Signore, tu che ci hai permesso di radunarci
in un luogo di silenzio, concedici di conoscere il tuo mistero d'amore. Donaci
di vivere questi giorni penetrando gioiosamente i misteri che ci rinnovano e ci
riempiono di nuovo coraggio per affrontare la vita quotidiana. Te lo chiediamo
per intercessione di Maria, Madre di Gesù, e di tutti i santi.
L'inizio di un corso di esercizi spirituali è
per me sempre un momento di grande gioia, un incontro con persone che vogliono
servire sinceramente Dio. Accolgo ciascuno nella mia preghiera, lieto di vivere
insieme a voi l'esperienza di comunione così singolare che è quella degli
esercizi: un episodio della storia della propria salvezza per chi li guida e per
chi li fa, una grande avventura dello Spirito.
D'altra parte non è senza trepidazione che
incomincio questo corso, perché non sappiamo mai dove lo Spirito ci conduce. Mi
sento come Davide di fronte a Golia, con tutta la fragilità e la piccolezza
davanti al mistero del male che c'è in noi e del bene che Dio desidera
offrirci. Mi piace comunque porre a conclusione di questa breve premessa una
parola dell’apostolo Paolo nella lettera ai Romani:
«Ho un vivo desiderio di vedervi per
comunicarvi qualche dono spirituale, perché ne siate fortificati, o meglio, per
rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi e
io» (1,11-12).
Quando guido gli esercizi li vivo io stesso ed
è certamente molto più ciò che ricevo di quanto do, perché comunico con la
fede di tante persone che mi rendono partecipe della loro esperienza spirituale.
Vi offro anzitutto tre punti su cui
riflettere: in che cosa consistono gli esercizi; la vostra situazione nel
momento in cui li iniziate; il testo biblico di riferimento che ho scelto.
Gli esercizi spirituali
1. Che cosa non sono
* Non sono una scuola di preghiera, anche
se risultano di grande aiuto per entrare nell' orazione.
Noi abbiamo sempre molto bisogno di
ricominciare a imparare a pregare. Spesso ci accorgiamo di quanto è vera la
parola di Paolo: nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare (cfr. Rm
8,26). Per questo ogni volta occorre ricominciare, tenendo presenti alcune
disposizioni interiori semplici e tuttavia nevralgiche, partendo per esempio
dall' atteggiamento di riverenza, di adorazione, di silenzio di fronte al
mistero di Dio. Talora preghiamo male, proprio perché non ci mettiamo di fronte
al Mistero tremendum con quella riverenza, adorazione profonda, silenzio,
che sono premessa indispensabile. È questo spirito di riverenza e di senso del
nostro niente che dobbiamo ritrovare quando entriamo in preghiera.
Gli esercizi di fatto ci aiutano, sono
certamente un momento assai utile per ricominciare il cammino dell'orazione. Non
sono però una scuola di preghiera.
* Non sono neppure ciò che oggi si usa
proporre in molte nazioni soprattutto nel nord dell'Europa, e che viene chiamato
con nomi diversi: scuola di raccoglimento, scuola di
preghiera profonda, scuola di unificazione interiore.
Indubbiamente gli esercizi favoriscono il
raccogliersi, l'unificarsi, l'uscire dalla dispersione e dalla frammentazione
nella quale sono vissute le nostre giornate, ma non sono di per sé una scuola
di raccoglimento, bensì qualcosa di più e di diverso.
* Non sono una «lectio divina» su
un testo della Scrittura, che infatti si può praticare fuori degli esercizi.
È ovviamente importante fermarsi su un testo
biblico, e nel dipanarsi dei nostri esercizi, faremo la lectio divina sulla
prima lettera di Pietro. La lectio però si pratica per spingerci a
camminare, è come l'asfalto della strada, mentre gli esercizi consistono
nel correre velocemente.
* Ancora, gli esercizi, pur se chi li guida
parla, non sono nemmeno un ministero della Parola; ossia prediche
belle ed efficaci che ci riscaldano il cuore e stimolano al bene.
2. Che cosa sono allora gli esercizi?
Sono un ministero dello Spirito.
Partono dalla persuasione che lo Spirito santo è all’opera già prima e
meglio di noi, e agisce in noi per farci cercare e trovare la volontà di Dio
momento per momento, nella nostra vita. Siamo quindi chiamati ad ascoltare la
sua voce, a sintonizzarci con lui, a seguirlo.
Negli Esercizi spirituali di sant’Ignazio
di Lodola leggiamo fin dall’inizio, dalla prima Annotazione: «Con il nome di
esercizi spirituali si intende ogni modo di esaminare la coscienza, di meditare,
di contemplare, di pregare oralmente e mentalmente e di altre attività
spirituali come più avanti si dirà» (n.1). Non si parla né di prediche, né
di ascolti, bensì di attività personali dello spirito, di attività personali
di preghiera che ciascuno vive.
Continua Ignazio: «Infatti, come sono
esercizi corporali il passeggiare, il camminare, il correre, così si chiamano
esercizi spirituali tutti i modo di preparare e disporre l’anima a togliere da
sé tutti i legami disordinati e, dopo averli tolti, di cercare e trovare la
volontà divina nell’organizzazione della propria vita per la salvezza dell’anima»
(ivi).
Gli esercizi sono perciò operazioni
spirituali che compiamo con lo scopo preciso di lasciarci muovere interiormente
dalla grazia dello Spirito per cercare la volontà di Dio nella nostra vita.
Naturalmente qui sorge la domanda: come e dove
opera lo Spirito?
Possiamo cogliere la presenza dello Spirito
solo attraverso la fede, e spesso la sua azione la comprendiamo più tardi; come
Mosè, che sul monte vede la gloria di Dio quando è passata. Di solito,
considerando gli eventi su larga scala – pensiamo alla vocazione -, ci
accorgiamo che lo Spirito ci ha mosso, ci ha portato, ci ha guidato.
Questo non significa che lo Spirito non operi
nel momento.
Per esempio, agisce tutte le volte che mette
in noi un certo disgusto della nostra mediocrità e ci stimola a desiderare di
uscirne; opera in noi quando ci dà la sensazione che qualcosa non va e ci
spinge a superarci, a fare un passo avanti fidandoci di Dio; opera tutte le
volte che sperimentiamo la gioia di sacrificarci per un altro o la gioia per
qualcosa che umanamente ci darebbe pena o sofferenza; e ancora, allorché
avvertiamo il desiderio di maggior intimità con Gesù, di parlargli più
familiarmente, di dialogare con lui come con una amico; opera quando superiamo
delle ansie, delle tentazioni, dei blocchi che irrigidiscono la nostra mente e
non ci permettono di agire con scioltezza nel regno di Dio. Sono tutti movimenti
dello Spirito.
Gli esercizi consistono proprio nel rendersi
conto della sua opera e nel seguirla, nel cogliere dove ci vuole portare. E a
quale scopo? Perché noi diventiamo una cosa sola con Gesù, perché viviamo
uniti a lui e lui abiti in noi, perché ci assimiliamo a Gesù, imparando a
vivere, operare, soffrire, amare, morire come lui.
Gli esercizi originariamente nella
formulazione classica di sant'Ignazio, hanno dunque lo scopo di aiutarci a
scegliere lo stato di vita secondo la volontà di Dio, quello stato di vita che
più ci assimila a Gesù. Quando lo stato di vita è già stato scelto, gli
esercizi ci permettono di ritrovare, di riaccettare la volontà di Dio nel
momento attuale della nostra esistenza.
Si può esprimere quanto ho detto in un altro
modo: gli esercizi consentono di mettere ordine nella propria vita. Spesso,
infatti, senza che ce ne accorgiamo, essa si disordina, si frammenta, si logora.
Quando ero Arcivescovo di Milano avevo su un tavolo nella sala
delle udienze alcuni miei libri, e uno era intitolato Mettere ordine nella
propria vita. I preti e i laici che venivano a incontrarmi lo guardavano
interessati e dicevano: va bene per me, questo è ciò di cui ho bisogno.
Mettere ordine nella propria vita significa
cercare la volontà che il Signore mi presenta adesso,
in questo particolare momento della mia biografia, del mio cammino,
dei miei doveri, delle mie prove, delle mie speranze. Gli esercizi sono un mezzo
davvero formidabile per mettere un ordine giusto secondo la volontà di Dio, non
soltanto una volta nella vita, bensì ogni giorno.
Di conseguenza siamo invitati a favorire le
condizioni per cogliere in noi l'azione dello Spirito.
Ne ricordo almeno tre: il silenzio, che
ci permette di cogliere la voce dello Spirito; la preghiera prolungata e
metodica; l'ascolto della sacra Scrittura, della parola di Dio, non
semplicemente per conoscere un libro nuovo della Bibbia che non si è mai magari
letto bene, ma per ascoltare la parola di Dio, che ci comunica che cosa vuole da
noi. Suggerisco a ciascuno di stabilire almeno tre o possibilmente quattro tempi
di preghiera personale prolungata, due al mattino e due nel pomeriggio. Quattro
momenti in cui ognuno di noi deve proporsi seriamente di pregare in silenzio
davanti a Dio, ripartendo da ciò che abbiamo ascoltato o letto nella Scrittura,
o che il Signore ci fa sentire nel cuore.
Se non possiamo dedicare un'ora intera quattro
volte al giorno come dice sant'Ignazio di Lojola, proponiamoci almeno tre quarti
d'ora o mezz'ora; evitiamo, dopo le meditazioni comuni, di andare un po' qui e
un po' là, di leggere qualcosa, senza tuttavia una preghiera calibrata e ben
composta.
Questo è un segreto degli esercizi; se non lo
si vive, sono un ascolto di alcune parole buone, ma non producono il frutto che
lo Spirito santo ha preparato per noi.
Un suggerimento importante
Per quanto vi riguarda sono nodali soprattutto
due domande. La prima: come siamo arrivati agli esercizi? Seconda: come vorremmo
uscirne?
- È importante chiedersi: in quale momento
della mia biografia spirituale mi trovo? Mi sento calmo, tranquillo,
disponibile? Oppure stanco, affaticato, magari depresso per qualche evento
negativo che mi ha turbato? Oppure amareggiato, pesante?
È molto utile cogliere noi stessi come in uno
specchio, per renderci conto di come il Signore ci tocca.
- Altrettanto importante è la seconda domanda: che cosa
vorrei ottenere dagli esercizi? Che cosa vorrei chiarire in me stesso? Quale
frutto vorrei ricavare?
Questo è 1'oggetto della nostra preghiera, è
ciò su cui lavora lo Spirito, in modo diverso per ciascuno di noi.
Il testo biblico di riferimento
Ho pensato di prendere come riferimento
degli esercizi la prima lettera di Pietro. Il motivo della mia scelta è
anche pragmatico, perché 1'anno scorso, a Gerusalemme, dove mi sono ritirato
alla conclusione del mio servizio episcopale a Milano, mi sono dedicato alla
recensione critica del papiro Bodmer VIII, il più antico esemplare (è del III
secolo) delle due lettere di Pietro.
A poco a poco me ne sono innamorato e ho
ritenuto dunque che fosse utile e bello proporvi almeno la prima, una lettera
che vuole incoraggiare cristiani in situazione non facile. Mi sembra del resto
che di incoraggiamento abbiamo bisogno pure oggi.
Naturalmente non farò una lectio continua,
in quanto lo scopo degli esercizi non è quello di una lezione esegetica; mi
lascerò piuttosto guidare dalla dinamica degli Esercizi spirituali: scegliendo
i brani della lettera che corrispondono alla dinamica del cammino di conversione
che in essi ci viene proposto.
Sono infatti convinto che il percorso degli Esercizi
mette in sintesi quello della rivelazione biblica, e quindi il loro
dinamismo si può ritrovare nei diversi testi della Scrittura.
Chiediamo alla Madonna di aiutarci a vivere
questi giorni come vero e proprio luogo di azione dello Spirito santo, non come
scuola di preghiera o di raccoglimento, non come lectio divina o
ministero della Parola. E invochiamola così: «Patrona
exercitiorum, ora pro nobis».
Mi lascio ispirare per la preghiera iniziale
dal testo della lettera agli Ebrei:
«Entrando nel mondo, Cristo dice: / Tu non
hai voluto né sacrificio né offerta, / un corpo invece mi hai
preparato. / Non hai gradito / né olocausti né sacrifici per il
peccato. / Allora ho detto: Ecco, io vengo / - poiché di me sta
scritto nel rotolo del libro - / per fare, o Dio,
la tua volontà» (10, 4).
Signore Gesù, fa’ che queste parole siano
nostre. Noi siamo qui per compiere, o Padre, la tua volontà nella quale sta la
nostra pace. Donaci l’abbondanza dello Spirito affinché possiamo vivere
secondo la tua volontà ora, momento per momento, e discernerla nella nostra
vita. Spirito di amore e di santità, vieni in noi con i tuoi doni di sapienza,
di intelletto, di consiglio. Illumina i nostri cuori e le nostre menti.
Una domanda previa mi ha accompagnato e
inquietato nei giorni scorsi: sarà proprio utile la prima lettera di Pietro per
accompagnare un corso di esercizi?
È vero, e l'ho già accennato, che il carisma
di sant'Ignazio è stato appunto di riassumere nel suo libro il dinamismo
fondamentale delle Scritture.
Tuttavia non ogni pagina della Bibbia è
ugualmente adatta per guidare il cammino degli esercizi. Io stesso ho preferito
finora scegliere delle figure - Abramo, Mosè, Davide, Samuele, Geremia, Pietro,
Paolo ecc. oppure le pagine narrative dei vangeli, perché è più facile
cogliervi un processo dinamico simile a quello degli Esercizi.
Ma in una lettera parenetica, dove trovare
tale dinamica? Siamo sicuri che ci aiuterà davvero e non sarà un impedimento?
Ecco il dubbio che avevo. Tanto più che la 1 Pt è, in parecchie pagine,
lontanissima dalla nostra cultura occidentale, è datata, per esempio dove parla
delle autorità, degli schiavi, delle mogli e dei mariti.
D'altra parte la lettera, come ogni libro
della Scrittura, ha un suo svolgimento, simile a quello degli Esercizi. Leggiamo
nel c. 1 che i profeti
«cercarono di indagare a quale momento o a
quali circostanze accennasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando
prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che dovevano seguirle» (v.
11).
In realtà gli Esercizi sono centrati
sulla percezione delle sofferenze e della gloria di Cristo. La corrispondenza
tra le Scritture e gli Esercizi è evidente.
E ancora, alla fine della lettera:
j «Vi ho scritto, come io ritengo, brevemente
per mezzo di Silvano, fratello fedele, per esortarvi e attestarvi che questa è
la vera grazia di Dio» (5, 12).
Dunque lo scopo di Pietro, è di far
riconoscere la volontà di Dio in ciò che stanno vivendo i destinata,ri della
lettera, pur nelle sofferenze che li rendono simili a Cristo. E questo è molto
consono alla ricerca della volontà di Dio, propria degli Esercizi.
Sono perciò fiducioso che la lettera ci
aiuterà.
Da un punto di vista metodologico, dovremmo
tenere presenti alcune domande: quale esperienza spirituale suggerisce il testo
di Pietro che stiamo leggendo? Quali risonanze e affinità o resistenze trova in
me? Quale relazione ha con la dinamica degli Esercizi? Oppure,
specularmente: che cosa comporta a questo punto la dinamica degli Esercizi? Come
la pagina che stiamo leggendo vi corrisponde e quali suggerimenti ne seguono per
noi, per l'attualizzazione - è il momento della lectio e della meditatio
-? Quali stimoli ne vengono per la preghiera e la contemplazione?
