Il prezzo della semplicità
di Gianfranco Ravasi
in “Il Sole 24 Ore” del 16 dicembre 2012
Alcuni forse lo ricordano in quell'estremo tentativo, voluto da Giovanni Paolo II, di convincereSaddam Hussein a imboccare una via che evitasse quel bagno di sangue del suo popolo
nell'assurda Seconda guerra del Golfo voluta da Bush. Ma Roger Etchegaray, nato più di
novant'anni fa nei Pirenei baschi francesi (come attesta il suo cognome), cardinale da oltre 33
anni, dopo essere stato arcivescovo di Marsiglia e a lungo capo-dicastero vaticano per la
Giustizia, la pace e la carità, presente a nome del Papa nei crocevia più incandescenti della storia
recente, dalla Cina comunista al Rwanda del genocidio, dall'insanguinato Medio Oriente ai
tormentati Balcani, è una figura dotata di un'attrazione umana e spirituale straordinaria. Ancora
oggi la sua intelligenza fremente, la sua libertà interiore, la sua testimonianza di fede
evangelica impediscono di uscire indifferenti da un incontro con lui.
Questo ritratto, dal quale si sottrarrebbe con la semplicità disarmante del suo costante sorriso,
non nasce solo dall'amicizia che a lui mi lega, ma anche dalla testimonianza dei credenti e dei non
credenti, degli intellettuali e delle persone semplici che lo incontrano e con lui dialogano.
Il suo volumetto, scandito da un titolo emblematico sul «prezzo» dell'uomo, è in ogni pagina il
riflesso della sua visione della vita della Chiesa, della storia, della società. Il tutto in parole semplici
e concrete, intarsiate di continui rimandi autobiografici, legate a un'esperienza internazionale,
prive perciò di astrattezza, anche quando il riferimento è a un poeta simbolico e visionario come
William Blake, che in esergo ammonisce il lettore così: «Ho cercato la mia anima e non l'ho
trovata. Ho cercato Dio e non l'ho trovato. Ho cercato mio fratello e li ho trovati tutti e tre».
Sì, perché la fede di Etchegaray ha come paradigma il cuore del cristianesimo che non è fondato
su un teorema perfetto, ma sulla «carne» di Dio, il suo «svuotarsi» (per usare il verbo greco
paolino della kénosis) della gloria trascendente, assumendo la nostra pesante carta d'identità
scandita dal limite, dal tempo, dal dolore e dalla morte. Ecco, allora, con la libertà della
testimonianza che scardina i canoni del trattato e dell'argomentazione consequenziale, delinearsi
in queste pagine una sorta di arcobaleno tematico: esso include la terra che è di tutti e non solo
dei potenti e dei privilegiati, passa attraverso l'idra a cento teste del razzismo, si affaccia
affettuosamente su un accampamento di Tzigani e di Rom, si accende di passione nella difesa
della pace contro la violenza, acquista toni profetici contro quelli che egli chiama il «furto, la
follia e il fallimento delle armi'', si avvia sulle tristi rotte dei migranti, non esita a entrare nel
groviglio della comunicazione e dei mass media e non teme di recarsi tra la folla dei lavoratori.
Potremmo continuare in questo elenco che riserva non poche sorprese, come le lacrime di Fidel
Castro o il curioso e inatteso saluto di Saddam Hussein, dopo quel colloquio di un'ora e mezzo nella
Baghdad ormai votata ai bombardamenti americani. O ancora il pianto del cardinale su
Gerusalemme, eco di quello di Gesù, l'interpellanza rivolta all'Islam («Chi sei? Dove sei?»), la
tristezza per i muri invalicabili che dividono i popoli, a partire da quello che taglia ebrei e
palestinesi fino al muro che separa le due Coree, nell'attesa che crollino come quello di Berlino e si
erigano ponti sui quali magari si assida un nuovo Rostropovič «a suonare la Seconda suite per
violoncello di Bach», come accadde appunto a Berlino. Ma lo sguardo di Etchegaray si rivolge
anche alle stelle del suo firmamento spirituale come «il mio Papa» Paolo VI o Francesco d'Assisi,
colto nel suo ultimo sussurro modulato su tre sole parole: «fraternità, povertà, obbedienza».
Pagine limpide e pacate, dunque, eppure a loro modo incandescenti, segnate all'inizio e alla
fine da una parola, «speranza», il cui filo verde attraversa in filigrana tutto il libro. «La sorella più
piccola» delle tre virtù teologali, come la chiamava Péguy, impedisce il pessimismo
rinunciatario, le visioni apocalittiche, l'isolazionismo spiritualistico. La speranza di questo
cardinale è segnata, infatti, da un aggettivo che è posto in apertura e a suggello del libro:
«instancabile».
L'autobiografismo che permea quasi ogni paragrafo del testo è la conferma che non si tratta di
una vaga aspirazione, ma di un principio generatore simile al microscopico seme evangelico
della senapa, la cui fecondità si dispiega nell'azzurro dei cieli con la pazienza dei tempi della
natura e di Dio. La speranza esorcizza il sacralismo e il secolarismo, i due scogli che come Scilla e
Cariddi incagliano e speronano la nave della storia.
Il cardinale Etchegaray, infatti, cita con gusto un altro passo di Péguy: «Navighiamo tra due bande
di preti: i preti laici che negano l'eterno del temporale e i preti ecclesiastici che negano il
temporale dell'eterno». E commenta: «La fede è quel divino legame tra l'eterno e il temporale. E il
clericalismo non è solo monopolio dei preti». La Chiesa superi, perciò, la tentazione del denaro,
del successo, del compromesso col potere; ma esorcizzi anche il rischio di avvolgersi in una
cortina di incenso e di integralismo sacrale.
Abbiamo voluto questa volta proporre un libro semplice, consapevoli di quanto scriveva
Francesco De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana: «La semplicità è la forma della vera
grandezza» e altrove continuava: «La semplicità è compagna della verità come la modestia lo è del
sapere». E allora lasciamo in finale la parola al cardinale che, con semplicità, si rivolge al lettore così:
«Voi che tenete tra le mani queste pagine, assorbitele a piccoli sorsi assaporando il succo
evangelico che ho cercato di deporvi. Non è una tesi magistrale che vi offro...».
Roger Etchegaray, L'uomo a che prezzo?, San Paolo, Cinisello Balsamo 2012