martedì 4 dicembre 2012

Nel pane di Cristo l'Amore di Dio

Di seguito il Vangelo di oggi, 5 dicembre, mercoledi della I settimana di Avvento, con un commento e qualche testo di approfondimento.



Il miracolo non si produce da niente, 
ma da una prima modesta condivisione 
di ciò che un semplice ragazzo aveva con sé. 
Gesù non ci chiede quello che non abbiamo, 
ma ci fa vedere che se ciascuno offre quel poco che ha, 
può compiersi sempre di nuovo il miracolo: 
Dio è capace di moltiplicare il nostro piccolo gesto di amore
 e renderci partecipi del suo dono. 

Benedetto XVI, Angelus del 29 luglio 2012




Mt 15,29-37 

In quel tempo, Gesù venne presso il mare di Galilea e, salito sul monte, si fermò là. Attorno a lui si radunò molta folla recando con sé zoppi, storpi, ciechi, sordi e molti altri malati; li deposero ai suoi piedi, ed egli li guarì. E la folla era piena di stupore nel vedere i muti che parlavano, gli storpi raddrizzati, gli zoppi che camminavano e i ciechi che vedevano. E glorificava il Dio di Israele.
Allora Gesù chiamò a sé i discepoli e disse: “Sento compassione di questa folla: ormai da tre giorni mi vengono dietro e non hanno da mangiare. Non voglio rimandarli digiuni, perché non svengano lungo la strada”. E i discepoli gli dissero: “Dove potremo noi trovare in un deserto tanti pani da sfamare una folla così grande?”. Ma Gesù domandò: “Quanti pani avete?”. Risposero: “Sette, e pochi pesciolini”.
Dopo aver ordinato alla folla di sedersi per terra, Gesù prese i sette pani e i pesci, rese grazie, li spezzò, li diede ai discepoli, e i discepoli li distribuivano alla folla.
Tutti mangiarono e furono saziati. Dei pezzi avanzati portarono via sette sporte piene.

Il commento

Chi incontra il Signore resta “stupito” della sua “compassione”. Ma oggi dire "ti compatisco" suona male, perché ci è penetrato dentro l'orgoglio di questa generazione prometeica, che ha fatto dell'uomo l'unico orizzonte e delle sue possibilità l'unica misura con cui valutare e giudicare. A scuola, al cinema, negli stadi, ovunque si ode l'encomio di chi si è fatto da solo, mentre si impone la nuova fede che incita a credere in se stessi, lottando per affermarsi a qualunque costo, come se ciò fosse l’unica terapia capace di curare i complessi. E se qualcuno osa "compatirmi", beh, mi sento offeso e diverso. Non si possono compatire i portatori di handicap, men che meno si può avere compassione di chi segue gli impulsi della propria sessualità ferita dal peccato e da storie complicate, scendendo i gradini della perversione nel tripudio della “società civile”. Nietzsche diceva che "la misericordia è debolezza" e considerava miserabile un Dio di misericordia, perché la pietà è riservata agli uomini inferiori. E’ intollerante la compassione di Cristo che si piega sulla “folla” di “malati” per "abbracciare visceralmente” - secondo il significato originale di “splanchnizomai” - ogni loro sofferenza sino a farla sua; abbiamo, infatti, stravolto il significato del termine arrivando all’aberrazione di usarlo per giustificare l’omicidio perpetrato dall’eutanasia e dell’aborto. Tutto sotto l’astuta regia del menzognero fin dal principio, il demonio, che sta cambiando l'acqua della nostra vita assuefacendoci subdolamente alla dittatura del relativismo che non conosce compassione. Ma, in ogni generazione, c'è una folla di poveri che ha "recato con sé" le proprie infermità “deponendo ai piedi di Gesù” i suoi “zoppi, storpi, ciechi e sordi”, ed è ancora capace di "stupore" sperimentando in Lui l'unico che si fa carico sino in fondo di ogni sofferenza; è la Chiesa, l'assemblea che riunisce gli ultimi, i peccatori, i più deboli che "non devono aspettare nessun altro" per essere salvati, perché hanno riconosciuto in quel Rabbì di Nazaret il Messia del quale erano stati profetizzati proprio i segni che ha compiuto nella loro vita. L'amore che li ha raggiunti gratuitamente li fa "glorificare il Dio di Israele" divenendo così un segno di speranza per il mondo. Per questo lo seguono “rimanendo presso di Lui” durante “tre giorni”, immagine di quelli nei quali il Signore è stato “deposto” accanto a loro nella tomba com-patendo il dolore, per risvegliarli dalla morte e salvarli dal peccato. 