Il primo percorso va dalla 1 Pt agli Esercizi;
il secondo dagli Esercizi alla 1 Pt.
Ciò che vorrei di nuovo sottolineare è che non intendo
praticare la lectio divina della lettera, ma leggerla tenendo presente
l'itinerario ignaziano.
Riflettiamo sulla prima pagina degli Esercizi
spirituali, chiamata Principio e fondamento.
È una sorta di premessa all'intero
svolgimento del cammino, esprime la visione previa della vita dalla quale si
parte per compiere l'itinerario di ricerca della volontà di Dio. «L'uomo è
creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore e per salvare, in
questo modo, la propria anima; e le altre cose sulla faccia della terra sono
create per l'uomo affinché lo aiutino al raggiungimento del fine per cui è
stato creato. Da qui segue che l'uomo deve servirsene, tanto quanto lo aiutino a
conseguire il fine per cui è stato creato e tanto deve liberarsene quanto
glielo impediscano. Per questa ragione è necessario renderci indifferenti verso
tutte le cose create (in tutto quello che è permesso alla libertà del nostro
libero arbitrio e non le è proibito) in modo da non desiderare da parte nostra
più la salute che la malattia, più la ricchezza che la povertà, più l'onore
che il disonore, più la vita lunga che quella breve, e così tutto il
resto, desiderando e scegliendo solo ciò che più ci porta al fine per cui
siamo stati creati» (n. 23).
Questa pagina è Principio perché
bisogna cominciare da Dio, Creatore, Signore e fine dell'uomo; ed è anche Fondamento,
perché tutto ciò che si costruisce ha qui la sua radice: cercando
anzitutto e solo la volontà di Dio, per la salvezza dell' anima.
Potremmo anche chiamarla una premessa
teologica e metodologica degli Esercizi. Teologica, in quanto tutto parte
da Dio; premessa metodologica in quanto tutto è subordinato alla ricerca del
fine, cioè la volontà del Signore, e questo è a sua volta subordinato alla
vita eterna e alla salvezza dell' anima.
Nella 1 Pt troviamo ugualmente un
presupposto che può fare da principio e fondamento della lettera?
Parto da un' osservazione linguistica.
Ci sono molte proposizioni in forma
indicativa, cioè affermativa e ci sono tante altre frasi esortative
all'imperativo. Il testo è composto sempre come di due momenti: un momento
affermativo, nel quale si asseriscono delle verità, e un momento esortativo nel
quale si invita a vivere secondo tali verità.
Per esempio, momento affermativo: «Dio ci ha
rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti per una speranza
viva» (1 Pt 1, 3); oppure: «Venite impiegati come pietre vive per la
costruzione di un edificio spirituale» (2, 5).
Momento esortativo: «Siate vigilanti, fissate
ogni speranza in quella grazia che vi sarà data» (1, 13); oppure: «A
immagine del Santo che vi ha chiamati, diventate santi anche voi in tutta la
vostra condotta» (v. 15); ancora: «Come bambini appena nati bramate il
puro latte spirituale» (2, 2). È chiara anche sintatticamente la
differenza tra l'indicativo e l'esortativo o imperativo.
Consideriamo dunque nella 1 Pt le
pagine all'indicativo, che esprimono il principio e fondamento dell'esortazione,
pagine che si trovano in particolare nei primi due capitoli, soprattutto da 1,
1 a 2, 10. Su di esse rifletteremo ora e nella prossima
meditazione.
Notiamo che la 1 Pt è un capolavoro
letterario ed è scritta con uno stile scorrevole, in un greco elaborato, di
eccellente qualità, con un vocabolario ricco e vario. È inoltre densissima,
suppone un' esperienza spirituale molto profonda e condensata. Noi però la
avviciniamo in maniera semplice, secondo le scansioni della lectio divina: la
lectio, che consiste nel leggere e rileggere il testo, per metterne in
rilievo le scansioni, la struttura, gli elementi portanti, le parole chiave; la meditatio,
che consiste nel chieder ci quali sono i valori del testo, in relazione al
momento degli esercizi spirituali che stiamo vivendo; infine la contemplatio,
che ci mette davanti al Signore Gesù per entrare in colloquio con lui che
ci ha parlato attraverso il brano biblico. È il tempo prezioso del vostro
dialogo personale col Signore e mi limiterò ad offrirvi qualche spunto di
preghiera, a modo di avvio.
Mittente, indirizzo, augurio
I primi due versetti - il cosiddetto praescriptum
epistolare - tengono il luogo di quella che per noi è la busta, sulla quale
scriviamo l'indirizzo e il mittente:
«Pietro, apostolo di Gesù Cristo, ai fedeli
dispersi nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell'Asia e nella Bitinia,
eletti secondo la prescienza di Dio Padre, mediante la santificazione dello
Spirito, per obbedire a Gesù Cristo e per essere aspersi del suo sangue: grazia
e pace a voi in abbondanza» (1 Pt 1) 1-2).
* Anzitutto il mittente, Pietro.
È un pescatore di Galilea diventato poi
apostolo; come sappiamo dai vangeli, ha avuto la grazia di proclamare Gesù
Cristo Figlio di Dio, Messia; è colui che l'ha rinnegato ed è stato perdonato;
che ha seguito il cammino delle primitive comunità da Gerusalemme, a Giaffa, a
Cesarea.
Come apparirà alla fine della lettera, Pietro
è stato aiutato nella stesura da Silvano. Del resto gli esegeti sono scettici
sulla paternità petrina e si domandano: come poteva un pescatore scrivere in
modo tanto elaborato, con un linguaggio preciso, profondo, denso e incisivo? La
lettera non è forse da addebitare alla primitiva comunità romana, dove c'erano
persone di grande cultura?
Sta di fatto che l'epistola è messa sotto
l'autorità di Pietro, «apostolo di Gesù Cristo». La sua missione è quella
di inviato da Gesù e tutta la sua dignità è relativa appunto a lui.
* A chi scrive Pietro?
«Agli eletti dispersi». La traduzione CEI
del testo parla prima di «fedeli dispersi nel Ponto, nella Galazia...»,
e aggiunge poi «eletti secondo la prescienza di Dio Padre...». Il testo
greco, invece, più concisamente recita: «Pietro... agli eletti dispersi (eklektois
parepidémois); ed è molto forte il collegamento.
«Eletti» richiama la grande dignità del
popolo di Israele, il popolo eletto; propone la grande dignità di essere scelti
da Dio, con amore, dall' eternità, per una missione. Mentre «dispersi» evoca
povertà e fragilità, indica la sofferenza di gente che non ha una patria ed è
messa ai margini della società. «Dispersi» vuol probabilmente dire che non
abitano in modo stabile in un luogo e mancano dei diritti civili fondamentali.
Costituiscono perciò la parte un po' disprezzata della popolazione, come lo
sono oggi molti profughi e lavoratori stranieri che non hanno diritto di
cittadinanza.
C'è forse (ma è difficile stabilirlo con
certezza) anche una memoria del popolo ebraico in diaspora: come il popolo
ebraico, anch' essi partecipano della dispersione tra le genti, che costituisce
una particolare presenza salvifica di Dio pure in situazioni umili e povere.
Interessanti le indicazioni geografiche.
«Dispersi»: nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell' Asia e nella
Bitinia. Probabilmente si tratta di quattro e non di cinque regioni romane,
perché il Ponto era unito alla Bitinia. Tutte e quattro er.ano regioni
dell'odierna Turchia, allora lontane dai grandi centri di comunicazione.
Non è facile spiegare l'ordine in cui sono
menzionate. Si parte dal Ponto, al nord della Turchia, si scende verso il centro
con la Galazia e la Cappadocia, ci si sposta verso l'ovest con l'Asia, provincia
visitata pure da san Paolo, e si ritorna al nord con la Bitinia. Gli esegeti si
chiedono il perché di tale ordine e ritengono che ci si debba riferire
all'itinerario che seguirà Silvano, per portare la missiva. Possiamo dunque
seguire il percorso di questa lettera che, notiamo, è circolare, rivolta cioè
non a una comunità, ma a molte, a cristiani sparsi in mezzo ai pagani,
abbandonati a se stessi e quindi privi di una forte esperienza comunitana.
È bello notare l'amore con cui un apostolo da
lontano, cioè da Roma, vuole essere vicino a questi cristiani nella loro
situazione storica, geografica e culturale.
Osserviamo ancora che l'elezione, l'essere
amati da Dio, viene subito specificata trinitariamente, ed è molto importante
perché sta a dire che il pensiero, della Trinità riempiva il cuore dei primi
cristiani: «eletti» «secondo la prescienza di Dio Padre» (cioè Dio Padre da
sempre vi ha amato e vi ha scelto); «mediante la santificazione dello Spirito»
(lo Spirito opera in voi, siete lavorati, santificati, mossi dallo Spirito);
«grazie all'obbedienza e al sangue di Gesù». Distaccandomi dalla traduzione
CEI, «per obbedire a Gesù Cristo», preferisco allinearmi con l'esegeta
Elliott: «grazie all'obbedienza che Gesù ha fatto al Padre». È l'obbedienza
che Gesù ha vissuto rispetto al Padre che ci rende eletti. «Grazie
all'aspersione del suo sangue»: come l'aspersione del sangue consacrava l'arca
dell' alleanza e indicava l'elezione di Israele.
Non abbiamo tempo di scrutare tutte le radici
veterotestamentarie delle parole di Pietro; possiamo però capire come sono
dense di richiami, in particola re all'aspersione del sangue che Mosè fa nel c.
24 dell'Esodo, aspersione del popolo e dell' altare:
«Mosè prese la metà del sangue e la mise in
tanti catini e ne versò l'altra metà sull'altare. C..) Allora Mosè prese il
sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell' alleanza, che il
Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!» (vv.
6.8).
Mi piace infine ricordare che il termine
«prescienza» (prognosis) occorre solo due volte nel Nuovo Testamento,
qui e in At 2, 23:
«Dopo che, secondo il prestabilito disegno e
la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l'avete inchiodato sulla
croce per mano di empi e lo avete ucciso»
dove indica la preveggenza di Dio per le
sofferenze di Gesù. Tuttavia si trova anche altrove il verbo progignoskein, per
esempio in Rm 8,29 (proégno), dove Paolo descrive la conoscenza e
l'amore di Dio, che dall' eternità ha conosciuto e poi scelto.
Vedete come questa lettera è densa fin dalle
sue prime righe.
* A conclusione dei primi due versetti, l'augurio:
«grazia e pace a voi in abbondanza».
Un augurio abbastanza raro nel Nuovo
Testamento, perché di solito troviamo «grazia e pace a voi». Qui si aggiunge
il verbo plethyntheie: abbondi, si riempia in pienezza in voi la grazia e
la pace di Gesù.
Questo augurio di grazia e pace in abbondanza
si trova pure nell'indirizzo (1,2) della 2 Pt. È una caratteristica
delle due epistole petrine.
Coscienza battesimale
Ora, nel momento della meditatio, ci
domandiamo: a quale esperienza spirituale rispondono queste parole? Certamente
sono frutto di una profondissima e ricchissima esperienza.
A me sembra che rispondano, sia in Pietro che
scrive, sia nei cristiani dispersi che leggono, a una forte coscienza di un Dio
che ci ha amato per primo, opera in noi per mezzo dello Spirito e ci salva
grazie all'obbedienza di Gesù. Potremmo dire, una straordinaria coscienza
battesimale: Dio ci ha amati per primo, lo Spirito santo ci santifica nel
battesimo, Gesù ci redime donando la sua vita per no!.
Ci chiediamo: che cosa corrisponde in me, in
noi cristiani di oggi, a tale esperienza spirituale? Abbiamo davvero una
profonda coscienza battesimale del nostro legame con la Trinità, Padre, Figlio
e Spirito santo?
Oggi purtroppo abbiamo spesso di noi una
visione ristretta, un po' grigia e rassegnata. Il nostro cristianesimo consiste
nel fare certe cose, nel compiere certi obblighi, nel portare certi pesi, nell'
eseguire certe osservanze; e ci consideriamo una piccola e povera realtà
rispetto alla potenza mondana. Tutto questo lo viviamo con smarrimento e non con
la coscienza della grazia di Dio.
Se la nostra coscienza battesimale è scarsa,
è dunque urgente chiedere la grazia che venga ravvivata. Di fatto tocchiamo qui
l'esperienza del Principio e fondamento, quella di essere creature di
Dio, da lui amate e chiamate a una grande missione.
Avvio alla «contemplatio»
Vi invito a pregare contemplando la Trinità
che è in noi e la chiamata di Dio per ciascuno, con gratitudine e con gioia,
con fierezza e con orgoglio. Possiamo essere i più disperati o disgraziati
uomini della terra, non contare niente politicamente o economicamente, e però
siamo amati da Dio dall' eternità e lo Spirito opera in noi per una grande
missione.
Pietro vuole indicarci appunto le conseguenze
della straordinaria elezione trinitaria del semplice cristiano, che vive in
condizioni di solitudine o di debolezza: l'altissima dignità del cristiano che
gli permette di essere fiero, gioioso, contento, ottimista, anche in situazioni
di marginalità sociale e culturale, e addirittura nell'umiliazione e nella
sofferenza. .
È la nostra coscienza battesimale e
vocazionale, che dobbiamo coltivare quale principio e fondamento di tutto il
nostro esistere e operare cristiano. La 1 Pt ci invita ad avere una
grande idea di noi.
O Dio Padre nostro, Tu ci hai tanto amato
fin dall'eternità e hai previsto tutte le situazioni nelle quali ci saremmo
trovati nei diversi tempi della nostra vita. Tu ci hai riempito dello Spirito
santo, perché ci desse la forza, il discernimento per vivere in verità ogni
nostro giorno. Tu ci hai santificato e ci santifichi con l’obbedienza di Gesù
fino alla morte e con l'aspersione del suo sangue, che vengono continuamente
rinnovate in noi nell’Eucaristia. Ti chiediamo, per intercessione di Maria, di
riconoscere con gioia i tuoi grandi doni, per poterli mettere a frutto nella
vita quotidiana, a servizio della tua Chiesa.
Passiamo ora alla lettura dei versetti
successivi:
«Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro
Gesù Cristo; nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati, mediante la
risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per una eredità
che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli
per voi, che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, per la
vostra salvezza, prossima a rivelarsi negli ultimi tempi. Perciò siete ricolmi
di gioia, anche se ora dovete essere un po' afflitti da varie prove, perché il
valore della vostra fede, molto più preziosa dell' oro, che, pur destinato a
perire, tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore nella
manifestazione di Gesù Cristo; voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora
senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa,
mentre conseguite la mèta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime.
Su questa salvezza indagarono e scrutarono i
profeti che profetizzarono sulla grazia a voi destinata cercando di indagare a
quale momento o a quali circostanze accennasse lo Spirito di Cristo che era in
loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che dovevano
seguirle. E fu loro rivelato che non per se stessi, ma per voi erano ministri di
quelle cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il
vangelo nello Spirito santo mandato dal cielo: cose nelle quali gli angeli
desiderano fissare lo sguardo» (1 Pt 1, 3-12).
È una pagina ricca di prospettive teologiche,
piena di entusiasmo e di speranza.
Cerchiamo anzitutto, nel momento della lectio,
di cogliere la struttura del testo, che si compone di tre parti: la
coscienza escatologica del cristiano (vv. 3-5), la gioia nella prova (vv.
6-9), la coscienza messianica del cristiano (vv. 10-12). Sono per
così dire tre elementi di principio e fondamento.
