timoteo, si definisce « ignorante » in quel tempo, nonostante la sua scienza. Ma il Risorto lo tocca: diventa cieco e, al tempo stesso, diventa realmente vedente, comincia a vedere. Il grande dotto diviene un piccolo, e proprio per questo vede la stoltezza di Dio che è saggezza, sapienza più grande di tutte le saggezze umane.

Potremmo continuare a leggere tutta la storia in questo modo. Solo un'osservazione ancora. Questi dotti sapienti, sofòi e sinetòi, nella prima lettura, appaiono in un altro modo (lsaia 11,1-10). Qui sofìa e sìnesis sono doni dello Spirito Santo che riposano sul Messia, su Cristo. Che cosa significa? Emerge che c'è un duplice uso della ragione e un duplice modo di essere sapienti o piccoli.

C'è un modo di usare la ragione che è autonomo, che si pone sopra Dio, in tutta la gamma delle scienze, cominciando da quelle naturali, dove un metodo adatto per la ricerca della materia viene universalizzato: in questo metodo Dio non entra, quindi Dio non c'è. E così, infine, anche in teologia: si pesca nelle acque della Sacra Scrittura con una rete che permette di prendere solo pesci di una certa misura e quanto va oltre questa misura non entra nella rete e quindi non può esistere. Così il grande mistero di Gesù, del Figlio fattosi uomo, si riduce a un Gesù storico: una figura tragica, un fantasma senza carne e ossa, un uomo che è rimasto nel sepolcro, si è corrotto ed è realmente un morto. Il metodo sa «captare» certi pesci, ma esclude il grande mistero, perché l'uomo si fa egli stesso la misura: ha questa superbia, che nello stesso tempo è una grande stoltezza perché assolutizza certi metodi non adatti alle realtà grandi; entra in questo spirito accademico che abbiamo visto negli scribi, i quali rispondono ai Re magi: non mi tocca; rimango chiuso nella mia esistenza, che non viene toccata. È la specializzazione che vede tutti i dettagli, ma non vede più la totalità.

E c'è l'altro modo di usare la ragione, di essere sapienti, quello dell'uomo che riconosce chi è; riconosce la propria misura e la grandezza di Dio, aprendosi nell'umiltà alla novità dell'agire di Dio. Così, proprio accettando la propria piccolezza, facendosi piccolo come realmente è, arriva alla verità. In questo modo, anche la ragione può esprimere tutte le sue possibilità, non viene spenta, ma si allarga, diviene più grande. Si tratta di un'altra sofìa e sìnesis, che non esclude dal mistero, ma è proprio comunione con il Signore nel quale riposano sapienza e saggezza, e la loro verità.

In questo momento vogliamo pregare perché il Signore ci dia la vera umiltà. Ci dia la grazia di essere piccoli per poter essere realmente saggi; ci illumini, ci faccia vedere il suo mistero della gioia dello Spirito Santo, ci aiuti a essere veri teologi, che possono annunciare il suo mistero perché toccati nella profondità del proprio cuore, della propria esistenza.

Amen. 

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Raniero Cantalamessa. Le cose nascoste ai sapienti e rivelate ai piccoli