Ma, anche se guariti, “non hanno da mangiare”, perché chi è stato resuscitato e perdonato ha bisogno di “un alimento e sostegno indispensabile per poter percorrere la via della vita, finché non giungiamo, dopo aver lasciato questo mondo, alla nostra vera meta, che è il Signore. Perciò egli disse: Se non mangerete la mia carne e non berrete il mio sangue, non avrete la vita in voi". (San Gaudenzio da Brescia, Trattati, 2). Gesù ci conosce bene e sa che nessuno è confermato in Grazia; nonostante tante esperienze del suo amore, possiamo “svenire” di fronte alle tentazioni. A Gesù non basta “guarirci”, vuole “saziarci”. E per farlo, prende del poco che trova in noi, insufficiente come lo erano per gli apostoli e Gesù, “i cinque pani e i due pesci”. Ma Lui ha un modo originale per sfamarci: come fece Elia con la vedova di Zarepta, il Signore ci chiede tutto quanto abbiamo per vivere, perché l’abbondanza scaturisce dalla totale spoliazione. Avrebbe potuto operare diversamente creando dal nulla, ma ha voluto prendere tra le sue mani la fragile opera che aveva iniziato a ricreare: per “saziarci” ci conduce nell’umiltà che supera il dubbio sollevato dei discepoli: “Dove potremo noi trovare in un deserto tanti pani da sfamare una folla così grande?”. La domanda che sorge di fronte alla sproporzione tra il desiderio di infinito dell’uomo e la sua realtà di peccato e precarietà - alla quale il mondo risponde con la compassione assassina che “rimanda digiuni” coloro che non ha saputo guarire - trova in Gesù una risposta inaspettata, l’unica esatta. Lui guarda con compassione la nostra povertà: ai suoi occhi la debolezza, la malattia, le nevrosi, i complessi, il carattere, l’aspetto fisico, la nostra persona così com’è custodisce il germe di vita eterna che Egli stesso vi ha seminato e che attende solo di portare a maturazione e compimento. Noi siamo il “dove” poter trovare, in mezzo ai “deserti” dell’umanità, l’alimento necessario per “sfamare la folla” in mezzo alla quale viviamo. Basta l’umiltà che sa guardare con compassione alla propria storia e alla propria realtà, accettando i limiti e le malattie, senza difendere nulla con la scusa di essere inadatti o inesperti, per “deporre” con audacia, istante dopo istante, tutto noi stessi nelle mani del Signore. Nella sua compassione saprà trasformare la nostra vita come nell’”eucaristia” trasforma il pane e il vino nel suo corpo e nel suo sangue. Questo Avvento ci chiama a “sederci” nella liturgia e nella preghiera, per consegnare a Cristo le nostre ore, i nostri progetti, i nostri schemi perché siano “spezzati” dalle sue mani trapassate dai chiodi che lo crocifiggono alla nostra debolezza, e per questo moltiplicati in una fecondità che il mondo non conosce. Solo da una vita “spezzata” per amore, infatti, scaturisce una vita saziata, abbondante sino ad “avanzare sette sporte", la pienezza capace di “sfamare” chi ancora non conosce l’amore di Dio.

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BENEDETTO XVI
ANGELUS
Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo
Domenica, 31 luglio 2011