La coscienza escatologica del cristiano
«Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro
Gesù Cristo». Inizia con quella che in ebraico si chiama berakah, una
benedizione, che conosciamo da altre lettere del Nuovo Testamento, per esempio 2
Cor: «Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo» (1,
3).
Alla benedizione seguono delle proposizioni
affermative, che indicano il principio e fondamento dell'esortazione
della lettera: «Dio nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la
risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per una eredità
che non si corrompe, non si macchia e non marcisce».
La parola chiave è speranza: «Dio ci ha
rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza
viva», speranza che viene poi specificata in tre modi: è un'eredità che
«non si corrompe» (a-phtharton), «non si macchia» (a-mianton), «non
marcisce» (a-maranton). L’alfa privativo indica come questa speranza
è assolutamente intoccabile e ha un carattere di definitività. È l'esperienza
di una apertura eterna, non limitata a piccoli tempi della vita e
all'esistenza terrena. E benediciamo Dio che ci ha donato una prospettiva che va
ben al di là della morte, per raggiungere la pienezza stessa di Dio, la sua
felicità.
Speranza viva che «è conservata nei cieli per
voi». Pietro, dopo aver detto: «Dio ci ha rigenerati», passa
subito al «voi»: «Essa è conservata nei cieli per voi, che dalla
potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, per la vostra salvezza,
prossima a rivelarsi negli ultimi tempi».
Siamo ammirati di come la primitiva comunità
cristiana riusciva a esprimere in maniera così profonda il dogma. Noi non
saremmo capaci oggi di scrivere una frase tanto densa come questa.
Il termine è dunque la speranza viva, che è
eterna, che viene conservata nei cieli dalla potenza di Dio e che si rivelerà
negli ultimi tempi. È una speranza escatologica. E il principio e fondamento
è questa speranza del cristiano, resaci certa da Dio e donataci mediante la
risurrezione di Gesù dai morti.
La gioia nelle prove
Ne deriva un secondo principio e fondamento
ed è la gioia nelle afflizioni (vv. 6-7): «Perciò siete ricolmi di
gioia, anche se ora dovete essere un po' afflitti da varie prove, perché il
valore della vostra fede, molto più preziosa dell'oro, che, pur destinato a
perire, tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore nella
manifestazione di Gesù Cristo». Il cristiano, attendendo la manifestazione
escatologica di Gesù Cristo, sperimenta la gioia pur nelle prove del presente.
Dopo la menzione di Gesù Cristo alla fine del
v. 7, leggiamo un' effusione d'amore molto bella nei vv. 8 e 9:
«Voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui.
Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la mèta
della vostra fede, cioè la salvezza delle anime».
È un approfondimento del pensiero
fondamentale. Dal momento che tutto è giocato sulla speranza di ciò che verrà
e la speranza riempie di gioia il momento presente, vi riempie di gioia anche
l'amare Gesù, pur senza averlo visto. È la beatitudine che sgorga dalla
speranza, dall' amore e dalla fede, e si manifesterà alla fine nella salvezza
delle anime.
Osserviamo come quella che è stata proclamata
speranza viva nel v. 3 viene poi ripresa come fede nei vv. 7 e 9:
«il valore della vostra fede, molto più preziosa dell'oro», «mentre
conseguite la mèta della vostra fede».
Notiamo inoltre che ambedue le parti terminano
con la menzione della salvezza escatologica. Il v. 5 recita: «Dalla
potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, per la vostra salvezza,
prossima a rivelarsi negli ultimi tempi»; e il v. 9: «mentre conseguite
la mèta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime».
Questi versetti sono dunque una grande
contemplazione mistica della salvezza escatologica del cristiano ed esprimono la
coscienza della gioia che essa suscita fin da ora, nel presente.
Coscienza messianica
I vv. 10-12 offrono un terzo principio
e fondamento: il riconoscersi l'oggetto ultimo del disegno di
salvezza proclamato dai profeti nel Primo Testamento. Tutto ciò che è avvenuto
riguarda noi: «Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti che
profetizzarono sulla grazia a voi destinata» (v. 10).
Il v. 11 è considerato una lente
ermeneutica per la lettura dell'intera Bibbia: «cercando di indagare a quale
momento o a quali circostanze accennasse lo Spirito di Cristo che era in loro,
quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che dovevano
seguirle».
Viene alla mente il discorso di Gesù ai
discepoli di Emmaus: i profeti avevano previsto le sofferenze e le glorie del
Cristo che si sono avverate oggi per voi (cfr. Le 24) 25-27).
Ciò viene detto più chiaramente nel v. 12:
«E fu loro rivelato che non per se stessi, ma per voi, erano ministri di quelle
cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno
predicato il Vangelo nello Spirito santo mandato dal cielo; cose nelle quali gli
angeli desiderano fissare lo sguardo».
Siamo di fronte a una profonda intuizione
profetica sul signicato di tutto il Primo Testamento, che ora si adempie nei
cristiani.
Concludendo: al principio e fondamento costituito
dalla coscienza battesimale (vv. 1-2), la 1 Pt aggiunge il principio
e fondamento costituito dalla coscienza escatologica, dalla coscienza
potremmo dire gioiosa delle sofferenze di fronte alla pienezza eterna, e della
coscienza messianica di essere il punto di arrivo della storia di salvezza.
Prima di passare alla meditatio, sottolineo
due parole chiave del testo.
Speranza e salvezza
La prima parola chiave l'ho già accennata: è
speranza (v. 3): «per una speranza viva», che ritornerà in 1, 13:
«Fissate ogni speranza in quella grazia che vi sarà data»; e ancora
concluderà l'esortazione dal c. 1: «Così la vostra fede e la vostra
speranza sono fisse in Dio» (v. 21).
La speranza è il leit-motiv presente
in tutto il capitolo 1.
Un'altra parola chiave è salvezza: «Dalla
potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, per la vostra salvezza» (v.
5). Ritorna al v. 9: «Mentre conseguite la mèta della vostra fede,
cioè la salvezza delle anime», e all'inizio della terza parte: «Su questa
salvezza indagarono e scrutarono i profeti».
Ci accorgiamo perciò che non senza motivo
sant'Ignazio pone salvezza come parola
chiave del suo Principio e fondamento: «L'uomo è creato per lodare,
riverire e servire Dio nostro Signore e per salvare in questo modo la
propria anima» (n. 23).
È un'espressione che ritorna al n. 177,
dove si parla dell' elezione, che è il cuore degli Esercizi e si può
fare in una situazione di tranquillità, «tenendo presente perché l'uomo è
nato, cioè per lodare Dio nostro Signore e per salvare la propria
anima». E di nuovo al n. 179, quando dice che occorre scegliere «ciò
che mi sembri meglio per la gloria di Dio nostro Signore e per la salvezza della
mia anima».
Non siamo più abituati oggi a parlare di
salvezza dell'anima, ma comprendiamo che è un termine tradizionale nella
Scrittura e negli Esercizi, e indica il fine dell'uomo quale liberazione
dal pericolo della morte eterna.
Attualizzazione
Dopo la lectio vi suggerisco qualche
riflessione per il momento della meditatio.
* Se ci domandiamo in quale misura la speranza
escatologica è viva e presente oggi nella Chiesa, dobbiamo purtroppo rispondere
che è piuttosto dimenticata.
Dalle inchieste sociologiche si ha
l'impressione che oltre il 50% di coloro che si ritengono cristiani non credono
nella vita eterna o comunque la considerano un' appendice possibile: dobbiamo
vivere bene in questa vita, tanto meglio se ce ne sarà un'altra! Non è affatto
una prospettiva sull' orizzonte eterno che illumina il presente. In realtà il
presente viene illuminato da principi buoni, ma non è letto in quell'ampiezza
senza limiti che è l'eternità.
Forse ci siamo lasciati contagiare
dall'atmosfera creata dal marxismo nel secolo scorso, che poneva ogni speranza
di giustizia su questa terra.
A mio parere la caduta dell' orizzonte
escatologico è una delle carenze più gravi della Chiesa in Occidente. Basta
confrontare le iscrizioni dei cimiteri dei secoli passati, dove sempre ci si
riferiva all' aldilà, con le iscrizioni di oggi dove al massimo si legge: visse
una vita buona, fu un buon cristiano, un uomo onesto, leale. Nessuna apertura
alla speranza escatologica.
La lettera di Pietro ci ricorda dunque un
grave
deficit della nostra Chiesa.
E notiamo che la speranza della vita eterna
non è di per sé soltanto speranza della mia salvezza personale, di andare in
paradiso, ma speranza che si manifesti il Regno, che venga il giudizio finale
sulla storia a mostrare la glorificazione del Cristo risorto, che venga il
momento in cui l'umanità intera riconoscerà la regalità di Cristo.
È una speranza che muove tutto il nostro
operare perché comincia a realizzarsi fin da ora e, a partire dai suoi segni
premonitori, noi dirigiamo il nostro lavoro anche pastorale e apostolico.
Soprattutto il Vescovo è chiamato a custodire la grande speranza della venuta
del Regno e a indirizzare i cammini della Chiesa nel quadro di questa visione
globale.
Mi piace citare una frase di san Paolo:
«Ora mi resta solo la corona di giustizia che
il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma
anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione» (2 Tm 4,
8).
Mi colpisce l'espressione «che attendono con
amore la sua manifestazione», cioè non solo l'aspettano come fine di tutto, ma
la amano, la desiderano, la prevengono, la pongono in opera fin da ora.
* La seconda linea di meditazione che
suggerisco è presente nei versetti centrali (vv. 6-8).
Quando si ha la visuale del regno di Dio che
viene e che noi attendiamo, è più facile considerare le difficoltà e le
sofferenze come prove purificanti che preparano il Regno. Tali prove non sono
incidenti di percorso o momenti difficili per i quali prima o poi è necessario
passare, bensì vere preparazioni alla glorificazione totale del nome di Gesù
nel mondo.
Non a caso Pietro scrive: voi attraverso
queste sofferenze già «conseguite la mèta della vostra fede, cioè la
salvezza delle anime» (v. 9). La mèta della fede è conseguita da voi
fin da questo momento se vivete con una visuale grandiosa della fine della
storia.
Signore, tu vedi come la tua Chiesa è
spesso oppressa dalle fatiche di ogni giorno e rischia di perdere la speranza e
la gioia della vita eterna. Viviamo talvolta rassegnati, portando la nostra
croce, ma senza renderei conto che questa croce è fonte di gioia e di
purificazione per un ideale in vista del quale vale la pena di spendere tutta la
nostra vita. Allarga il nostro cuore e quello di tutti i cristiani, perché
possiamo conoscere la speranza a cui siamo chiamati. E concedi
che ogni Eucaristia sia esperienza e pregustazione della pienezza che tu ci
prepari.
Noi ti ringraziamo, o Padre, perché ci nutri
con la tua Parola di verità e la fai giungere a noi dopo tanti secoli,
attraverso le parole dell’apostolo Pietro. Fa' che anche noi partecipiamo alla
sua esperienza della morte e risurrezione di Gesù, alla sua
speranza nella gloria. Egli che ora vive in questa gloria presso di te interceda
per noi, con la beata vergine Maria, per farci desiderare i beni eterni e
proiettare sulle nostre azioni quotidiane la luce della tua volontà e la
potenza dello Spirito santo. Te lo chiediamo, o Padre, per Cristo nostro Signore.
Tralasciando per ora di soffermarci sulle
parole esortative di 1 Pt 1, 13-22, continuiamo a riflettere su alcuni
versetti assertivi, affermativi, che esprimono due ulteriori formulazioni di principio
e fondamento. Considereremo 1 Pt 1,23-25; 2,4-5. 9-10. Di ciascuno di
questi brani faremo la lectio e la meditatio.
Leggiamo il testo:
«...essendo stati rigenerati non da un seme
corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna. Poiché
/ tutti i mortali sono come l'erba / e ogni loro splendore è come
fiore d’erba. / L’erba inaridisce, i fiori cadono, / ma la
parola del Signore rimane in eterno» (1, 23-25a).
* L'autore ha una fortissima coscienza del
fatto che il cristiano è generato dalla Parola. Ha insegnato precedentemente
che la misericordia del Padre ci ha rigenerato, ci ha fatto nascere di nuovo; e
qui aggiunge che la rigenerazione è dalla parola di Dio. Il nostro vivere
cristiano non viene da un seme naturale, umano e corruttibile, ma da un seme
immortale.
La Parola è quindi all'origine della nostra
rinascita spirituale, della nostra vita, perché ci fa muovere secondo la
volontà di Dio e nutre in noi la crescita interiore.
I vv. 24 e 25a spiegano
ulteriormente, utilizzando un passo di Isaia, che cosa vuol dire «parola di Dio
eterna»: «Tutti i mortali sono come l'erba / e ogni loro splendore
è come fiore d’erba.! L’ erba inaridisce, i
fiori cadono/ ma la parola del Signore rimane in eterno» (Is 40, 7-8).
Tutte le ideologie, tutte le parole umane,
tutte le filosofie, tutti i pensieri che sono unicamente frutto dell'uomo non
sostengono, si rivelano caduchi, perituri. E abbiamo assistito al cadere di
tante ideologie che sembravano costruite perfettamente. Solo la parola di Dio è
eterna, indistruttibile, sempre capace di generare.
E qual è la Parola?
Ricordiamo che il Primo Testamento aveva un
concetto analogo, applicato tuttavia alla Legge. Penso al c. 24 del libro
del Siracide:
«La sapienza loda se stessa, / si vanta in
mezzo al suo popolo. / Nell'assemblea dell'Altissimo apre la bocca, / si
glorifica davanti alla sua potenza: / "lo sono uscita dalla bocca
dell'Altissimo"» (vv. 1-3a).
Quindi la sapienza è come la parola di Dio. E dopo tutto
l'elogio della sapienza, leggiamo al v. 22:«Tutto questo è il libro dell'alleanza del Dio altissimo, / la legge che ci ha imposto Mosè, / l'eredità delle assemblee di Giacobbe».
È la Torah. La sapienza personificata è
identificata con la Torah che vive in mezzo al popolo di Israele.
Diverso è il pensiero di Pietro che, dopo
aver affermato: «La parola di Dio rimane in eterno», aggiunge: «E questa è
la parola del Vangelo che vi è stata annunziata». La Parola è quella del
Vangelo, la parola di Gesù. Anzi potremmo dire andando oltre, come
l'evangelista Giovanni, che questa parola è Gesù: in principio era la
Parola, la Parola era presso Dio, la Parola era Dio, la Parola ha abitato tra
noi (cfr. Gv l, 1. 14).
La pagina della 1 Pt esprime in maniera
fortissima la coscienza che il cristiano dipende dalla Parola, da essa è
generato e rigenerato.
* Per la meditatio vi offro qualche
pensiero, rispondendo alla domanda: qual è l'esperienza spirituale profonda che
Pietro esprime? È l'esperienza dei primi cristiani di dovere la vita alla
Parola del Vangelo.
La Parola genera alla fede (san Paolo
l'ha espresso in maniera molto forte in 1 Cor 4,15: «Vi ho generato in
Cristo Gesù, mediante il Vangelo») e rigenera. Noi sperimentiamo
infatti che, quando siamo smarriti o stanchi o turbati o confusi, e prendiamo in
mano la parola di Dio, essa ha una forza potente, ci rischiara, ci illumina, ci
rigenera; quando entriamo in momenti di stanchezza, di aridità, di buio, di
notte dello spirito, è sempre la Parola che ricostruisce in noi la fede e la
speranza.
A che cosa corrispondono le parole di Pietro
nella nostra esperienza spirituale? A quella che è stata una fondamentale
acquisizione del Concilio Vaticano II, espressa nella Dei Verbum al c.