Il vangelo di questa domenica, tra le pagine più intense e profonde del vangelo, è composto di tre parti: una preghiera ("Ti benedico, Padre…"), una dichiarazione su di sé ("Tutto mi è stato dato dal Padre mio…") e un invito ("Venite a me voi tutti che siete affaticati…"). Mi limito a commentare il primo elemento, la preghiera, perché essa contiene una rivelazione di straordinaria importanza: "Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te".
E' iniziato da poco l'anno paolino e il miglior commento a questa parola di Gesù è ciò che dice Paolo in 1 Corinzi : "Non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio" (1 Cor 1, 26-29).
Le parole di Cristo e di Paolo gettano una luce singolare sul mondo di oggi. E' una situazione che si ripete. I sapienti e gli intelligenti si tengono lontani dalla fede, guardano spesso con commiserazione la folla dei credenti che prega, che crede nei miracoli che si affolla intorno a Padre Pio. Non tutti i dotti, a dire il vero, e forse neppure la maggioranza di essi, ma certo la parte più influente, che ha a disposizione i microfoni più potenti, la chatting society, come si dice in inglese, la società che ha accesso ai grandi mezzi di comunicazione.
Molti di loro sono persone oneste e intelligentissime e la loro posizione è frutto più di formazione, dell'ambiente, di esperienze di vita, che di resistenza alla verità. Quindi nessun giudizio sulle persone singole. Ne conosco anch'io alcune e ne ho grande stima. Ma questo non deve impedirci di mettere in luce il nocciolo del problema. La chiusura a ogni rivelazione dall'alto e quindi alla fede, non è causata dall'intelligenza, ma dall'orgoglio. Un orgoglio speciale che consiste nel rifiuto di ogni dipendenza e nella rivendicazione di una autonomia assoluta da parte del pensatore.
Ci si trincera dietro la parola magica "ragione", ma in realtà non è la famosa "ragion pura" che lo esige, né una ragione "sovrana", ma una ragione schiava, dalle ali tarpate. Filosofi che non si possono certo accusare di mancanza d'intelligenza e di capacità dialettica hanno scritto: "L'atto supremo della ragione sta nel riconoscere che c'è un'infinità di cose che la sorpassano" (Pascal) e ancora: " Finora si è sempre parlato così: 'Il dire che non si può capire questa o quella cosa, non soddisfa la scienza che vuol capire'. Ecco lo sbaglio. Si deve dire il contrario: qualora la scienza umana non voglia riconoscere che vi è qualcosa che essa non può capire, o -in modo ancor più preciso- qualcosa di cui essa con chiarezza può 'capire che non può capire', allora tutto è sconvolto. È pertanto un compito della conoscenza umana capire che vi sono e quali sono le cose che essa non può capire" (Kierkegaard). Pone perciò un limite alla ragione e la umilia chi non le riconosce questa capacità di trascendersi, non il credente che gliela riconosce.
Quello che ho detto spiega perché il pensiero moderno, dietro Nietzsche, ha sostituito al valore della verità, quello ricerca della verità e quindi della sincerità. Si scambia a volte questo atteggiamento per umiltà (contentarsi di un "pensiero debole"!) e l'atteggiamento di chi crede in verità assolute per presunzione, ma è un giudizio molto superficiale. Finché la persona è in ricerca è lei la protagonista, lei che conduce il gioco. Una volta trovata la verità, è la verità che sale sul trono e il ricercatore deve inchinarsi davanti a lei e questo, quando si tratta della Verità trascendente, costa il "sacrificio dell'intelletto".
Su questo panorama culturale cade come una provocazione ciò che Gesù dice nel vangelo di Giovanni "Io sono la verità" e anche ciò che dice nel seguito del brano evangelico: "Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me…Venite a me voi tutti che siete affaticati e stanchi ed io vi ristorerò". Ma è un invito, non un rimprovero ed è rivolto anche agli stanchi di cercare senza mai trovare, a quelli che hanno passato la vita a tormentarsi cozzando ogni volta contro la roccia impenetrabile del mistero. Lo psicologo C.G. Jung, in un suo libro, dice che tutti i pazienti di una certa età che si erano rivolti a lui, soffrivano per qualcosa che si poteva chiamare "assenza di umiltà" e non guarivano finché non acquistavano un atteggiamento di rispetto nei confronti di una realtà più grande di loro, cioè un atteggiamento di umiltà.
Gesù ripete anche ai tanti intelligenti e sapienti onesti che ci sono nel mondo d'oggi il suo invito pieno di amore: "Venite a me voi tutti che siete affaticati e stanchi ed io vi darò quel sollievo e quella pace che invano cercate nei vostri tormentosi ragionamenti.
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Card. Georges Cottier. Hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli

Alcuni interventi recenti di Benedetto XVI hanno offerto spunti di riflessione interessanti e originali su una realtà ben riconosciuta dalla dottrina tradizionale della Chiesa: quella del sensus fidei del popolo di Dio. Mi ha colpito, in particolare, l’accenno contenuto nella catechesi del 7 luglio, dedicata al beato Giovanni Duns Scoto. In quell’occasione, parlando intorno alla fede nell’Immacolata Concezione di Maria, il Papa ha detto chiaramente che tale fede «era già presente nel popolo di Dio, mentre la teologia non aveva ancora trovato la chiave per interpretarla nella totalità della dottrina della fede. Quindi il popolo di Dio precede i teologi e tutto questo grazie a quel soprannaturale sensus fidei, cioè a quella capacità infusa dallo Spirito Santo, che abilita ad abbracciare la realtà della fede, con l’umiltà del cuore e della mente. In questo senso», ha fatto notare il Papa, «il popolo di Dio è “magistero che precede”, e che poi deve essere approfondito e intellettualmente accolto dalla teologia». 

L’immagine del “magistero che precede”, riferita al sensus fidei del popolo di Dio, mi sembra suggerire un criterio efficace per cogliere in maniera chiara il rapporto che esso ha con il magistero ecclesiale e la teologia. 
La costituzione conciliare Lumen gentium, al n. 12, così definisce il sensus fidei: «La totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene dal Santo (cfr. 1Gv 2, 20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando “dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici” mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale». 