Cari fratelli e sorelle!
Il Vangelo di questa domenica descrive il miracolo della moltiplicazione dei pani, che Gesù compie per una moltitudine di persone che lo hanno seguito per ascoltarlo ed essere guariti da varie malattie (cfr Mt 14,14). Sul far della sera, i discepoli suggeriscono a Gesù di congedare la folla, perché possa andare a rifocillarsi. Ma il Signore ha in mente qualcos’altro: “Voi stessi date loro da mangiare” (Mt 14,16). Essi, però, non hanno “altro che cinque pani e due pesci”. Gesù allora compie un gesto che fa pensare al sacramento dell’Eucaristia: “Alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla (Mt 14,19). Il miracolo consiste nella condivisione fraterna di pochi pani che, affidati alla potenza di Dio, non solo bastano per tutti, ma addirittura avanzano, fino a riempire dodici ceste. Il Signore sollecita i discepoli affinché siano loro a distribuire il pane per la moltitudine; in questo modo li istruisce e li prepara alla futura missione apostolica: dovranno infatti portare a tutti il nutrimento della Parola di vita e del Sacramento.
In questo segno prodigioso si intrecciano l’incarnazione di Dio e l’opera della redenzione. Gesù, infatti, “scende” dalla barca per incontrare gli uomini (cfr Mt 14,14). San Massimo il Confessore afferma che il Verbo di Dio “si degnò, per amore nostro, di farsi presente nella carne, derivata da noi e conforme a noi tranne che nel peccato, e di esporci l’insegnamento con parole ed esempi a noi convenienti” (Ambiguum 33: PG 91, 1285 C). Il Signore ci offre qui un esempio eloquente della sua compassione verso la gente. Viene da pensare ai tanti fratelli e sorelle che in questi giorni, nel Corno d’Africa, patiscono le drammatiche conseguenze della carestia, aggravate dalla guerra e dalla mancanza di solide istituzioni. Cristo è attento al bisogno materiale, ma vuole dare di più, perché l’uomo è sempre “affamato di qualcosa di più, ha bisogno di qualcosa di più” (Gesù di Nazaret, Milano 2007, 311). Nel pane di Cristo è presente l’amore di Dio; nell’incontro con Lui “ci nutriamo, per così dire, dello stesso Dio vivente, mangiamo davvero il «pane dal cielo»” (ibid.).

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San Bernardo. Significato mistico dei "tre giorni" e dei "sette pani" nel Vangelo


Sento compassione di questa folla, perché già da tre giorni mi stanno dietro. Mi congratulo con voi, fratelli, perché avete voluto seguire il Salvatore nel deserto, ma temo che qualcuno si scoraggi dopo tre giorni di attesa. Non starete per tornare col cuore, magari anche col corpo, nell'Egitto di questo mondo perverso? Ha ragione la Scrittura quando esclama: Spera nel Signore, sii forte, si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore.

Per quanto ancora si dovrà tener duro? Certamente fino al momento in cui il Signore abbia pietà di te. Vuoi sapere quando sarà? Gesù ti risponde: Sento compassione di questa folla, perché già da tre giorni mi stanno dietro. Perciò è necessario che tu cammini tre giorni interi nel deserto, se vuoi offrire al tuo Dio il sacrificio che gli è gradito: devi aspettare il tuo Salvatore per la durata di tre giorni se aneli di saziarti con il pane miracoloso.

Il primo giorno è il giorno del timore. È il giorno che mette in risalto le tue tenebre interiori, proiettandovi sopra la luce dell'alto. Ti fa vedere la minaccia del tremendo supplizio della geenna, cioè delle tenebre esteriori. Come sapete, una tale meditazione suole dare il via alla nostra conversione.
Il secondo è il giorno del conforto, in cui respiriamo nella luce della misericordia di Dio.
Il terzo è il giorno della ragione, in cui brilla la verità. La creatura si sottomette allora senza esitazione al Creatore, per saldare il debito della sua natura, e, come serva, esegue gli ordini del suo Redentore. Siamo allora invitati a sedere, perché sia disposta nella nostra anima l'armonia della carità; ed ecco che il Signore apre la mano e colma ogni vivente con le sue benedizioni.

Vi spiegherò quali sono i sette pani, che avevano gli apostoli e che sono destinati a ristorarvi.