VI, e che diventa esortazione ai fedeli: «Il Santo Sinodo esorta con ardore e
insistenza tutti i fedeli (...) ad apprendere la "sublime scienza di Gesù
Cristo" (Fil 3, 8) con la frequente lettura delle divine Scritture.
"L'ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo". (...)
Si ricordino però che la lettura della sacra Scrittura dev'essere accompagnata
dalla preghiera, affinché possa svolgersi il colloquio tra Dio e l'uomo;
poiché "quando preghiamo, parliamo con lui; lui ascoltiamo quando leggiamo
gli oracoli divini"» (n. 25).
Dunque i cristiani devono giungere a una
familiarità orante con la parola di Dio. È la convinzione del primato della
Parola nella Chiesa, che forse per alcuni secoli è rimasto un po' oscurato e
oggi è stato riscoperto.
Vi confesso che come Vescovo per 22 anni e
mezzo della diocesi di Milano ho avuto a cuore una sola preoccupazione:
rispondere all' esortazione della Dei Verbum, aiutando la gente a
rendersi familiare con la parola di Dio e a pregare a partire da essa. È un
programma pastorale che comporta il contatto con i giovani, con le parrocchie,
con la gente semplice, con le persone di cultura, con gli stessi non credenti,
perché tutti e ognuno di noi sentono il fascino della Parola. Tante volte ho
detto, ai giovani in particolare: quando, trovandoti davanti a una parola del
Vangelo, riconoscerai, per intuizione tua, che parla di te, anzi che
parla a te, avrai scoperto il tesoro della parola di Dio.
In proposito vi leggo un pensiero di Giuseppe
Dossetti, fondatore di una comunità monastica, e lo traggo da una raccolta di
suoi scritti, molto incisivi, dal titolo La parola di Dio seme di vita e di
fede incorruttibile: «La parola di Dio, secondo il c. 1 della prima
lettera di Pietro, è il seme, la semenza incorruttibile che genera e conserva e
fa crescere il cristiano e l'intero popolo dei fedeli, la Chiesa.
Per Pietro, come per tutto il Nuovo
testamento, l'unica forza generante, l'unico seme di vita nuova per sé
incorruttibile, è la parola del Signore. Ogni altra parola, ogni altra
mediazione culturale e persino ogni mediazione teologica, - anche se in certe
fasi della vicenda di un uomo, di una comunità o di una generazione può essere
utile e, in certa misura e a certe condizioni, può apparire persino necessaria
non è propriamente generale e creatrice e incorruttibile nel senso assoluto in
cui solo la sperma (seme) della parola di Dio è incorruttibile».
Noi preferiamo a volte nutrirci di parole che
non sono quelle della Scrittura, pur se le riflettono. Ma se vogliamo davvero
rigenerarci, dobbiamo prendere contatto con la Parola viva che è Cristo e che
è contenuta nell'Eucaristia e nella Bibbia.
Ancora Dossetti: «Ogni altra parola, staccata
o che prevalga sulla parola di Dio, presto si isterilisce, perde la sua forza
generante, si fissa in una sterilità piena e si corrompe».
Questo accade quando per esempio noi vogliamo
sostituire alla Parola dei principi psicologici o teologici o fenomenologici o
filosofici; danno entusiasmo per un certo tempo, ma poi si isteriliscono e
vengono meno.
Solo la Parola dell'Eterno rimane. È un principio
e fondamento espresso assai bene nella pagina della 1 Pt.
Siamo allora invitati a esaminarci
severamente: la parola di Dio è all' origine e alla sorgente della nostra vita
interiore? O invece preferiamo parole più facili, più accessibili, e che non
hanno carattere incorruttibile ed eterno?
O Signore, fa, che non passi giorno senza
che meditiamo un testo della Scrittura e donaci di insegnare a molti a trovare
consolazione e speranza nelle pagine del tuo Libro santo.
Un ultimo principio e fondamento secondo
la 1 Pt si trova nel c. 2, vv.
4-5.9-10.
In questi versetti le metafore sono talmente
numerose e intrecciate l'una nell' altra che non è facile spiegarle e coglierle
in unità. La lettera si sta di fatto rivelando come una grande fontana di un
bellissimo giardino, che si moltiplica in innumerevoli zampilli, per cui non si
riesce a capire esattamente da dove venga l'acqua, perché tutto è ricco di
getti e di sorgenti.
* Consideriamo una prima serie di metafore (vv.
4-5):
«Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata
dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati
come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio
santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù
Cristo».
- Anzitutto Gesù è pietra viva:
Pietro sottolinea la fondamentale coscienza del cristiano, il principio e
fondamento che la pietra, la roccia solidissima è Cristo.
Potremmo dire: come il popolo ebraico si è
costituito intorno al Sinai, così il popolo cristiano si costituisce attorno a
Gesù. E noi ci stringiamo a lui. Il greco ha proserchomenoi: lo seguiamo
da discepoli, ci mettiamo sulla sua via e diventiamo noi pure pietra viva come
lui.
- Dalla metafora della pietra si passa a
quella dell’edificio: voi siete «pietre vive per la costruzione di un
edificio spirituale», potremmo dire un edificio costruito e abitato dallo
Spirito santo. Gli esegeti discutono se l'edificio spirituale è il tempio, un
nuovo tempio, oppure una casa, la casa di Dio nella quale trova rifugio
l'umanità. In ogni caso è chiaro che il termine «spirituale» non significa
un edificio invisibile, ma un edificio che è dimora dello Spirito.
- La terza metafora - siete «un sacerdozio
santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio» - sta a dire che
allo stesso modo in cui il popolo eletto offriva sacrifici nel tempio, il nuovo
popolo di Dio offre sacrifici spirituali.
Anche Paolo scrive in Rm
12, 1-2:
«Vi esorto dunque, fratelli, per la
misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e
gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla
mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per
poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e
perfetto».
La nostra vita, la nostra quotidianità, il
nostro corpo, sono il vero sacrificio che si unisce a quello di Gesù. .
La vera dignità del cristiano è di essere un
solo edificio con Gesù, essere il sacerdozio santo che offre il sacrificio
della propria vita.
Pietro approfondisce i suoi pensieri ai vv.
9-10, dove troviamo un' altra cascata di
metafore con cui riprende le prerogative del popolo di Dio, per applicarle alle
comunità cristiane a cui scrive:
«Ma voi siete la stirpe eletta, il
sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché
proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla
sua ammirabile luce; voi, che un tempo eravate non-popolo, ora invece siete il
popolo di Dio; voi, un tempo esclusi dalla misericordia, ora invece avete
ottenuto misericordia».
«Stirpe eletta», una nazione scelta da Dio
per un compito speciale; «sacerdozio regale», un popolo sacerdotale che regna
sul mondo e offre a Dio il mondo in sacrificio; «nazione santa», una nazione
che partecipa della santità di Dio; «popolo che Dio si è acquistato perché
proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua
ammirabile luce». Sono evidenti i rimandi al testo di Esodo
19, 5-6:
«Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e
custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli,
perché mia è tutta la terra. Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una
nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti».
E ancora: «Voi che un tempo eravate
non-popolo, ora invece siete il popolo di Dio; voi, un tempo esclusi dalla
misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia». Molto chiari in questo v.
10 i riferimenti al libro di Osea:
«Dopo aver divezzato Non-amata, Gomer
concepì e partorì un figlio. E il Signore disse a Osea: / "Chiamalo
Non-mio-popolo, / perché voi non siete mio popolo / e io non esisto per
voi"» (1, 8-9); «Dite ai vostri fratelli: "Popolo mio" /
e alle vostre sorelle "Amata"» (2, 3); «lo li seminerò di
nuovo per me nel paese / e amerò Non Amata; / e a Non-miopopolo dirò: Popolo
mio, / ed egli mi dirà: Mio Dio» (v. 25).
Lascio a voi di scoprire e gustare le altre
numerose e preziose assonanze con pagine del Primo Testamento.
Con questa ricchissima collezione di metafore
Pietro assicura a comunità povere, disperse e disprezzate che sono l'opera di
Dio nel mondo, il suo disegno che si realizza, il faro che illumina la storia.
* Dopo la lectio del testo, segnalo
alcune piste di meditatio.
- Quale esperienza spirituale suppone in
Pietro e nei primi cristiani questa serie di parole così alte?
A mio avviso suppone una duplice esperienza.
La prima è quella della solidità di Cristo,
che è la pietra, la sola realtà veramente stabile, il centro della storia
umana.
La seconda è quella che dall' essere
irremovibili in Gesù, fondati su di lui e con lui solidali, deriva l'essere
solidali tra loro, l'essere un unico popolo, comunità, unita indissolubilmente
in Cristo, capace di affrontare la storia oscura e difficile in cui è inserita.
- E come risuona in noi questo principio
fondamentale?
Dovrebbe risuonare come coscienza di essere
tutti un popolo identificato con Gesù.
Di fatto la coscienza di Chiesa è spesso
molto scarsa. Si ha una religiosità individuale, si compie una ricerca
personale di Gesù e tuttavia manca il senso di Chiesa. E d'altra parte è
normale che sia così, perché lo si acquista gradualmente, crescendo in essa,
sacrificandosi e pagando di persona.
È più facile vivere il senso di appartenenza
in una
comunità religiosa. È più difficile
riferirlo alla Chiesa come tale. Notiamo infatti una presenza di individualismo
di gruppo, magari anche religioso, che non è vero e proprio sensus
Ecclesiae.
Posso dire sinceramente che nella mia
esperienza ho vissuto da gesuita, fino all'età di 53 anni, la solidarietà
soprattutto con la Compagnia di Gesù. Quando sono diventato Vescovo, ho allora
capito che cos'è la solidarietà con la Chiesa, con una comunità universale.
In essa la mia appartenenza alla Compagnia di Gesù mi inseriva fortemente, in
quanto ne era una specificazione concreta.
Proviamo a chiederci: esiste negli Esercizi
il senso ecclesiale?
Come sappiamo, sant'Ignazio si preoccupa
dell'uomo singolo, del suo cammino di conversione e della sua spiritualità. Ma
certamente li vede sempre inseriti nella Chiesa. Non a caso il libro degli Esercizi
termina con alcune Regole «per il vero criterio che dobbiamo avere nella
Chiesa militante», di cui leggiamo la prima: «Messo da parte ogni giudizio,
dobbiamo avere l'animo disposto e pronto a obbedire in. tutto alla vera sposa di
Cristo nostro Signore che è la nostra santa madre Chiesa gerarchica» (n.
353).
L'appartenenza a Gesù, che in Ignazio era
fortissima, gli permetteva di vivere il principio e fondamento dell'appartenenza
alla Chiesa in maniera esemplare.
Siamo chiamati ad approfondire il nostro
inserimento nel popolo cristiano come grazia grande, fondamentale e da cui tutte
le altre derivano; l'essere il popolo di Dio, il vivere l'esperienza di Chiesa,
sono realtà da stimare al di sopra di ogni altro bene.
Ti ringraziamo, Signore, perché ci hai
chiamato a far parte dell’ unica Chiesa. Ti affidiamo questa Chiesa che
amiamo, la Chiesa del tuo Figlio Gesù, l’identità nostra con Gesù diventata
comunione di fede e di amore. Proteggila, salvala e difendila. Rendila perfetta
nell’unità} perché proclami le tue grandi opere e faccia conoscere al mondo
il tuo amore per l’ umanità.
Incominciamo recitando i primi versetti del salmo De
profundis:
«Dal profondo a te grido, o Signore; / Signore, ascolta la
mia voce. / Siano i tuoi orecchi attenti / alla voce della mia preghiera. / Se
consideri le colpe, Signore, / Signore, chi potrà sussistere? / Ma presso di te
è il perdono: / e avremo il tuo timore. / lo spero nel Signore, / l'anima mia
spera nella sua parola» (Sal 130, 1-5).
O Signore, ciascuno di noi grida a te dal
profondo. Tu solo conosci il nostro cuore, tu solo conosci le caverne interiori
nelle quali ancora si annidano i serpenti e i veleni. Non vediamo il nostro
interno fino in fondo, ma tu lo scruti e puoi guarirlo, medicarlo, confortarlo.
Gridiamo a te, o Signore, per essere purificati e consolati in un cammino
penitenziale che ci porti a quella sovrabbondanza di pace che l'apostolo Pietro
augurava all'inizio della sua lettera. Ti chiediamo di guidarci verso le nostre
profondità, perché non ci spaventiamo, ma ci lasciamo illuminare e risanare da
te, che sei Dio e vivi con il Padre e lo Spirito santo per i secoli dei secoli.
Amen.
Con questa meditazione ci inoltriamo nel cammino
penitenziale, secondo il processo dinamico degli Esercizi spirituali che,
dopo il Principio e fondamento, fa percorrere la via della penitenza e
della conversione, attraverso la cosiddetta Prima settimana, che di solito si
conclude con la confessione sacramentale.
Abbiamo fin qui raccolto, come Davide, sei ciotoli dal
torrente, sei piccole pietre che costituiscono il principio e fondamento della
1 Pt. Sono: la coscienza battesimale, la coscienza escatologica
(della speranza eterna a cui Dio ci ha chiamati), la coscienza della gioia nella
sofferenza, la coscienza messianica (tutta la storia della salvezza è per noi),
la coscienza della nostra origine dalla Parola (generati da un seme
incorruttibile che è la parola di Dio viva ed eterna) e la coscienza
cristologica ed ecclesiale di essere uno con la roccia che è Cristo nella
solidarietà della Chiesa.
I sei sassolini sono il punto di partenza e corrispondono al Principio
e fondamento degli Esercizi ignaziani.
Ora si tratta invece di considerare l'opposto, cioè
le forze distruttive, che cercano di corrodere, di limare, di far tremare, di
soppiantare e sconquassare l'edificio costruito dalla grazia di Dio.
È una settimana dedicata appunto alla purificazione, a
consolidare il cammino di conversione, a promuovere il cambiamento di vita, a
favorire la guarigione délle ferite più gravi presenti in noi, a suscitare un
certo disgusto del passato, della mediocrità, della tiepidezza, della
frigidità spirituale nella quale spesso viviamo.
Desidero leggere il n. 63 degli Esercizi, che
ritengo molto importante, là dove Ignazio fa chiedere alla Madonna di ottenerci
da Gesù tre grazie.
La prima: che io «senta profonda cognizione dei miei peccati
e disgusto per gli stessi». È la grazia tipica della conversione dal peccato,
in quanto rovina la mia vita, rovina il piano di Dio, offende il Padre, lacera
la comunità.
La seconda è la grazia di sentire «il disordine delle mie
attività in modo tale che, detestandolo, mi corregga e mi ordini». Ignazio
suppone che oltre ai peccati formali, c'è un disordine nel nostro agire,
pensare, intendere, volere, disordine che spesso non conosciamo, e tuttavia vi
siamo immersi. Si va più al fondo del peccato, si scopre un disordine in cui,
pur non essendoci carenze evidenti, c'è una situazione di insieme che non
corrisponde alla volontà di Dio.
La terza grazia: «Chiedere la conoscenza del mondo perché,
detestandolo, allontani da me le cose mondane e vane». Anche una vita
abbastanza buona può essere implicata in qualcosa che non è né peccato
mortale né veniale e neppure disordine, bensì un insieme di vanità, di sogni,
di tensioni affettive che ci coinvolgono con i principi, i modi di agire del
mondo e ci impediscono di vivere secondo Cristo.
