domenica 9 dicembre 2012

Ricordo di Carlo Maria Martini




Martini, l'innovatore che unì Chiesa e società
di Ferruccio De Bortoli
in “Corriere della Sera” del 9 dicembre 2012
Quando entrò a Milano nel 1980, il giovane — aveva 53 anni — arcivescovo di Milano, apparve
timido e spaesato. Del resto non poteva essere diversamente. Il rettore della Gregoriana era più
avvezzo all'ordine di un'aula di studenti che alle folle cittadine. Attraversò il centro di Milano per
approdare in Duomo accolto da un pubblico composto ma freddo. Incuriosito dalla figura di un
presule che non ricordava nei tratti e nel gesto nessuno dei suoi predecessori. Una domenica di
febbraio un po' buia nel periodo più tormentato degli anni di piombo. Quali potranno essere stati i
suoi pensieri? E quanto doveva pesargli quell'incarico al quale mai aveva pensato prima nella sua
vita? Chi scrive, giovane cronista, fu incaricato di fare un resoconto di quell'accoglienza che ai più
sembrò poco più di un atto dovuto, di un gesto formale di cortesia.
Il gesuita Martini restò a lungo, nei mesi successivi, un personaggio misterioso che parlava con
eccessiva lentezza, lo sguardo severo, complice la statura. Le parole, di rara profondità spirituale ma
semplici e chiare, parevano però cadere nel vuoto di una città smarrita, come la pioggerellina
fastidiosa che l'aveva accolto nella giornata della sua investitura alla cattedra di Sant'Ambrogio. Il
nostro collega Walter Tobagi cadde sotto il piombo del terrorismo, un cancro italiano all'apparenza
incurabile, il 28 maggio di quell'anno. Ricordo con dolore il giorno, ancora una volta piovoso,
nonostante la primavera avanzata, dei funerali. E l'omelia di Martini ci colpì al cuore. Non solo noi
che conoscevamo Walter e ne piangevamo la scomparsa. Mentre l'arcivescovo parlava in una chiesa
del Santo Rosario affollata fino all'inverosimile, notai le lacrime delle persone accanto a me che, al
massimo, l'avevano letto qualche volta e non l'avevano forse mai sentito nominare prima. Quella fu,
secondo me, la svolta, perché il velo della sofferta rassegnazione con la quale si assisteva,
impotenti, alla catena di delitti si squarciò d'incanto.
Un'occasione così triste si trasformò nel grido di una città che diceva no al terrore e alla violenza. E
lo faceva con l'espressione austera ma coraggiosa di un sacerdote, l'unico volto nuovo delle autorità
cittadine – e dunque destinatario di attese e speranze anche della parte più laica – che riassumeva su
di sé la voglia di riscatto di una intera comunità. «Solo un uomo ispirato può generare fiducia»,
scrive nella biografia del cardinale (Il Profeta, Mondadori) il nostro collega del Corriere Marco
Garzonio, che lo ha seguito per trent'anni. E nella liturgia ambrosiana c'è una preghiera in cui i
fedeli invocano il dono di avere pastori che inquietino la falsa pace delle coscienze. L'austero e
distaccato professore aveva indossato le vesti grigie del dolore civile, aveva dato colore al senso di
appartenenza di una comunità e vinto la solitudine della paura degli anni di piombo. Era diventato
un defensor civitatis. Qui sta l'essenza del messaggio martiniano e la modesta spiegazione del
perché il suo servizio pastorale abbia conquistato i cuori anche dei non credenti e abbia resistito
soprattutto al tempo. Una parabola inossidabile. Martini ridiede linfa spirituale a una società civile
sfibrata dai contrasti, la rese più consapevole delle proprie virtù, orgogliosa di essere comunità. In
una semplificazione estrema: offrì una spiegazione di senso della vita a tutti, soprattutto ai non
credenti che si avvicinavano ai suoi scritti o erano affascinati dai suoi gesti, ma instillò il dubbio
della ragione anche tra le fila ecclesiastiche con le sue «scandalose» posizioni sui temi bioetici
(celebre la sua lettera sul caso Welby ospitata dal Sole 24 Ore il 21 gennaio del 2007) e sugli errori
della Chiesa.