Il primo pane è la Parola di Dio, in cui l'uomo trova la vita. Lo afferma il Signore stesso.
Il secondo pane è l'obbedienza, perché Gesù ha detto: Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato.
Il terzo pane è la santa meditazione, di cui sta scritto: Non abbandonarla ed essa ti custodirà. Questa meditazione è detta in un altro passo pane dell'intelligenza.
Il quarto pane è il dono delle lacrime nella preghiera.
Il quinto pane è la fatica della conversione. Non ti stupire se chiamo pane ciò che è lavoro e pianto; hai dimenticato quello che leggi nel salterio? Tu ci nutrirai con pane di lacrime, e anche: Vivrai del lavoro delle tue mani, sarai felice e godrai d'ogni bene.
Il sesto pane è la gioia che scaturisce dall'unione dei cuori: si tratta di un impasto di grani differenti che la grazia di Dio fa lievitare.
Il settimo, infine, è il pane eucaristico, perché il Signore dice nel vangelo: Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo.

Ogni giorno si compie quello che la Sapienza profetizzò di se stessa: Quanti si nutrono di me avranno ancora fame. Ma non voglio farvi ancora attendere o ingannare la vostra fame, perché vi vedo pronti a ricevere come se non aveste ancora preso nulla.

La mia speranza si fonda tutta su tre pilastri: l'amore che mi adotta, la verità che promette, l'onnipotenza che compie la promessa. E se da folle il pensiero mormora e mi insinua: "Chi credi di essere? Quella gloria è
tanto grande e su che meriti conti per riceverla?", io risponderò pieno di fiducia: "So a chi ho creduto e sono convinto che egli mi ha adottato nel suo amore straordinario. So che egli è verace nella sua promessa e
abbastanza potente per compierla. A lui è possibile portare a compimento tutto quello che vuole.

Ecco il triplice vincolo, che difficilmente si spezza, e dalla nostra vera patria scende fin quaggiù in questo carcere. Vi supplico, fratelli, stringiamolo forte, perché ci tiri e ci attiri, sollevandoci fino a contemplare la gloria del grande Dio che è benedetto nei secoli. Amen.



Dai Discorsi di san Bernardo. Pro Domin. VI post Pent. Sermo I, 1-2.4. Sermo III,6. PL 183, 337-339.
344.

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S. Agostino. Il nutrimento del corpo e dell'anima


Quando dici: Dacci oggi il nostro pane quotidiano (Mt 6, 11), confessi d’essere un mendicante di Dio. Ma non arrossire: per quanto uno sia ricco sulla terra, è sempre un mendicante di Dio. Il mendicante sta davanti alla casa d’un ricco: ma anche lo stesso ricco sta davanti alla casa del gran Ricco. Si chiede l’elemosina a lui, ma la chiede anche lui. Se non fosse nel bisogno, non busserebbe alle orecchie di Dio con la preghiera. Ma di che cosa ha bisogno un ricco? Non ho paura di dirlo: un ricco ha bisogno proprio del pane quotidiano. Perché mai ha abbondanza d’ogni cosa, come mai, se non perché gliel’ha data Dio? Che cosa avrebbe, se Dio ritirasse da lui la sua mano? Molti non si addormentarono forse ricchi e si alzarono poveri? E se a lui non manca nulla, ciò non deriva dalla sua potenza, ma dalla misericordia di Dio.
Ma questo pane di cui, carissimi, si riempie il ventre, con cui si ristora ogni giorno il corpo, questo pane dunque voi vedete che Dio lo dà non solo a chi lo loda, ma anche a chi lo bestemmia, lui che fa sorgere il proprio sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti (Cf. Mt 5, 45). Se lo lodi, ti nutre; se lo bestemmi, ti nutre lo stesso. Ti aspetta perché tu faccia penitenza; ma se non ti cambierai, egli ti condannerà. Poiché dunque questo pane lo ricevono da Dio i buoni e i cattivi, non c’è forse un pane speciale richiesto dai figli, il pane di cui il Signore diceva nel Vangelo: Non sta bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cani(Mt 15, 26) Vi è certamente. Qual è questo pane? E perché si chiama "quotidiano" anche questo? Il pane infatti ci è necessario: senza di esso è impossibile vivere, senza pane è impossibile. E’ una sfacciataggine chiedere a Dio la ricchezza; non è una sfacciataggine chiedergli il pane quotidiano. C’è una gran differenza tra ciò che è necessario alla vita e ciò che serve a farci insuperbire. Tuttavia, siccome questo pane visibile e palpabile viene dato ai buoni e ai cattivi, il pane quotidiano chiesto dai figli è la parola di Dio, pane che ci viene distribuito ogni giorno. E’ il nostro pane quotidiano; di esso vivono le menti, non i ventri. E’ necessario a noi, ancora operai nella vigna: è il cibo, non la paga. All’operaio infatti due cose deve dare chi lo prende a giornata e lo manda nella propria vigna: il cibo perché non rimanga spossato, e la paga di cui si rallegri. Il nostro cibo quotidiano su questa terra è la parola di Dio, che sempre viene distribuita nelle chiese; la nostra paga dopo la fatica si chiama vita eterna. D’altra parte se per questo pane nostro quotidiano s’intende quello che ricevono i fedeli e riceverete anche voi dopo il battesimo, facciamo bene a pregare e dire: Dacci oggi il nostro pane quotidiano, affinché viviamo in modo da non essere separati dall’altare.