La fede in quanto tale non erra. Essa è una virtù teologale, quindi è un dono soprannaturale di Dio, e chi la riceve partecipa a suo modo alla dote profetica di Cristo. La sorgente di tale infallibilità è lo stesso Spirito Santo, che ispira e muove quell’approccio intuitivo ai misteri col quale il popolo di Dio consente alla verità rivelata e sa anche discernere il vero dal falso. Tale dinamica è stata descritta con parole suggestive dal cardinale Charles Journet nella sua opera Le message révélé del 1963, a partire da una citazione di san Tommaso: «“La luce della fede”, dice san Tommaso, “fa vedere le cose che sono credute…; l’habitus della fede inclina, in effetti, lo spirito dell’uomo ad assentire alle cose della vera fede, non alle altre”. C’è una proporzione, un adattamento segreto, una connaturalità fra la virtù di fede che vive nell’anima del cristiano e i dati da credere che gli sono presentati dalla rivelazione: da una parte e dall’altra, in effetti, è lo stesso Spirito che agisce: qui mediante la luce profetica, lì per la luce santificante. Di qui l’inclinazione spontanea del fedele a consentire alla verità rivelata. Questa inclinazione si intensifica quando la fede è amorosa, quando è resa penetrante e intuitiva e come divinatrice grazie ai doni dello Spirito Santo. Essa entra allora nelle profondità, essa pre-sente, essa suggerisce con istinto sicuro quello che trovandosi ancora implicito e nascosto è pronto a fiorire e a manifestarsi». 

Ovviamente il sensus fidei non va identificato con l’opinione comune della maggioranza, non si definisce in base alle statistiche dei sondaggi. Nella storia della Chiesa è accaduto che in certi contesti il sensus fidei sia stato manifestato da individualità isolate, singoli santi, mentre l’opinione comune si accodava a dottrine non conformi alla fede apostolica. Così avvenne quando sotto l’influsso del giansenismo si insisteva sulla severità del giudizio di Dio, a scapito della sua misericordia. 

Nello stesso saggio, Journet descrive anche la relazione esistente tra il sensus fidei e il magistero della Chiesa. Le due realtà – spiega Journet – vanno distinte: la prima «non è né un insegnamento né un magistero, ma solamente la persuasione sperimentale di una verità». E se da un lato la fede, in quanto dono dello Spirito, non può errare, dall’altro lato «il fedele, sia pur in stato di grazia, sia pur fervente, può errare, mescolare alla sua fede dei dati o dei sentimenti estranei. A meno di essere illuminato come lo erano gli apostoli, ha bisogno di essere aiutato, diretto, giudicato dal magistero divinamente assistito». In questa prospettiva il magistero dei vescovi riuniti intorno al successore di Pietro ha il compito di discernere e confermare ciò che viene presentito, indicato e anticipato dal sensus fidei. Quando esercitano tale funzione, il papa e i vescovi attestano soltanto che una verità percepita e accolta dal sensus fidelium può effettivamente essere riconosciuta e accolta come lo sviluppo di un dato già contenuto nel depositum fidei, il deposito della fede. Tale dinamica, come accennava Benedetto XVI nella sua catechesi su Duns Scoto, ha avuto una manifestazione esemplare nella definizione dei dogmi mariani dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione di Maria. Quegli articoli della fede apostolica sono stati definiti preminentemente sulla base del sensus fidelium. La devozione popolare verso il concepimento immacolato di Maria riconosceva già l’apostolicità di tale dottrina ben prima che essa fosse dogmaticamente definita. Con tali definizioni dogmatiche, i papi non intendevano certo inventare o aggiungere qualche nuova teoria teologica, ma soltanto riconoscere quello che era già nel cuore della Chiesa. 

In tale prospettiva risultano ancora stimolanti molte delle pagine scritte dal beato John Henry Newman nel suo celebre articolo apparso sulla rivista The Rambler nel luglio 1859 sulla consultazione dei fedeli in materia di dottrina, ripubblicato in Italia dalla casa editrice Morcelliana nel 1991. Newman scrisse quel saggio per rispondere agli attacchi di «certe anime candide» rimaste scandalizzate da un articolo apparso in precedenza sulla stessa rivista, nel quale si accennava al fatto che per la preparazione della definizione dogmatica sull’Immacolata Concezione erano stati consultati i fedeli. Le argomentazioni espresse da Newman in quell’occasione rappresentano ancora un attualissimo concentrato di argomenti storici e dottrinali tesi a documentare la natura del sensus fidelium come instrumentum traditionis