Il percorso è certamente lungo, appunto perché si tratta
non 'solo di conoscere e detestare i peccati mortali e veniali. Occorre aborrire
il disordine delle nostre azioni, della nostra vita - può essere pure il
disordine materiale o magari dell' orario, del modo di vivere, di andare a
dormire, di alzarsi, di studiare, di pregare affidandosi all'umore del momento
-; e rifiutare la mondanità, ossia tutto ciò che ci rende conniventi con i
principi di questo mondo che non onora Dio come Padre e non onora la dignità
umana anche nei più poveri.
Questo è lo scopo della Prima settimana degli Esercizi.
Il cammino penitenziale ignaziano ha il suo riscontro nella 1
Pt ? Di per sé la risposta dovrebbe essere negativa, perché la
lettera lo suppone compiuto e si riferisce a uno stadio ulteriore. Non presenta
perciò un itinerario di purificazione preciso, come lo troviamo nei primi 7
capitoli della lettera di Paolo ai Romani, dove si delinea un puntuale percorso
penitenziale e .si avverte tutta la forza distruttiva del peccato.
Tuttavia nella 1 Pt troviamo dei frammenti, degli
accenni al cammino già fatto. Mi propongo di sottolinearli e di sottoporli alla
meditazione personale di ciascuno di voi.
Ma proprio perché l'epistola non contiene una trattazione
sistematica della purificazione, mi riferirò anzitutto al vangelo di Marco.
L'evangelista Marco nei vv. 21-23 del c. 7,
ci offre probabilmente una sintesi dell'insegnamento morale che veniva impartito
al catecumeno, una lista di atteggiamenti negativi incompatibili col messaggio
cristiano, che il catecumeno era invitato a riconoscere e a fuggire.
Parlando del puro e dell'impuro, un concetto fondamentale per
gli ebrei, Gesù dice: l'impurità non viene dal toccare, dal mangiare, dall'
avere relazione con certe realtà, ma viene dal cuore, nasce dal di dentro:
«Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni
cattive» (7, 21a),
dialogismoì kakoì, cioè coinvolgimenti negativi della psicologia, della
personalità umana.
Enumera successivamente i principali vizi, le principali
oscurità del cuore umano e sono dodici: «fornicazioni, furti, omicidi,
adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia,
superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e
contaminano l'uomo» (vv. 21b-23).
Non abbiamo tempo di approfondire l'esame dei dodici
atteggiamenti e sarebbe molto importante che ciascuno di voi lo facesse
personalmente. Da parte mia vorrei limitarmi a due o tre riflessioni, a partire
dall'osservazione che questi atteggiamenti cominciano dai più visibili, più
macroscopici, più ripugnanti, e arrivano ai più nascosti.
I primi tre - fornicazioni,
furti, omicidi - si possono vedere al di fuori, sono peccati molto palesi
che appaiono chiaramente come distruttivi della società e rompono il consorzio
umano.
Seguono altri tre più interiori, più sottili e spesso
nascosti: adultèri, cupidigie (cioè avarizia, golosità che rendono
disordinato il cuore e il corpo) e malvagità.
La terza triade esprime anch' essa comportamenti molto
concreti: inganno, impudicizia - soprattutto il non controllare la sensualità
-, invidia. Tutti peccati un po' invisibili e conosciuti soltanto dalla persona
che li compie.
Ancora più interiori, sottili e distruttivi sono poi la
calunnia, che purtroppo percorre le nostre città e certe volte le comunità
cristiane; la superbia, cioè il credersi un padre eterno; la stoltezza che
trova una sua espressione tipica nell' accumulare tanti lavori e impegni, magari
buoni, senza però alcun riferimento a Dio.
Non dimentichiamo che ciascuno di noi ha dentro di sé questi
atteggiamenti, che nelle caverne profonde del nostro cuore si nascondono tali
tensioni e inclinazioni. Spesso, grazie a Dio, riusciamo a tenerle a bada,
talora ruggiscono dentro, si agitano e cercano di travolgerci. Lo comprenderemo
meglio leggendo i passi della 1 Pt.
Con l'insegnamento proposto al catecumeno e presupposto a
ogni percorso di conversione dobbiamo sempre confrontarci, sapendo di essere a
rischio. Il salmo 130 che abbiamo ricordato all'inizio della meditazione
è davvero la preghiera che facciamo nostra. «Dal profondo a te grido, o
Signore; / Signore, ascolta la mia voce... Se consideri le colpe, Signore, /
Signore chi potrà sussistere?».
Riflettiamo ora su alcuni dei frammenti penitenziali che si
trovano qua e là nella 1 Pt e documentano come ogni epistola
corrisponda alle esperienze di una comunità, che vive dei momenti di richiamo
alla conversione.
Ci sono anzitutto frammenti che rispondono alla domanda: che
cosa c'è dentro di noi? Da che cosa dobbiamo guardarci? Altri - li
considereremo nella successiva meditazione - ci illuminano su che cosa c'è
intorno a noi, nel nostro mondo, nel nostro ambiente che ci induce al peccato.
* Cominciamo coi primi versetti del c. 4, che ci danno
una immagine plastica della vita di quel tempo, di come fa gente viveva
tranquillamente il paganesimo, soprattutto nelle grandi feste, quando si
lasciava andare e poteva capitare, di giorno e di notte, un po' di tutto.
«Poiché dunque Cristo soffrì nella carne, anche voi
armatevi degli stessi sentimenti; chi ha sofferto nel suo corpo ha rotto
definitivamente col peccato, per non servire più alle passioni umane, ma alla
volontà di Dio, nel tempo che gli rimane in questa vita mortale. Basta col
tempo trascorso nelle dissolutezze, nelle passioni, nelle crapule, nei bagordi,
nelle ubriachezze e nel culto illecito degli idoli. Per questo trovano strano
che voi non corriate insieme con loro verso questo torrente di perdizione e vi
oltraggiano» (4, 1-4).
- «Poiché dunque Cristo soffrì nella carne, anche voi
armatevi degli stessi sentimenti. Chi ha sofferto nel suo corpo ha rotto
definitivamente col peccato» (v. 1). È un versetto di difficile
interpretazione e probabilmente si riferisce non a Cristo, ma al cristiano che,
avendo accettato di soffrire per Cristo, con ciò stesso ha rotto col peccato.
- «Per non servire più alle passioni umane» (v. 2).
La vita del pagano viene definita un servire alle passioni umane. Passioni
efficacemente richiamate dall' evangelista Marco, là dove spiega la parabola
del seminatore:
«Altri sono quelli che ricevono il seme tra le spine: sono
coloro che hanno ascoltato la Parola, ma sopraggiungono le preoccupazioni del
mondo e l'inganno della ricchezza e tutte le altre bramosie, soffocano la Parola
e questa rimane senza frutto (4, 18-19).
Queste passioni a cui non dobbiamo più servire sono non
semplicemente i peccati, bensì le preoccupazioni eccessive, la bramosia di
mettersi in mostra, di fare bella figura; e ancora l'inganno delle ricchezze, la
persuasione che più uno è ricco, più ha potere e può aiutare meglio gli
altri.
Da tali passioni Pietro ci invita a guardarci.
- Successivamente insiste: «Basta col tempo trascorso nel
soddisfare le passioni del paganesimo». Il testo greco recita: «la volontà
del paganesimo», che dunque ha una sua logica, un suo modo di volere e di agire
che pretende imporre alla gente, ed è descritto così: «vivendo nelle dissolutezze,
nelle passioni, nelle crapule, nei bagordi, nelle ubriachezze
e nel culto illecito degli idoli» (v. 3).
Siamo di fronte a sei forme di comportamento: dissolutezze (asélgeiai),
cioè il lasciarsi andare anche dal punto di vista del contegno, del dominio
di sé; le passioni, i desideri ardenti per tutto ciò che soddisfa il corpo e
la carne; le crapule, termine che traduce oinophlygìa, quella sensazione
di prima confusione che viene dal cominciare a bere un po' troppo e a poco a
poco non si è più del tutto padroni di sé. Seguono i bagordi, il mangiare e
bere a sazietà nei banchetti; e si arriva alle ubriachezze, quando non si
capisce più nulla e si fa qualunque cosa. E Pietro conclude la sua lista con il
culto illecito e infame degli idoli.
Sappiamo bene che purtroppo anche oggi piace molto alla
gente, soprattutto in Occidente, trascorrere notti intere nei bagordi facendo
uso di alcolici e di droga, fino a non capire più nulla; a quel punto tutto
diventa lecito, tutto è possibile.
È una tentazione che ci tocca certamente da vicino, e anzi
oggi possiamo partecipare a queste feste degradanti addirittura in maniera
virtuale. È molto facile, stando in camera, senza che nessuno lo sappia, vedere
programmi notturni televisivi o navigare in Internet cercando siti dove
facilmente si raggiungono i limiti estremi dell'indecenza, della pornografia,
prendendo parte in incognito a quei festini dei pagani a cui non oseremmo
partecipare pubblicamente.
Il testo di Pietro è dunque molto attuale e ci invita a
esaminarci sui pericoli della televisione, di Internet, del cinema, degli
spettacoli, e pure su quelle festicciole che facilmente possono degenerare.
- È interessante il v. 4: «Per
questo trovano strano che voi non corriate insieme con loro verso questo
torrente di perdizione e vi oltraggiano». Ci oltraggiano i nostri amici, ci
prendono in giro per il fatto che non conosciamo i programmi pornografici e
vogliono convincerci ad andare con loro e a vivere secondo la moda e la morale
corrente.
La pericopa di Pietro che abbiamo esaminato riguarda fin qui
dei comportamenti che chiamiamo pagani, esterni.
* La lettera inoltre denuncia atteggiamenti interni alla
comunità, dove, pur non essendoci depravazione e degrado, ci sono tuttavia
delle ferite dolorose.
- Sono sottolineati anzitutto in 2) 1, là dove dice:
«Deposta dunque ogni malizia e ogni frode e ipocrisia, le
gelosie e ogni maldicenza».
Cinque comportamenti distruttivi della vita di comunità, di
comunità magari buone. In parte li abbiamo trovati nell' elenco di Marco e in
parte sono nuovi.
Malizia (kakìa) è il gusto di far penare un altro,
il gusto che l'altro sia umiliato, il voler male agli altri gratuitamente. È
qualcosa che ferisce profondamente il cuore.
Frode (dòlos) è mostrare agli altri ciò che non è,
il costruirsi una maschera senza presentarsi nella propria autenticità.
L'ipocrisia (ypòkrisis) va nella stessa linea:
fingere, per esempio, di pregare, di avere una profonda vita spirituale, e
pensare in realtà a tutt'altro.
Le gelosie (phthònoi) sono tipiche di ogni vita di comunità: quel
tale è più servito di me, trattato meglio di me, i superiori lo preferiscono,
hanno dato questo a lui e non a me.
Maldicenza (katalalià) è il dire male degli altri,
lasciando cadere, magari in modo apparentemente casuale, parole di denigrazione
o insinuazioni negative.
Tutti atteggiamenti presenti nella comunità di Pietro di 2000 anni fa. E noi
siamo sottoposti alle stesse difficoltà.
Molto bello il rimedio che Pietro suggerisce:
«Come bambini appena nati bramate il puro latte spirituale,
per crescere con esso verso la salvezza: se davvero avete già gustato come
è buono il Signore» (2, 2-3).
Il latte spirituale è la parola di Dio e l'apostolo è
convinto, che quando ci nutriamo di essa, scompaiono, vinte dalla sua forza,
quelle ferite dolorose capaci di logorare la vita comunitaria.
- C'è un altro versetto che accenna al cammino penitenziale:«Carissimi, io vi esorto come stranieri e pellegrini ad astenervi dai desideri della carne che fanno guerra all'anima» (2, 11).
Notiamo subito che l'espressione «stranieri e pellegrini»
non ha più ormai un significato soltanto sociologico (abitate senza pieni
diritti di cittadinanza); sono stranieri e pellegrini rispetto al cielo, alla
vita eterna, sono persone che hanno la patria in cielo, hanno quella coscienza
escatologica di cui abbiamo a lungo parlato. E sono invitati ad astenersi dai
desideri della carne.
Tali desideri si chiamano con un termine moderno autoreferenzialità:
riferire tutto a se stesso, mettersi al centro e giudicare sempre in
relazione ai propri interessi personali.
In proposito c'è un'immagine straordinaria nel vangelo di Luca:«C'era là una donna che aveva da diciotto anni uno spirito che la teneva inferma; era curva e non poteva drizzarsi in nessun modo» (13, 11).
L'autoreferenzialità è essere curvi così da preoccuparsi
soltanto di sé, della propria fama, della propria salute, del proprio avvenire,
il non alzare mai gli occhi verso orizzonti più vasti, né verso gli altri, né
verso la Chiesa di Dio, né verso l'umanità. La carne è la tendenza per la
quale noi assumiamo la nostra comodità come legge suprema.
E ciò «fa guerra all'anima», come conclude Pietro nel v.
11, perché l'anima tende ad alzare lo sguardo, a guardare verso Dio, verso
gli altri, verso il cielo.
È l'esortazione a non lasciarsi imprigionare dalla chiusura
su se stessi, peccato che certo guasta decisamente la vita delle comunità.
- L'ultimo atteggiamento negativo lo leggiamo nel frammento
di catechesi penitenziale del c. 2 al v. 16: «Comportatevi come
uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la
malizia, ma come servitori di Dio».
Qui comprendiamo che persino la libertà, dono
bellissimo di Cristo, può essere
strumentalizzata e diventare presunzione.
Per esempio, chi ha un atteggiamento critico che gli viene da
una cultura superiore può essere portato a disprezzare gli altri e ad assumere,
in nome della libertà derivante dalla fede, atteggiamenti indipendenti,
completamente svincolati da ogni ordine umano e divino. La libertà può
diventare un velo per coprire la malizia e l'incredulità.
E sotto la categoria di una libertà che copre la malizia
possiamo collocare non pochi aspetti della cosiddetta contestazione verificatasi
dopo il Concilio Vaticano II negli anni Sessanta-Settanta. In essa si affermavano
dei giusti valori - povertà, autenticità... -, e tuttavia in
questo modo si coprivano spesso, sotto pretesto di libertà, i propri comodi e
la pretesa di sciogliersi da qualunque pur giusta dipendenza.
Avviandoci alla contemplazione, possiamo ispirarci al vangelo
di Giovanni (1,29), là dove il Battista indica Gesù dicendo: «Ecco
colui che toglie il peccato del mondo».
E diciamo:
Signore, tu conosci il fondo del mio cuore. Tu solo conosci
la malizia che c’è in me. Aiutami a riconoscerla, a pentirmene, ad emendarmi.
Aiuta a superarmi con la tua grazia invincibile e gloriosa, perché la vittoria
della fede vince tutte le malvagità e tutti i degradi del mondo, ed è capace
di superare ogni malizia e ogni ferita prodotta dalla cattiveria umana.
A questo punto la preghiera tende a diventare contemplazione,
cioè il momento passivo dell'intimità col Signore. Ed è importante, perché
soltanto a livello di tale intimità noi cominciamo a conoscere il mistero di
Dio nell' esperienza, nel cuore e non soltanto con l'intelletto.
Donaci, Gesù, di contemplarti con uno sguardo umile e
semplice, che è risposta alla Parola che abbiamo meditato.
Procedendo nel cammino penitenziale, è opportuno tenere
presente la prima lettera di Giovanni, là dove dice:
«Non amate né il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama
il mondo, l'amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel
mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia
della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo. E il mondo passa con la sua
concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!» (2, 15-17).
Signore Gesù, sappiamo che le profondità del male che è
in noi hanno delle connivenze, degli alleati all'esterno, nel modo di pensare,
di giudicare, di valutare proprio del nostro tempo, della cultura dominante: il
gusto del potere, del successo, del denaro, del piacere, della potenza, del
dominio, della crudeltà, dello schiacciamento degli altri.