Dai "Discorsi" di Sant’Agostino Vescovo (Sermo 56, 6.9-10)
 
 
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Baldovino di Ford. Presi quei sette pani rese grazie li spezzò

Gesù spezzò il pane. Se non avesse spezzato il pane, come le briciole sarebbero potute giungere fino a noi? Egli l'ha spezzato e l'ha distribuito, «l'ha disperso e dato ai poveri» (Sal 111,9 Volg). L'ha spezzato per grazia per spezzare la collera del Padre e la propria collera. Dio l'aveva detto: ci avrebbe spezzati, se il suo Unico, «suo eletto, non fosse stato sulla breccia di fronte a lui, per stornare la sua collera dallo sterminio» (Sal 105,23). È stato davanti a Dio e l'ha placato; grazie alla sua forza indefettibile, è rimasto in piedi, senza essere spezzato.

Invece lui, volontariamente, ha spezzato, ha offerto la sua carne, spezzata dalla sofferenza. Lì, ha «spezzato la saette dell'arco» (Sal 75,4), «ha spezzato la testa al Leviatàn», cioè a tutti i nostri nemici, nella sua collera. In questo modo ha spezzato, in un certo modo, le tavole della prima alleanza, affinché non fossimo più sotto la Legge. Così ha spezzato tutto ciò che ci spezzava, per riparare in noi quanto era stato spezzato e per «rimandare liberi gli oppressi» (Is 58,6). Infatti eravamo «prigionieri della miseria e dei ceppi» (Sal 106,10).

Buon Gesù, oggi ancora, sebbene tu abbia spezzato la tua collera, spezzato il pane per noi, poveri mendicanti, noi abbiamo ancora fame... Spezza dunque ogni giorno questo pane per coloro che hanno fame. Infatti oggi e ogni giorno, raccogliamo alcune briciole, e ogni giorno abbiamo di nuovo bisogno del nostro pane quotidiano. «Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano» (Lc 11,3). Se tu non lo darai, chi lo darà? Nella nostra indigenza e nel nostro bisogno, non c'è nessuno che possa rompere il pane per noi, nessuno che possa nutrirci, nessuno che possa ridarci forza, nessuno se non tu, o nostro Dio. In ogni consolazione che ci mandi, raccogliamo le briciole del pane che spezzi per noi e gustiamo «quanto è buona la tua misericordia» (Sal 108,21 volg).


Baldovino di Ford ( ?-circa 1190), abate cistercense Il Sacramento dell'altare, II, 1 ; SC 93, 131
 
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San Beda il Venerabile. Sento compassione di questa folla


Matteo dà più spiegazioni [di Marco] sul modo in cui Gesù ebbe pietà della folla quando dice : « Sentì compassione per loro e guarì i loro malati ». Infatti sentire compassione per i poveri e per quanti sono senza pastore, è precisamente aprire loro la via della verità ammaestrandoli, è guarirli dalle loro infermità, curandoli, ma è anche nutrirli quando hanno fame, e incitarli così a lodare la generosità di Dio. Questo ha fatto Gesù… Ma ha anche messo alla prova la fede della folla, e dopo averla provata, le ha dato in cambio una ricompensa proporzionata. Infatti ha raggiunto un luogo deserto in disparte per vedere se la gente avrebbe avuto cura di seguirlo. E l’hanno seguito. Si misero in fretta in cammino attraverso il deserto, non con asini o mezzi di trasporto, ma a piedi, e hanno mostrato con questo sforzo personale quanta cura avessero per la loro salvezza. In cambio, Gesù accolse questa gente affaticata. In quanto salvatore e medico, pieno di potenza e di bontà, ha istruito gli ignoranti, guarito i malati, nutrito gli affamati, manifestando così quanta gioia gli procurava l’amore dei credenti.
 