Secondo Newman «la tradizione della Chiesa, affidata 
per modum unius a tutta la Chiesa nelle sue varie componenti e funzioni, si manifesta diversamente a seconda dei tempi: talvolta per bocca dell’episcopato, altre attraverso i dottori, altre ancora attraverso il popolo, le liturgie, i riti, le cerimonie, le dispute e tutti quegli eventi che vanno sotto il nome di “storia”. Ne segue che nessuno dei canali di quella tradizione può essere trascurato, pur ammettendo senza riserve che il dono di discernere, di discriminare, di definire e di promulgare una parte della tradizione risiede soltanto nella Ecclesia docens». A riprova del ruolo decisivo svolto dal sensus fidelium nella vita e nella storia della Chiesa, Newman ripercorre la vicenda emblematica della crisi ariana: «Non è privo di significato il fatto che, anche storicamente parlando, il IV secolo sia stata un’epoca di grandi dottori, quali i santi Atanasio, Ilario, i due Gregorio, Basilio, Crisostomo, Ambrogio, Agostino, con l’aggiunta che tutti costoro, con l’eccezione di uno soltanto, erano anche dei vescovi. Tuttavia, proprio in quel periodo la divina tradizione affidata alla Chiesa infallibile fu proclamata e difesa molto più dal popolo di Dio che non dall’episcopato. […]. In quel tempo di grande confusione teologica il dogma della divinità di Nostro Signore fu proclamato, difeso e preservato con maggior forza dalla Ecclesia docta che dalla Ecclesia docens; il corpo episcopale non fu all’altezza della sua missione, mentre il corpo dei fedeli rimase fedele al proprio battesimo. […]. Fu proprio il popolo di Dio che, grazie alla Divina Provvidenza, sostenne Atanasio, Ilario, Eusebio di Vercelli e altri grandi e solitari confessori, i quali senza di esso sarebbero stati perdenti». Nella vicenda dell’arianesimo Newman vede «un esempio lampante della situazione della Chiesa in un momento storico nel quale per conoscere la tradizione apostolica fu necessario far ricorso al popolo di Dio», concludendone che «la voce della tradizione può in certi casi manifestarsi non attraverso i Concili, i Padri e i vescovi, bensì attraverso il communis fidelium sensus». 

Ovviamente, tutto questo chiama in causa anche la teologia. Se la ricerca teologica vuole svilupparsi nellaChiesa, a vantaggio di tutta la comunità dei fedeli, ha come inevitabile punto di riferimento il sensus fidei, che si manifesta in maniera eminente nella santità. Per questo mi ha colpito il fatto che proprio nell’ultimo discorso rivolto alla Pontificia Commissione teologica il Papa abbia riproposto le figure dei «santi piccoli», citando Bernadette e Teresa di Lisieux come coloro che «hanno conosciuto il mistero» e sono entrate «nel cuore della Sacra Scrittura», mentre talvolta l’essenziale rimane nascosto a una teologia che pure ostenta pretese di scientificità. Già in passato l’allora cardinale Ratzinger aveva ripreso il criterio esposto da san Tommaso d’Aquino secondo cui il fondamento dell’autentica teologia è la «scienza dei santi». Per san Tommaso – così spiegava Ratzinger nel libro Guardare Cristo – la teologia è scientia subalternata, perché «non è essa a vedere e a dimostrare i suoi ultimi fondamenti. Essa è, per così dire, appesa al “sapere dei santi”, alla loro visione. […] Il lavoro dei teologi è in questo senso sempre “secondario”, relativo all’esperienza reale dei santi. Senza questo punto di riferimento, senza questo intimo ancoraggio in simili esperienze essa perde il suo carattere di realtà. Questa è l’umiltà richiesta ai teologi… La teologia diventa un puro gioco intellettuale e perde anche il suo carattere di scienza, senza il realismo dei santi, senza il loro contatto con la realtà che qui è in questione». 

Qualche volta appare con evidenza che nella vita e nell’opera di alcuni santi c’è come un anticipo profetico, una segnalazione anticipata di quello che nel tempo serve alla Chiesa per essere custodita nella fede degli apostoli. I santi, quando sono ancora sulla terra, non hanno la visione beatifica, sono nella fede, ma le grandi intuizioni della fede mossa dalla carità e dai doni dello Spirito Santo fanno sì che essi indovinino, nell’oscurità, le grandi verità che vedremo con piena chiarezza nel cielo. Infatti per san Tommaso i santi sono prima di tutto i beati. Penso ad esempio ad alcuni santi moderni o contemporanei come santa Margherita Maria Alacoque, santa Teresa di Gesù Bambino, santa Faustina o madre Teresa: con la loro intuizione dell’infinita misericordia divina suggeriscono ciò a cui occorre guardare, in questo tempo drammatico anche per la Chiesa.