Tu vedi, o Signore, che tutto ciò ci circonda, ci tenta, ci
inficia e ci contagia. Donaci occhi limpidi per vedere quanto intorno a noi non
è secondo il Vangelo e per operare nel senso del Discorso della montagna, delle
beatitudini, così da attraversare le difficoltà di questo mondo illuminati
dalla tua volontà e dal tuo amore, per conoscere ciò che ti è gradito e
respingere ciò che invece è contro la verità dell’ uomo e del suo destino,
Te lo chiediamo, o Padre, per intercessione di Maria e
di Ignazio di Lodola, nel desiderio che la tua grazia ci assista in questo
momento di preghiera e sempre.
La Prima settimana degli Esercizi ~ lo abbiamo già
detto - ci sollecita a riflettere non semplicemente sui peccati che sono dentro
di noi, sulle nostre passioni e inclinazioni cattive, ma pure sullo spirito
mondano, su tutto ciò che è contrario al Vangelo e spesso è invece modo di
agire, di pensare, di giudicare, che ci coinvolge in qualche modo, ci prende
dentro come una malattia contagiosa.
Ho pensato allora di leggere altri due brani della lettera di
Pietro, che mettono in luce queste realtà, sia direttamente sia facendole
risaltare per contrasto attraverso la descrizione del positivo.
Vorrei poi accennare alla confessione sacramentale, che
Ignazio prevede per il momento penitenziale degli esercizi.
Leggo un primo brano della lettera:
«Onore dunque a voi che credete; ma per gli increduli / la
pietra che i costruttori hanno scartato / è divenuta la pietra angolare,
/ sasso d’inciampo e pietra di scandalo. / Loro v'inciampano
perché non credono alla Parola; a questo sono stati destinati» (2, 7-8).
Parole terribili, le quali indicano che Gesù è pietra di
costruzione per il tempio spirituale, per la casa di Dio, per coloro che credono
in lui; mentre per chi non crede è fonte di distruzione e di rovina.
Si impone allora una riflessione sull' incredulità, che
è attorno a noi e dentro di noi.
Quando ero Arcivescovo di Milano, ero solito proporre ogni
anno la cosiddetta Cattedra dei non credenti, dove invitavo i non
credenti a esporre le loro ragioni. L'iniziativa nasceva dall'intuizione, che ho
trovata espressa in un apologo rabbinico e ripresa poi dal Cardinale Ratzinger
nel libro Introduzione alla fede, che in ciascuno di noi convive un
credente e un non credente.
Narra l'apologo che un non credente espone a un rabbino degli
argomenti contro l'esistenza di Dio, contro la fede. Il rabbino ascolta in
silenzio e alla fine si limita a rispondere: forse è vero.
C'è dentro di noi un credente e un incredulo. Quando
crediamo, diamo voce al primo, ascoltiamo i suoi argomenti, gli riconosciamo il
diritto a esprimersi. Tuttavia rimane il non credente, con i suoi «ma», i suoi
«se», i suoi «forse»; è difficile sradicarlo e non lo sradichiamo mai
completamente.
D'altra parte anche il non credente ha un credente dentro di
sé, che non lo lascia in pace e gli porta motivazioni che distruggono le
certezze su cui si fonda.
Il credente che è in noi trova alleati nella parola di Dio,
nell' ambito della Chiesa, in un' atmosfera di fede, di comunità cristiana,
parrocchiale; il non credente che è in noi ha i suoi alleati soprattutto nel
clima attuale di carenza di fede e di speranza.
Per Pietro, che si riferisce al suo tempo, gli increduli sono
coloro che rifiutano Gesù come Messia, che non accettano la sua parola quale
parola di Dio definitiva per l'uomo.
Il quadro per noi è ben più vasto: è l'incredulità in
genere che rifiuta Gesù e la sua missione, e pure l'esistenza stessa di Dio,
del mondo soprannaturale, della vita eterna. La terrenità è la tentazione
primaria della nostra epoca e l'offuscarsi della fede, e di conseguenza della
speranza nella vita eterna, è la più grande prova della Chiesa e del mondo
occidentale.
Nell'Occidente non è di moda professare la fede. Si può
credere privatamente, interiormente, ma non è di buon gusto proclamare
apertamente il proprio credo. Gli ambiti pubblici - la televisione, il tempo
libero, il tempo del divertimento e dello spettacolo, l'opinione politica -
prescindono totalmente da un orizzonte di fede. Chi deve vivere in questi
ambienti è perciò sempre tentato di ascoltare l'incredulo che è in lui. E chi
crede si sente un po' fuori tempo, isolato, «disperso» (cfr. 1 Pt 1, 1)
in mezzo a un mare di incredulità.
Pur se non è vero che l'Occidente è completamente
secolarizzato, ci sono per esempio regioni d'Europa dove la fede va declinando
in maniera paurosa. Vi do due esempi concreti. Una statistica elaborata da una
Chiesa molto attenta nei suoi calcoli, la Chiesa Evangelica tedesca, ci informa
che negli ultimi dieci anni due milioni e mezzo di persone hanno rotto
completamente con la fede. È la segnalazione di un trend, una linea di
tendenza dolorosa e assai grave.
Un secondo esempio. Un sacerdote tedesco, padre spirituale in
un seminario, che ha celebrato pochi anni fa i suoi 50 anni di Messa, ha
affermato: in questi 50 anni non mi hanno sconvolto tanto né il nazismo né la
guerra, quanto l'abbandono rapido della fede da parte di tanti.
Non si tratta propriamente, a ben guardare, di incredulità
proclamata, come in certi momenti di ateismo teoretico; è piuttosto agnosticismo,
un agnosticismo benevolo.
Viene alla mente la figura di un filosofo italiano che
stimavo molto, scomparso recentemente, Norberto Bobbio. Fino all'ultimo giorno
della sua lunga vita ha ripetuto: cerco e non trovo. Rispettava il pensiero
religioso, però non arrivava a conclusioni certe, e diceva con un'immagine:
sono arrivato ai piedi dell'albero della verità, ma non sono riuscito a salirci
sopra.
L'agnosticismo odierno, questa specie di nebbia gettata sulle
verità della fede, induce a ritenere che ciascuno può pensare come vuole. Ne
deriva che alla gente va bene tutto. Verifichiamo per esempio nelle nostre
comunità una certa accettazione indifferente di fronte a casi di abbandono
della fede e, ancora più specificamente, del sacerdozio o della vita religiosa.
È venuta meno quella censura sociale che aiutava le persone a perseverare nella
fede, nella vocazione, nella vita di famiglia e nel matrimonio. Il leit-motiv
è molto semplice: ciascuno è libero di scegliere quanto gli piace e gli
sembra giusto.
E agnosticismo significa pure incredulità pratica: ammettere
Dio teoreticamente, accettare a parole alcune verità, e poi vivere come se Dio
non esistesse.
Ci vuole coraggio a credere, soprattutto oggi. Tante volte
l'incredulo che è in noi magari non si fa sentire esteriormente, però borbotta
dentro e inquieta, logora. La lotta per la fede e per la speranza è il primo
combattimento del cristiano. Le tentazioni a tale riguardo sono più forti e
più pesanti di quanto possiamo immaginare. Già san Paolo diceva: «Ho
combattuto la buona battaglia, (...) ho conservato la fede» (2 Tm
4,7). Sembra poco, ma è moltissimo: l'ha conservata, nonostante si trovasse
tra gente indifferente od ostile.
Siamo di fronte a una vera battaglia. Chi non nutre la vita
della parola di Dio che rigenera continuamente l'atto di fede, si trova
asfittico, quasi malato, convalescente, debole nel credere. Abbiamo grande
bisogno di innaffiare continuamente il cuore con la Parola della Scrittura,
così da ricostruire un orizzonte nel quale respirare a pieni polmoni.
Vale la pena sottolineare che anche nella vita monastica,
claustrale, contemplativa la fede è combattimento, non tranquilla acquisizione.
Mentre la vita pastorale, l'accompagnare altre persone nella scoperta e nel
cammino cristiano è spesso un grande aiuto, là dove manca ogni aggancio
pastorale, la domanda sulla fede diviene talora più drammatica, non come
espressione di incredulità - notiamo bene - bensì come prova.
Forse ce ne stupiamo e ne chiediamo il motivo. Una risposta
ci viene data dalla figura, emblematica nella sua eroicità, di Teresa di
Lisieux. La giovane carmelitana, vissuta cento anni or sono; tormentata dalle
domande di fede verso la fine della sua vita, entrava pienamente, dolorosamente
e atrocemente nella notte della fede e della speranza, quasi a preludio della
notte in cui stava precipitando il mondo occidentale. Teresa ha vissuto la
lacerazione di chi si sente unito a Dio, totalmente dalla sua parte, e nello
stesso tempo solidale con le angosce di chi non conosce il senso vero della
vita. È entrata, conservando intatta la sua fede, nella via della
compassione, della compartecipazione di chi crede alla sofferenza di chi non
crede.
Dobbiamo dunque essere consapevoli che, nella misura in cui
la nostra fede è ardente, prima o poi sarà certamente vagliata nel crogiuolo,
proprio per far nascere la compassione verso chi non crede.
È un punto per noi capitale da tenere presente per vivere il
nostro tempo con serietà e verità.
In questi giorni di esercizi vogliamo perciò interrogarci su
come viviamo la fede, come la nutriamo e come ne affrontiamo le difficoltà,
come preghiamo per credere e per riconoscere davanti a Dio che siamo spesso
uomini di poca fede, bisognosi del suo aiuto: 'Credo, Signore. Aiuta la mia
poca lede! Credo, Signore. Aiuta la mia incredulità! '.
E imploriamo di essere sempre sorretti, nella «buona
battaglia», dalla speranza, non solo per noi ma per il mondo nel quale siamo
immersi. Chiediamo di essere liberati dalla tentazione, - tanto
comune nei buoni cristiani e anche nei preti e nei Vescovi - di pensare che per
il nostro mondo, per Ninive non c'è speranza, che Ninive non è capace di
ascoltare la parola di Dio, non sarà capace di convertirsi. Il libro di Giona
ci mostra infatti il contrario.
Possiamo coltivare la certezza che Dio parla al cuore
dell'uomo e il cuore dell'uomo, qualunque siano le opinioni correnti, porta
sempre in sé una nostalgia della sua Parola; possiamo operare sempre sapendo
che la parola di Dio trova la sua strada nei cuori di tutti, malgrado le
resistenze, le difficoltà, l'agnosticismo e la carenza di fede.
Nutriamo sempre la speranza che la bontà misericordiosa del
Signore non cesserà mai di costruire strade di salvezza e di aprirle alla
libertà di ognuno. È la speranza che ci consente di discernere i segni della
vita capaci di sconfiggere i germi nocivi e mortali.
La seconda realtà che rende difficile l'esperienza cristiana
oggi è costituita dalla non comunicazione, dalle dialettiche che si esprimono
ed emergono nella comunità e nella società.
Viviamo non solo in un ambiente di agnosticismo e di
incredulità, ma in un ambiente di inimicizia, dove la regola è la
competitività, il superare l'altro, se possibile ingannarlo e anzi, a livello
pure macroscopico e politico, schiacciarlo. Il nostro è un mondo
drammaticamente competitivo, dove è diffuso lo spirito di superamento dell'
altro e di non accettazione del diverso, che porta a una situazione di
insofferenza e di inimicizia.
Di questo non parla direttamente Pietro - Paolo
ne parla molto a lungo ad esempio nella seconda lettera ai Corinti -.
Vi propongo così di riflettere su un brano dell'epistola
petrina che mostra la nostra situazione per contrasto, delineando l'immagine
ideale della comunità:
«E finalmente siate tutti concordi, partecipi delle gioie e
dei dolori degli altri, animati da affetto fraterno, misericordiosi, umili; non
rendete male per male, né ingiuria per ingiuria, ma, al contrario, rispondete
benedicendo; poiché a questo siete stati chiamati per avere in eredità la
benedizione.
Infatti: / Chi vuole amare la vita / e vedere
giorni felici; / trattenga la sua lingua dal male / e le sue
labbra da parole d'inganno; / eviti il male e faccia il bene, /
cerchi la pace e la segua» (3, 8-11).
È una descrizione splendida, positiva, una piccola sintesi
del Discorso della montagna. Vi possiamo leggere specularmente i pericoli della
comunità, con i difetti, i peccati che rendono invivibile l'esistenza sulla
terra e scatenano un conflitto permanente.
Rileggiamo i versetti.- «E finalmente siate tutti concordi». Ma non siamo concordi; siamo tutti discordi, la discordia regna nel mondo! Quante guerre, quanti odi razziali, etnici, politici, quante divisioni!
- «Siate partecipi delle gioie e dei dolori degli altri». E
invece prevale ed è fortissima nella gente la preoccupazione per il dolore
proprio e la dimenticanza del dolore altrui. Ho scritto recentemente un articolo
su un quotidiano italiano, partendo dalla situazione della Terra santa, dove
dicevo: è importante che ciascuno impari a vedere non solo le proprie ferite ma
anche quelle dell' altro. Se non si fa così, due persone che si sono
reciprocamente offese si combattono in nome della giustizia perché ciascuna,
guardando solo le proprie ferite, vuole ritorcere il torto ricevuto e
vendicarsi. È una regola molto comune nel mondo.
- «Animati da affetto fraterno». Ma quanta poca fraternità
c'è nel mondo e quanta inimicizia, dissensione, diffidenza, paura del diverso!
- «Misericordiosi e umili». Di fatto la misericordia è
poco diffusa nel mondo. Pensiamo ai conflitti, dalla Bosnia, all'Iraq, ai Paesi
dell'Africa, alle vicende degli ultimi anni: non c'è misericordia, non c'è
umiltà!
- Continua Pietro: «Non rendete male per male, né ingiuria
per ingiuria, ma, al contrario, rispondete benedicendo». Eppure la regola, a
volte etnica, di famiglie o di popoli, è di rendere ingiuria per ingiuria,
offesa per offesa, male per male, per difendere 1'onore della propria etnia,
della propria famiglia. Lo stesso fenomeno drammatico del terrorismo suicida
nasce di solito da qui: hanno offeso, ucciso qualcuno della mia famiglia, io mi
sacrifico, muoio per uccidere altri e così vendicarlo.
Comprendiamo dalla lettura speculare delle parole dell'
apostolo tutta la difficoltà di vivere una vera fraternità e sororità nel
nostro mondo. Esso tende continuamente a dividersi in gruppi, clan, etnie,
nazioni, partiti contrapposti gli uni agli altri, non in una lotta leale e
competitiva per il bene, ma in una contrapposizione frontale e distruttiva.
Questo richiede da noi una grande fede nel Discorso della
montagna (cfr. Mt 5-7). È un Discorso non popolare; magari è ammirato,
e però poco capito. Noi stessi, quando ci impegniamo a viverlo fino in fondo,
scopriamo che scotta le dita, perché non pensavamo fosse tanto difficile da
praticare. Tuttavia questo è il cammino di conversione che il Signore vuole da
noi.
- Pietro ne parla così: «Infatti: / Chi vuole amare la
vita / e vedere giorni felici, / trattenga la sua lingua dal male /
e le sue labbra da parole d’inganno; / eviti il male e faccia il
bene, / cerchi la pace e la segua» (3, 10-11).
Ricordiamo inoltre che, come ha detto molto bene il Papa nel
suo discorso per la Giornata della pace del 2002, non c'è pace senza giustizia,
non c'è giustizia senza perdono. Il perdono, la misericordia sono necessari al
mondo per superare i conflitti e scegliere la via della concordia. L'impegno di
accettarsi vicendevolmente coinvolge la vita di ognuno di noi, delle famiglie,
delle comunità.