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Paolo VI. La compassione di Gesù si manifesta nella Chiesa che annuncia il Vangelo

57. Come Cristo durante il tempo della sua predicazione, come i Dodici al mattino della Pentecoste, anche la Chiesa vede davanti a sé una immensa folla umana che ha bisogno del Vangelo e vi ha diritto, perché Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità». 
Conscia del suo dovere di predicare la salvezza a tutti, sapendo che il messaggio evangelico non è riservato a un piccolo gruppo di iniziati, di privilegiati o di eletti, ma destinato a tutti, la Chiesa fa propria l'angoscia di Cristo di fronte alle folle sbandate e sfinite «come pecore senza pastore» e ripete spesso la sua parola: «Sento compassione di questa folla». Ma è anche cosciente che, per l'efficacia della predicazione evangelica, nel cuore delle masse, essa deve indirizzare il suo messaggio a comunità di fedeli, la cui azione può e deve giungere agli altri.

Paolo VI Evangelii Nuntiandi
 
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Giovanni Paolo II. Dove potremo noi trovare in un deserto tanti pani da sfamare una folla così numerosa?


Di fronte a scenari umanamente tanto complessi per l'annuncio del Vangelo, torna quasi spontaneamente alla memoria il racconto della moltiplicazione dei pani narrata nei Vangeli. I discepoli espongono a Gesù le loro perplessità riguardo alla folla, che affamata della sua parola lo ha seguito sin nel deserto, e gli propongono: « Dimitte turbas [...] Congeda la folla [...] » (Lc 9, 12). Hanno, forse, timore e non sanno davvero come sfamare un numero così grande di persone.

Un analogo atteggiamento potrebbe insorgere nell'animo nostro, quasi sconfortato dall'enormità dei problemi, che interpellano le Chiese e noi Vescovi personalmente. Occorre, in questo caso, fare ricorso a quella nuova fantasia della carità che deve dispiegarsi non solo e non tanto nell'efficienza dei soccorsi prestati, ma più ancora nella capacità di farsi vicini a chi è nel bisogno, permettendo ai poveri di sentire ogni comunità cristiana come la propria casa.294

Gesù, però, ha una maniera sua propria di risolvere i problemi. Quasi provocando gli Apostoli, dice loro: « Dategli voi stessi da mangiare » (Lc 9, 13). Conosciamo bene la conclusione del racconto: « Tutti mangiarono e si saziarono e delle parti loro avanzate furono portate via dodici ceste » (Lc 9, 17). Quell'abbondanza residua è presente ancora oggi nella vita della Chiesa! Donde, allora, noi Vescovi prenderemo il pane necessario per dare risposta alle tante domande, interne ed esterne alle Chiese e alla Chiesa? Ci verrebbe da lamentarci, come gli Apostoli con Gesù: «  Dove potremo noi trovare in un deserto tanti pani da sfamare una folla così numerosa?  » (Mt 15, 33). Quali sono i «  luoghi  », da cui attingeremo le risorse? Possiamo almeno accennare ad alcune, fondamentali risposte.

La nostra prima, trascendente risorsa è la carità di Dio diffusa nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato donato (cfr Rm 5, 5). L'amore con cui Dio ci ha amati è tale da poterci sempre sostenere nel trovare le vie giuste attraverso cui giungere al cuore dell'uomo e della donna di oggi. In ogni istante il Signore ci dona, con la forza del suo Spirito, la capacità d'amare e d'inventare le forme più giuste e più belle dell'amore. Chiamati ad essere servitori del Vangelo per la speranza del mondo, noi sappiamo che questa speranza non proviene da noi, ma dallo Spirito Santo, il quale «  non cessa di essere il custode della speranza nel cuore dell'uomo: della speranza di tutte le creature umane e, specialmente, di quelle che “possiedono le primizie dello Spirito” e “aspettano la redenzione del corpo”  ».