Il pastore che seppe raccogliere attorno a sé il gregge disperso e deluso della maggiore tra le
diocesi, il fondatore della cattedra dei non credenti, il gesuita aperto e rispettato in tutto il mondo,
divenne per la gerarchia un personaggio scomodo. Più che un eretico, un nemico, un innovatore
spericolato, responsabile a detta dei suoi detrattori, che non gli hanno risparmiato frecciate velenose
anche dopo la morte, di un progressivo scivolamento della fede cattolica nella leggerezza
secolarizzata del protestantesimo o nella impalpabile realtà anglicana. Insomma, il cardinale che più
ha unito persone diverse e apparentemente lontane intorno alla Parola e al messaggio evangelico èstato, nello stesso tempo, la porpora che ha più diviso e inquietato la Chiesa, forse perché l'ha posta
di fronte a interrogativi scomodi che non potranno essere a lungo ignorati. Con la sua critica
all'enciclica Humanae Vitae di Paolo VI, che vietava la contraccezione, aveva semplicemente
anticipato molte delle discussioni degli anni successivi. Il cardinale era consapevole dell'estrema
sofferenza che gli uomini di culto provano nel non saper rispondere fino in fondo alle domande dei
fedeli. Martini intravedeva in questo ostinarsi della Chiesa nella rigidità dottrinaria sui temi della
modernità una delle cause del suo declino e del progressivo distacco di molti fedeli. Ai divorziati i
sacramenti sono preclusi, ma non si può certo dire che proprio per questo conducano una vita
contraria alla sostanza dei precetti cristiani.
La Chiesa conciliare seppe, con Giovanni XXIII e con Paolo VI, aprire le finestre e scuotere le
fondamenta di un'istituzione millenaria, che è radice insostituibile del nostro presente, rilanciando il
messaggio evangelico. Lo stesso cardinale Ratzinger, giovane sacerdote al Concilio, ne sottolineò lo
«straordinario balzo nel presente». E proprio nel momento in cui, impoveriti dalla perdita di senso
della vita civile, all'indomani del secolo delle ideologie, quando vasti strati della società guardano al
mondo cattolico come l'unico rifugio di valori universali e di rispetto della persona, la Chiesa
appare in difficoltà nel cogliere un'ansia diversa di partecipazione. Non sente la necessità di fare un
altro «grande balzo nel presente», si consegna a un destino di minoranza, condannata a perdere la
sfida con la secolarizzazione. Martini, che fu in vita un disciplinato membro della gerarchia
ecclesiastica ma conservò sempre la libertà delle proprie idee e non ebbe mai paura di professarle e
sostenerle, aveva semplicemente intuito questa deriva pericolosa, in particolar modo nelle
Conversazioni notturne a Gerusalemme, in dialogo con un altro grande gesuita, Georg Sporschill,
un libro non a caso uscito in tedesco e tradotto con una certa difficoltà in italiano. Una Chiesa che
ammette i propri errori ed è vicina, condividendone gli interrogativi più intimi, ai fedeli, dimostra la
propria grandezza e non ha timore di confrontarsi con nessun'altra fede, nemmeno con quelle che
appaiono più forti e granitiche.
Le proprie idee Martini le espose, poco dopo la morte, nel 2005, di Giovanni Paolo II, partecipando
a una riunione della congregazione generale, presente il decano Ratzinger: evangelizzazione,
ecumenismo, scelta per la pace e per i poveri. Una Chiesa con meno paramenti, più unita
dell'attività pastorale, di cui la società ha immenso bisogno, e meno divisa nella gestione di un
potere così fragile e, purtroppo, così drammaticamente secolarizzato.