Un grande problema si pone oggi all'umanità: riuscire a
convivere tra diversi sullo stesso territorio, nello stesso ambito,
rispettandosi, senza contrastarsi né distruggersi. Non si tratta soltanto di
tolleranza. Occorre piuttosto stimolarsi reciprocamente nel bene. E a livello di
differenza di religioni, bisogna aiutare gli altri a crescere nel disegno di
Dio, pur se non possiamo magari proclamare loro il Vangelo.
È infatti troppo consono all' agnosticismo contemporaneo il
dire: tu pensa come vuoi, io penso come voglio, a patto che tu non interferisca
nelle mie scelte né io nelle tue. Non basta, non è fraternità; è semplice
tolleranza, pura neutralità. Dobbiamo aiutarci a cercare il bene. E
probabilmente in periodi storici quali il nostro, di fronte a grandi movimenti
religiosi come l'Islam, tale aiuto non può sempre assumere le forme dell'
evangelizzazione diretta, perché non verrebbe accettata e compresa. Dunque, se
non si deve praticare soltanto tolleranza, è necessario attuare una mutua
stimolazione a vivere secondo le coordinate della vita che definiscono
l'esistenza autentica e sono in realtà le coordinate del Discorso della
montagna. Aiutare cioè gli altri a distaccarsi dal denaro, dal successo, dal
potere; a perdonare, a essere misericordiosi, a essere pazienti, a pregare per
chi ci perseguita.
Ritengo compito importante della comunità cristiana il
perseguire l'ideale di convivenza pacifica, armonica, promozionale che è il
vero ideale dell'umanità, ed è quello che vediamo maggiormente contrastato,
soprattutto nei luoghi di grandi sofferenze. A noi per primi è richiesto di
mostrare che è possibile vivere insieme rispettando e accettando le diversità,
prendendo parte alle gioie e ai dolori degli altri, praticando la misericordia,
non rendendo male per male e rispondendo con benedizioni a coloro che ci
maledicono.
A partire dal nostro cammino penitenziale si apre quindi un
cammino di servizio sociale e spirituale da rendere alla gente. La parola di
Pietro è indubbiamente una chiave per il ministero della Chiesa nel mondo di
oggi.
Concludo comunicandovi alcuni pensieri sulla confessione
sacramentale.
Sappiamo che dopo il Concilio Vaticano II la confessione è
entrata in una grande crisi e che da allora molte persone, compresi preti e
religiosi, hanno fortemente ridotto la frequenza al Sacramento, soprattutto nel
nord dell'Europa e dell' America.
Di questo si è discusso tante volte. Ricordo in particolare
il Sinodo sulla Riconciliazione del 1983 , a cui ho partecipato, nel quale
purtroppo non sono state accettate alcune proposte che avrebbero potuto
migliorare la situazione. Si è cercato dunque di andare avanti al meglio, ma
con tante difficoltà.
Qui tuttavia non entro nel merito del problema pastorale, che
è assai ampio; mi limito a parlare della confessione personale, partecipandovi
alcune riflessioni nate dall'esperienza.
Sono partito dalla costatazione che la confessione personale
frequente era accusata, dall'ondata di critiche degli anni Sessanta-Settanta, di
ridursi alla ripetizione formale di alcuni piccoli peccati sempre uguali, e di
non essere vissuta come momento di crescita delle persone. Mi sono chiesto
allora: come superare una simile difficoltà, che alla fine ci allontana da un
vero cammino penitenziale, cammino che non può prescindere dalla confessione
sacramentale frequente?
Mi è venuto allora in mente questo paradosso: se una confessione breve è
faticosa, perché non provare una confessione lunga?E a poco a poco ho elaborato una formula che è poi divenuta molto comune: la confessio laudis, la confessio vitae e la confessio fidei.
Una confessione che quindi comincia non con un' accusa bensì con una preghiera di lode, per ringraziare il Signore dei tanti doni ricevuti dall'ultima confessione.
Mi ritorna alla mente l'espressione sempre stupita delle
persone, che venivano da me a confessarsi cominciando con l'elenco dei propri
peccati, quando io interrompevo dicendo: c'è qualcosa di cui lei vorrebbe
anzitutto ringraziare il Signore? E con meraviglia rispondevano: sì, il Signore
mi ha aiutato in una circostanza, mi ha donato un'intuizione spirituale utile,
ha fatto trovare lavoro a mio marito, ha guarito mio figlio, ecc.
Del resto sant' Agostino comincia il libro delle Confessioni
proprio con una confessio laudis: ti lodo, ti benedico, ti glorifico,
o Dio che mi hai tanto amato.
Su tale sfondo può essere più sincera e più vera la confessio
vitae, che non ridurrei al semplice elenco dei peccati, configurandola
piuttosto quale risposta alla domanda: che cosa mi pesa e mi disturba
dall'ultima confessione? Che cosa non vorrei che ci fosse stato? È un andare al
di là dei peccati formali, per coglierne le radici profonde: le antipatie, le
amarezze, i disgusti, le ribellioni, le ferite interiori da cui dobbiamo essere
risanati per evitare che si trasformino poi in disordine e mondanità. In questo
modo la nostra vita è messa davanti a Dio così com'è.
Alla confessio vitae segue la confessio fidei: è
il domandare al Signore di essere purificati, di essere medicati nelle forze
oscure che non controlliamo e da cui derivano tanti atteggiamenti sbagliati; è
il chiedere che venga tolto il peso dei peccati passati, che genera
scoraggiamenti, forme di depressione, di aridità, di stanchezza.
Allora la confessione diventa un colloquio penitenziale, che
coinvolge l'esistenza. Se provate a praticare questa triplice confessio scoprirete
che è più autentica e più umana, capace di far cadere la grazia dello Spirito
santo sulla verità di noi stessi e sulla nostra fragilità e povertà.
Indubbiamente ne abbiamo tanto bisogno, perché siamo sempre come la donna curva
che non riesce ad alzare gli occhi e guarda soltanto a se stessa, ai propri
interessi, alle proprie necessità. Quando invece Gesù ci tocca sulla spalla,
noi alziamo gli occhi, contempliamo il mistero di Dio e di fronte ad esso
comprendiamo meglio le nostre colpe e l'amore con cui Lui ci perdona, ci
rilancia, ci ridà la sua fiducia volendo fare attraverso di noi grandi cose per
il suo Regno.
Per il momento del dialogo personale con Gesù, rileggiamo le
prime parole di un bellissimo inno di sant'Ambrogio: «Gesù Signore, guardaci
pietoso / quando tentati, incerti vacilliamo. / Se tu ci guardi, le macchie si
dileguano / e il peccato si stempera nel pianto». Per Ambrogio il dramma del
peccato si scioglie lasciandosi guardare da Gesù con amore.
O Gesù che togli i peccati del mondo, tu solo puoi
salvarci.
Non solo ti chiediamo perdono per le nostre mancanze, ma ti
chiediamo guarigione per le nostre ferite, serenità per la nostra tristezza,
pace per la nostra angoscia, luce per la nostra oscurità e il nostro
smarrimento.
Purificaci fino in fondo, ordinaci secondo la tua volontà,
cancella da noi ogni mondanità, fa’ che possiamo aiutare molti altri a
gustare la dolcezza della tua misericordia.
Signore Gesù, hai posto nella sequela
di te la nostra perfezione, la nostra santità, e vuoi che, lasciando tutto,
veniamo dietro a te. Attraici con la forza della tua grazia, infondi in noi lo
Spirito santo paraclito, perché ci renda docili e attenti alla tua chiamata e a
seguirti là dove vuoi che siamo, per essere sempre con te e diventare figli del
Padre che con te vive e regna nell’unità dello Spirito santo per tutti i
secoli dei secoli.
Potremmo dare come titolo a questa meditazione
Il segreto della prima lettera di Pietro.
Dico «il segreto» perché finora ci siamo
limitati a considerare i preliminari della lettera. Abbiamo visto come essa
parla della grande dignità del cristiano e come contiene frammenti di cammino
penitenziale.
Ora tuttavia ci proponiamo di entrare nel
messaggio specifico dell' epistola, messaggio che ne costituisce la ragione
d'essere, la novità, la bellezza e la forza.
Proprio per comprenderne il profondo segreto,
è necessario cogliere anzitutto il significato di quella che negli Esercizi
ignaziani è chiamata la Seconda settimana.
La Prima era dedicata alla conversione, alla
penitenza, al pentimento, al cambiamento del cuore. Con la Seconda settimana
inizia il cammino della chiamata alla sequela di Gesù, che continuerà fino al
termine degli Esercizi.
Tutto comincia con una parabola: «La chiamata
del re temporale aiuta a contemplare la vita del re eterno» si legge al n.
91 degli Esercizi. E la domanda previa a tutte le meditazioni sarà sempre
la stessa: Signore Gesù, che io possa conoscerti, per poterti amare di più e
seguirti più intimamente.
Recita poi il n. 95: «Se abbiamo preso
in considerazione la chiamata del re temporale ai suoi sudditi, quanto più
sarà degno di essere preso in considerazione il fatto di vedere Cristo nostro
Signore, re eterno, e davanti a lui tutto l'universo che egli, come fa con
ciascuno in particolare, chiama dicendo: "È mia volontà conquistare tutto
il mondo e tutti i nemici, ed entrare così nella gloria del Padre mio; pertanto
chi vuol venire con me, deve lavorare con me perché, seguendomi nella
sofferenza, mi segua anche nella gloria"».
Di qui partono le meditazioni sulla vita di
Gesù - su questo ritorneremo - dall'incarnazione a Nazareth, alla nascita a
Betlemme, alla visita al Tempio; e successivamente il Battesimo al Giordano, la
vita pubblica, la Passione, la Risurrezione.
Si tratta dunque di seguire Gesù fino in
fondo e ciò si basa sul principio teologico che siamo creati per essere a
immagine del Figlio di Dio e che la nostra perfezione è essere come lui.
Avrete notato un accento particolare della
sequela che traspare fin dal n. 95 e ritornerà in tutte le meditazioni
della Seconda e Terza settimana: non si tratta solo di conoscere Gesù, bensì
di conoscerlo, amarlo, seguirlo nella povertà, nella sofferenza,
nell'umiliazione.
Il merito di Ignazio è di esplicitare
coraggiosamente il significato di una vera sequela evangelica. Chi è Gesù che
voglio seguire? È il Gesù che non ha dove posare il capo, che soffre e viene
umiliato ingiustamente. Se non lo si segue così, la nostra risposta alla sua
chiamata è fantasia, immaginazione, è vederlo a nostro modo. Il prenderne
coscienza è talmente nodale che Ignazio fa appunto dire a Gesù: «Pertanto chi
vuol venire con me, deve lavorare con me perché, seguendomi nella sofferenza,
mi segua anche nella gloria».
Soltanto la sequela di questo Gesù scioglie
il nostro cuore e ci permette di vincere i condizionamenti mondani.
Più chiaramente, leggiamo al n. 98:
«Eterno Signore di tutte le cose (...), io voglio e desidero ed è mia ferma
decisione, purché sia per vostro maggior servizio e lode, imitarvi nel
sopportare tutte le ingiurie e ogni disprezzo e ogni tipo di povertà, tanto
attuale quanto spirituale, qualora la vostra santissima maestà voglia eleggermi
e ricevermi per tale stato di vita».
Chiunque si sente portato a farsi discepolo di
Gesù con generosità, chiunque vuole consegnargli la propria vita con
entusiasmo, deve seguirlo non semplicemente come un profeta, un predicatore
itinerante che compie miracoli e attira le folle e che poi, per un disgraziato
incidente, viene fatto prigioniero e viene ucciso, ma come colui che fin dalla
nascita a Betlemme pone la sua vita sotto il segno della povertà, della
fragilità, della debolezza, del nascondimento, dell'umiliazione, del disonore
ricevuto e accolto misteriosamente quale parte del suo cammino.
La giusta comprensione della sequela di Gesù
sta tanto a cuore a Ignazio che al centro della Seconda settimana invita a
un'altra meditazione chiave, fondamentale, in cui si ascolta un discorso
programmatico di Gesù, preceduto da un discorso programmatico di satana. Satana
invita i suoi a tentare gli uomini, a legarci, ad accalappiarci attraverso
l'amore delle comodità, del successo, delle ricchezze e quindi della superbia (cfr.
n. 142); mentre il progetto di Gesù è quello di invitare tutti alla
sobrietà della vita, alla rinuncia, a lasciare ogni cosa per seguirlo, ad
accettare anche la via dell'umiliazione (cfr. n. 146).
È una meditazione fondamentale che ci offre
una visione combattiva e conflittuale della vita cristiana, della vita secondo
lo Spirito. Non semplicemente acquistare le virtù alla sequela del Signore,
bensì essere con lui partecipando al suo destino di sofferenza e di gloria,
opponendosi al disegno di successo e di ambizione proprio di satana che tenta di
distruggerci.
Questo progetto è necessario per capire
quanto accade nel mondo, come va la storia, quali sono le forze che aiutano la
crescita della Chiesa e quelle che invece la debilitano, la logorano, la
tentano, cercano di scalzarla attraverso l'ambizione, la ricchezza, il successo,
il potere.
È una chiave di lettura della storia molto
austera e insieme molto sincera e forte, e sant'Ignazio la desume direttamente
dal Vangelo.
Ho richiamato brevemente il succo del cammino
della Seconda settimana degli Esercizi, perché partendo da esso è possibile
comprendere meglio il segreto della 1 Pt.
Ricordiamo che quella di Pietro non è una
lettera dogmatica, benché abbia un solidissimo fondamento dogmatico; e neppure
una lettera penitenziale, tesa a convertire una comunità da comportamenti
cattivi. È piuttosto una esortazione pratica.
Dopo aver descritto i principi basilari della
vita cristiana - sottolineando la grande dignità del cristiano che nel
battesimo è fatto figlio del Padre, luogo di azione dello Spirito, conquistato
dalla morte e dal sangue di Gesù, chiamato a una speranza eterna, fondato sulla
roccia che è Gesù, generato dalla Parola di salvezza che non viene mai meno -,
e dopo aver richiamato alcuni momenti del cammino penitenziale, Pietro si
preoccupa soprattutto di aiutare i cristiani a essere irreprensibili in tutti
gli stati di vita, ad avere una condotta onorevole in mezzo ai pagani, così da
evitare critiche o maldicenze:
«La vostra condotta tra i pagani sia
irreprensibile, perché mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le
vostre buone opere giungano a glorificare Dio nel giorno del giudizio» (2,
12).
Come anche Paolo nelle sue lettere pastorali
– in particolare la lettera ai Colossesi, a Tito, a Timoteo -
Pietro vuole che la comunità sia integerrima,
che i cristiani si mostrino rispettosi delle leggi, capaci di formare famiglie
sane e operose, di vivere e lavorare in fraternità. Essi devono, e lo leggeremo
più avanti, «chiudere la bocca all'ignoranza degli stolti» (2, 15),
di coloro che non accettano Gesù, ma vedendo il contegno dei cristiani, sono
costretti a riconoscerne l'esemplarità.
Interessanti le diverse categorie di doveri
che vengono elencati: verso le autorità civili (2, 13-17), nel rapporto
tra schiavi e padroni (vv. 18-25), tra mogli e mariti (3, 1-7) e
nell'ambito comunitario (vv. 8-12).
Le esortazioni dei cc. 2 e 3
costituiscono il corpo fondamentale della lettera. E saranno riprese alla fine,
dove si parla dei doveri degli anziani e dei presbiteri (5, 1-4), dei
doveri dei giovani (v. 5) e dei doveri di tutti i fedeli (vv.