L'altra nostra risorsa è la Chiesa, in cui siamo inseriti mediante il Battesimo con tanti altri nostri fratelli e sorelle, con i quali confessiamo l'unico Padre celeste e ci abbeveriamo all'unico Spirito di santità.297     Fare della Chiesa «  la casa e la scuola della comunione  » è l'impegno a cui ci invita la situazione presente, se vogliamo rispondere alle attese del mondo.298   Cristo Gesù è dunque l'icona a cui, venerati Fratelli nell'episcopato, guardiamo per svolgere il nostro ministero di araldi della speranza. Come Lui dobbiamo anche noi saper offrire la nostra esistenza per la salvezza di quanti ci sono affidati, annunciando e celebrando la vittoria dell'amore misericordioso di Dio sul peccato e sulla morte.
 
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La compassione del Messia in un midrash ebraico

Un giorno chiesero al profeta Elia: «Come facciamo a sapere che il Messia è arrivato?» E il profeta Elia rispose: «Andate alle porte della città e li lo troverete». Infatti alle porte della città si ammassavano i poveri, i ciechi, gli zoppi, a chiedere l’elemosina. «Ma come si potrà riconoscere il Messia in mezzo a tutti i poveri?», rispose sempre il profeta: «Mentre tutti quei disgraziati si tolgono tutte le loro bende per lavarle e poi rimettersele, il Messia è l’unico che non si toglie tutte le bende insieme, ma toglie una benda per volta». «Dove sta la differenza?». «La differenza è che il Messia facendo così è sempre pronto ad aiutare chiunque abbia bisogno».

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Sr. Maria Gloria Riva. L'incontro di Elia con la vedova di Zarepta

Dopo alcuni giorni il torrente si seccò, perché non pioveva sulla regione. Il Signore parlò a lui e disse: «Alzati, va’ in Zarepta di Sidone e ivi stabilisciti. Ecco io ho dato ordine a una vedova di là per il tuo cibo»
Il torrente indica che la siccità, e quindi il silenzio di Dio, è giunto all’estremo. A questo punto Elia viene mandato a Zarepta di Sidone. Zarepta, che oggi prende il nome di Sarafand, si trova a metà strada tra Tiro e Sidone (nell’odierno Libano) era una cittadina portuale della antica Fenicia. Proprio a una vedova di qui Elia viene inviato. Gesù stesso sottolineerà questa scelta, certo non casuale, di Dio: C’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia per tutto il paese, ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova di Zarepta di Sidone (Lc 4, 25 - 26).
Perché Sidone? Sidone era una città della Fenicia e la Fenicia era patria di Gezabele. Gezabele infatti, moglie di Acab, era figlia del re di Tiro. Più di Acab ella sarà ritenuta responsabile della perversione del popolo, il suo nome diverrà sinonimo di “donna perversa ed empia che trascina al male”. Anche l’Apocalisse riprenderà la sua immagine per descrivere Babilonia, la grande meretrice. Fu Gezabele la vera nemica di Elia. Proprio nella sua terra Dio manda il suo profeta a trovare cibo.
Conosciamo l’episodio (un brano molto bello e ricco di simboli che andrebbe letto per intero): Elia incontra in Zarepta una vedova che raccoglie legna, le chiede in un primo tempo solo da bere, poi, mentre quella si allontana le ingiunge di portargli anche del pane. Quella rispose: «Per la vita del Signore tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legno per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo.» Elia le disse: «Non temere; su fa’ come hai detto, ma prepara prima una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché dice il Signore: la farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non si scuoterà finché il Signore non farà piovere sulla terra.» (1 Re 17, 12-14) La donna agirà obbedendo alla parola del profeta e tutto si realizzerà.

Vibra in questo brano la compassione di Dio per i piccoli del suo popolo. Egli nasconde il suo volto nel tentativo di farsi cercare da Israele, tuttavia nella prova, non cessa la sua provvidenza di Padre. Conferisce ad essa anzitutto un termine, una scadenza: tre anni e sei mesi dice Gesù, cioè un tempo sufficiente (tre anni), ma limitato e incompiuto (e mezzo). Si pensi alle scadenze presenti nel libro di Daniele o nell’Apocalisse: un tempo, due tempi e la metà di un tempo, cioè tre tempi e mezzo, tre anni e mezzo. La prova ha una durata, non supera le capacità di sopportazione dell’uomo. Inoltre egli fa risuonare ancora la sua parola là dove l’uomo è veramente affidato alle sue cure di Padre. Elia viene inviato a una vedova e a un orfano, due categorie di persone tutelate dalla legge (Es 22, 21-22; Dt 10, 18; 24,17; 27,19), prototipo dei poveri e degli umili: il Signore è fedele per sempre, rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati […] il Signore protegge lo straniero, sostiene l’orfano e la vedova, ma sconvolge le vie degli empi (Sal 146, 9) e ancora: Padre degli orfani e difensore delle vedove è Dio nella sua santa dimora. (Sal 68,6)
Solo chi confida nell’aiuto divino è meglio disposto all’obbedienza della sua parola. 
L’ascolto della parola produce il miracolo di una giara e di un orcio che dispensano farina ed olio senza svuotarsi. Farina e olio sono gli elementi dell’oblazione offerta al Signore (Lv 2, 2), sono soprattutto gli alimenti, frutto di una terra fecondata dall’acqua, che Dio, nella seconda sezione dello shemà, promette a Israele se osserverà i suoi comandi:
Ora se obbedirete diligentemente ai comandi che oggi vi do, amando il Signore vostro Dio e servendolo con tutto il cuore e con tutta l’anima, io darò al vostro paese la pioggia al suo tempo, la pioggia d’autunno e la pioggia di primavera, perché tu possa raccogliere il tuo frumento, il tuo vino e il tuo olio… (Dt 11, 14)
La presenza di Dio in mezzo ai suoi poveri è una presenza discreta, il miracolo non è eclatante, il cibo non è sovrabbondante: Dio dona il necessario quotidiano, come fu per gli Israeliti la manna nel deserto. 

Eppure anche in questa casa aperta alla grazia di Dio e all’ascolto della sua parola irrompe la sventura. Il figlio della vedova si ammala, la sua malattia è tanto grave che, dice il testo biblico,rimase senza respiro. La donna sgomenta vede in Elia la causa della morte di suo figlio: «Che c’è fra me e te, o uomo di Dio? Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia iniquità e per uccidermi il figlio?» (1 Re 17,18) Emerge anche in questa donna umile e virtuosa l’idea di un Dio che castiga, che purifica l’uomo dal suo peccato attraverso la punizione e la sofferenza. Il midrash mette acutamente in luce questo atteggiamento: «Prima che tu venissi - disse la vedova [a Elia] - Dio mi amava perché ero virtuosa; beh, in confronto agli altri lo ero veramente. Ma in confronto a te? Perciò è a causa tua che Dio non mi ama più. Perché sei venuto qui perché?» Elia girerà la domanda a Dio stesso: «Signore mio Dio, forse farai del male a questa vedova che mi ospita, tanto da farle morire il figlio?» (v. 20) E preso il bambino si distende tre volte su di lui invocando il Signore. Martin Buber in una sua opera teatrale sul profeta Elia mette in bocca al profeta queste parole: Pregare non posso più. Ho dato tutto, ho esaurito tutto. Non ho più altro che la mia vita. Soffiando poi il proprio fiato nelle nari del fanciullo lo restituisce alla vita e alla madre.
La donna disse a Elia: «Ora so che tu sei uomo di Dio e che la vera parola del Signore è sulla tua bocca» (v. 24)
Questa donna attraverso quella sofferenza supera la sua paura, la sua idea di Dio, per scoprirne in Elia il vero volto. 
La farina e l’olio che non si esauriscono, la vita che rifiorisce nelle membra del l’orfano sono il segno della presenza di Dio, della sua Parola, del suo Spirito. 
In epoca davidica, fino a Salomone, al costituirsi della monarchia in Israele, era il re colui chepossedeva lo spirito del Signore, il consacrato del Signore. Qui invece lo Spirito del Signore, presente nel profeta Elia, si allontana da Acab, sovrano infedele e da Gezabele regina idolatra, per trovare riposo presso un orfano e una vedova, personaggi umili, anonimi del popolo. Come in Davide però anche qui Dio predilige i semplici e umili di cuore.