6-10).
Sembrerebbe impossibile aspettarci molto da
tali esortazioni, perché si tratta di espressioni di buon senso e di
insegnamenti verosimilmente già conosciuti dalla comunità primitiva.
C'è però una sorpresa, che è appunto il
segreto della 1 Pt, e la si trova nell' esortazione agli schiavi, la
categoria più infima e disprezzata. E mi propongo di leggere con voi queste
esortazioni, fermandomi in particolare su quella in cui emerge il segreto (2,
18-25). Ho già accennato che possono apparire un po' datate, perché
mettono a fuoco una situazione sociologica diversa dalla nostra. Ma è
interessante che proprio a riguardo di una situazione ormai superata emergano
elementi fondamentali specificamente evangelici.
«State sottomessi a
ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al re come sovrano, sia ai
governatori come ai suoi inviati per punire i malfattori e premiare i buoni.
Perché questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la
bocca all'ignoranza degli stolti. Comportatevi come uomini liberi, non
servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come
servitori di Dio.
Onorate tutti, amate i vostri fratelli, temete
Dio, onorate il re» (2,
13-17).
Qui il problema non è di instaurare la
democrazia e neppure di avere delle autorità scelte secondo i criteri del bene
comune; il problema è semplicemente di obbedire alle autorità: «State
sottomessi a ogni istituzione umana per amore del Signore».
L'autorità di allora era dispotica, non
democratica; e tuttavia Pietro non vuole cambiare la situazione, ed esorta:
assoggettatevi, vivete bene, poiché questa è la volontà di Dio, in questo
ambito siete chiamati alla sottomissione.
E aggiunge, sapendo che la prerogativa del
cristiano è la grande libertà interiore: «Comportatevi come uomini liberi,
non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come
servitori di Dio». I cristiani sono liberi e la loro libertà va espressa
nel comportarsi correttamente. Conclude poi dicendo: «Onorate tutti, amate i
vostri fratelli, temete Dio, onorate il re».
Termina così la piccola esortazione a vivere
nell'ambito civile come buoni e onesti cittadini, obbedienti e rispettosi delle
leggi, di cui nessuno deve dire male, di cui nessuno deve potersi lamentare.
Il segreto della
prima lettera di Pietro
«Domestici, state
soggetti con profondo rispetto ai vostri padroni, non solo a quelli buoni e
miti, ma anche a quelli difficili. È una grazia per chi conosce Dio subire
afflizioni, soffrendo ingiustamente; che gloria sarebbe infatti sopportare il
castigo se avete mancato? Ma se facendo il bene sopporterete con pazienza la
sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati
chiamati, poiché
anche Cristo patì per voi, / lasciandovi un
esempio, / perché ne seguiate le orme: / egli non commise peccato / e non si
trovò inganno sulla sua bocca / oltraggiato non rispondeva con oltraggi, / e
soffrendo non minacciava vendetta, / ma rimetteva la sua causa a colui / che
giudica con giustizia. Egli portò i nostri peccati nel suo corpo / sul legno
della croce, / perché, non vivendo più per il peccato, / vivessimo per la
giustizia; / dalle sue piaghe siete stati guariti. / Eravate erranti come
pecore, / ma ora siete tornati al pastore / e guardiano delle vostre anime»
(2, 18-25).
Il secondo quadro sociologico, riguardante
l'ambito domestico, è quello del rapporto servi-padroni, potremmo dire più
chiaramente schiavi-padroni, perché in quel tempo esisteva la schiavitù e
tutte le famiglie abbienti possedevano degli schiavi. Su tale rapporto era
basato tutto il sistema economico e sociale, quello del tempo di Gesù, ed è
continuato per secoli.
Colpisce nell' esortazione, come del resto in
alcune lettere di Paolo, che Pietro non intende affatto rovesciare quell' ordine
sociale. Tale ordine sarà un giorno ritenuto ingiusto e lesivo della dignità
umana, e quindi superato. Ma sappiamo che ci sono voluti molti secoli prima di
rovesciarlo appieno grazie anche alla progressiva maturazione del seme
evangelico, e in certe parti della terra non è ancora avvenuto del tutto.
Paolo e Pietro non ritengono opportuno farsi
ribelli al sistema sociale di allora. Ricordiamo il breve e prezioso biglietto a
Filemone, dove Paolo rimanda lo schiavo Onesimo al padrone, senza voler cambiare
la sua situazione. Lo rimanda pregando Filemone di accoglierlo con carità, di
perdonarlo, di essere comprensivo; e tuttavia non lo affranca, non lo esorta a
sciogliere le catene di schiavitù.
È certamente un comportamento che a noi crea
problemi, proprio perché viviamo in un mondo che ha maturato una profonda
coscienza della dignità e della libertà nativa di ogni uomo. D'altra parte il
Nuovo Testamento rispecchia un' atmosfera diversa e gli apostoli non hanno come
prima preoccupazione il rovesciamento della situazione esistente; propongono
invece ai cristiani di vivere il Vangelo al suo interno.
Riprendiamo i singoli versetti.
- «Domestici, state soggetti con profondo
rispetto ai vostri padroni». La parola «domestici» sta per
schiavi che sono legati a una casa, a una
famiglia intesa in senso ampio.
- E ora comincia la difficoltà: «non solo
a quelli buoni e miti, ma anche a quelli difficili». La parola greca (skolioì)
dice di più: a quelli intrattabili, che si comportano con voi in maniera
ingiusta e con eccesso di rigore e di punizioni non meritate.
Che cosa ci aspetteremmo dall' apostolo di
fronte a tale situazione? Almeno un po' di compassione: poveretti, mi dispiace
per la vostra sofferenza. Quanto è dolorosa e vergognosa la vostra condizione!
Quanto sono crudeli e arbitrari i vostri padroni! Alcuni si aspetterebbero anzi
una promessa di rivalsa: dovete ribellarvi! Oppure almeno un'esortazione ai
padroni: non siate esigenti, cercate di essere umani!
- Eppure la via che segue Pietro è a prima
vista impensabile perché, con nostra meraviglia, scrive: «È una grazia per
chi conosce Dio subire afflizioni, soffrendo ingiustamente; che gloria sarebbe
infatti sopportare il castigo se avete mancato? Ma se facendo il bene
sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio».
È un' esortazione sorprendente, lontanissima
dalla mentalità odierna, e però ci permette di capire come l'apostolo non
parla per un desiderio di pace sociale ad ogni costo, per non creare disordini,
perché i cristiani non appaiano ribelli e non siano quindi perseguitati dall'
autorità civile. La sua affermazione si basa sul motivo di fondo: così si è
comportato Gesù. L’esortazione sociologica diventa a questo punto
cristologica e Pietro innalza un meraviglioso inno sulle sofferenze di Cristo:
- «A questo siete stati chiamati, poiché
l anche Cristo patì per voi, / lasciandovi un esempio, / perché ne seguiate le
orme: / egli non commise peccato / e non si trovò inganno sulla sua bocca».
Non dava motivo di punirlo, era leale, onesto, innocente, patì senza colpa.
- «Oltraggiato non rispondeva con
oltraggi, / e soffrendo non minacciava vendetta, / ma rimetteva la sua causa a
colui / che giudica con giustizia». Gesù è esempio di umiltà, di
accettazione della sofferenza anche ingiusta, di accettazione dell'umiliazione,
di affidamento a Dio («Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» - Lc
23, 46).
- E Gesù è morto giusto per noi ingiusti, è
morto innocente per noi peccatori. In lui è l'unica salvezza, la chiave della
storia: «Egli portò i nostri peccati nel suo corpo / sul legno della croce».
Noi abbiamo meritato il legno della croce, noi abbiamo meritato i castighi, ma
lui li ha presi su di sé.
- «Perché, non vivendo più per il
peccato, / vivessimo per la giustizia; / dalle sue piaghe siete stati guariti. /
Eravate erranti come pecore, / ma ora siete tornati al pastore / e guardiano
delle vostre anime»: meritavate di perdervi, perché avete voluto
allontanarvi dal gregge, ma lui con bontà e con amore vi ha ricondotti e ha
pagato per voi.
Quello che ho chiamato il segreto della 1
Pt si evidenzia qui: la capacità di interpretare cristologicamente una
pesante e ingiusta situazione socio logica, in maniera tale da mettere in
risalto soprattutto il primato di Gesù che si è lasciato condannare per amore
nostro. È la forza cristologica di questa epistola, che rovescia le situazioni
umane con la proclamazione della sofferenza di Cristo.
Mi limito ad accennare, nell'ambito familiare,
all'esortazione riguardo al rapporto mogli-mariti. Di nuovo ci troviamo assai
lontani dalla situazione descritta in questo brano, almeno nel nostro mondo
occidentale.
Di fatto, mentre alle mogli vengono date
esortazioni per più di mezza pagina, ai mariti vengono dette pochissime cose:
«Ugualmente voi, mogli, state sottomesse
ai vostri mariti perché, anche se alcuni si rifiutano di credere alla parola,
vengano dalla condotta delle mogli, senza bisogno di parole, conquistati
considerando la vostra condotta casta e rispettosa» (3,
1-2).
E poi ancora una lunga esortazione alle mogli
affinché non si lascino corrompere dalla mondanità degli ornamenti, delle
collane, degli anelli, di tutto quanto può essere sfoggio di lusso, come allora
avveniva. Pietro le esorta a ornarsi interiormente, ad avere un cuore pieno di
mitezza e di pace (cfr. vv. 3-6), secondo l'esempio di Gesù mite e
pacifico, che rinuncia ai privilegi della sua divinità.
Più breve, come dicevo, l'esortazione ai
mariti:
«E ugualmente voi, mariti, trattate con
riguardo le vostre mogli, perché il loro corpo è più debole, e rendete loro
onore perché partecipano con voi della grazia della vita: così non saranno
impedite le vostre preghiere» (v. 7).
Noi abbiamo una concezione diversa del
rapporto uomo-donna e accettiamo con fatica queste parole. In ogni caso mostrano
la volontà in Pietro di promuovere il rispetto della donna e l'uguaglianza
nella fede e nella preghiera.
È interessante osservare come una società
arcaica, legata pure a strutture ingiuste, viene gradualmente fermentata dal
pensiero cristiano, a partire non da una ribellione esteriore, ma da un
mutamento interiore del cuore, in cui il punto decisivo è la relazione a Gesù.
L'ultima esortazione di questa parte centrale
si rivolge all' ambito comunitario. L'abbiamo già citata e la rileggiamo per
sottolinearne la valenza cristologica.
«E finalmente siate
tutti concordi, partecipi delle gioie e dei dolori degli altri, animati da
affetto fraterno, misericordiosi, umili; non rendete male per male, né ingiuria
per ingiuria, ma, al contrario, rispondete benedicendo; poiché a questo siete
stati chiamati per avere in eredità la benedizione.
Infatti: / Chi vuole amare la vita/ e vedere
giorni felici, / trattenga la sua lingua dal male / e le sue labbra da parole
d'inganno; / eviti il male e faccia il bene, cerchi la pace e la segua, /
perché gli occhi del Signore sono sopra i giusti / e le sue orecchie sono
attente alle loro preghiere; / ma il volto del Signore è contro coloro che
fanno il male» (3, 8-12).
È richiamato un atteggiamento ispirato al
Discorso della montagna: modesti e miti, non superbi e non pretenziosi. Di nuovo
domina l'esempio di Gesù, che «oltraggiato non rispondeva con oltraggi»
(2,23).
L'apostolo sembra dire che non è necessario
stravolgere in maniera violenta la società: è piuttosto testimoniando la Buona
Notizia che i cristiani potranno costruire gradualmente la pace e la giustizia
che il Vangelo promette.
La parte centrale della lettera (2, 12 - 3,
12) ha dato dunque l'avvio per la comprensione del mistero dell'amore di
Cristo e della sua redenzione, ponendo un principio nuovo e dirompente in una
società basata sulla sopraffazione, sulla vendetta, sulla violenza, sul potere
del denaro e delle armi. Gli apostoli invitano alla mitezza, all'umiltà, alla
povertà, all' accettazione anche dell'ingiustizia purché rifulga la carità e
il perdono dei seguaci del Signore.
Tutto questo negli Esercizi spirituali viene
posto alla base di ogni progetto di vita. Il non considerare l'umiltà e la
povertà di Gesù porta a un progetto al massimo umano, o di successo, anche se
magari onesto. Gesù invece tiene conto dell'ingiustizia, del male del mondo, e
vi entra per risanarlo dall'interno, con un atto eroico di amore e di perdono.
Gesù Signore, Figlio di Dio, tu che hai
detto: imparate da me che sono mite e umile di cuore, fammi comprendere il
mistero di queste tue parole, fammi comprendere come la tua mitezza e umiltà
non sono debolezza, pigrizia, fuga, cedimento di fronte all'ingiustizia, bensì
sono forza, coraggio, seme di vita nuova, presa di posizione precisa, rigorosa e
forte di fronte agli avvenimenti del mondo.
Donami di contemplare il tuo volto, di
conoscerti e di amarti davvero con tutto me stesso, per fondare su di te ogni
mia attesa e ogni mia scelta.
Ci proponiamo di approfondire ulteriormente la
riflessione sul segreto della 1 Pt. Esso emerge non soltanto quasi
occasionalmente, là dove si menzionano i castighi ingiusti degli schiavi, ma
diviene anche un principio generale per interpretare il significato delle
sofferenze di ogni cristiano, in particolare il significato delle persecuzioni
che i seguaci di Gesù subiscono quando vogliono proclamare il Vangelo.
Vorrei perciò leggere con voi altri brani
della lettera che si riferiscono al cristiano in quanto tale, a prescindere
dalla sua condizione o situazione sociologica.
«E chi vi potrà fare del male, se sarete
ferventi nel bene? E se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non
vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo,
nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della
speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con
una retta coscienza, perché nel momento stesso in cui si parla male di voi
rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in
Cristo. È meglio infatti, se così vuole Dio, soffrire operando il bene che
facendo il male» (3, 13-17).
Soffermiamoci sulle parole di Pietro.
- «E chi vi potrà fare del male, se sarete
ferventi nel bene?». Il cristiano non deve avere paura di nessuno, non deve
temere il male quando fa il bene.
- «E se anche doveste soffrire per la
giustizia, beati voi!». È una beatitudine che si aggiunge a quella ben nota
del Vangelo: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo,
diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia» (Mt
5, 11).
- Segue poi un principio generale che ha la
sua radice in un profeta coraggioso e ardente come Isaia: «Non vi sgomentate
per paura di loro, né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri
cuori».
È infatti la parola rivolta al profeta quando
si trovava di fronte a un popolo che non lo ascoltava e avrebbe potuto
incutergli paura:
«Poiché così il Signore mi disse, quando mi
aveva preso per mano e mi aveva proibito di incamminarmi nella via di questo
popolo: / "Non chiamate congiura / ciò che questo popolo chiama congiura,
/ non temete ciò che esso teme e non abbiate paura". / Il Signore degli
eserciti, lui solo ritenete santo. / Egli sia l'oggetto del vostro
timore, della vostra paura» (Is 8, 11-13).
Isaia viene dunque esortato a parlare con la
forza della sua profezia, senza lasciarsi trascinare dai modi di pensare del
popolo e dalle mode, a non avere paura di chi lo osteggia e lo perseguita.
Questo principio Pietro lo applica a tutti i
cristiani: ogni sofferenza per la giustizia, se è vera sofferenza per la
giustizia, va considerata come beatitudine e non come disgrazia.
- I cristiani però devono sapersi spiegare,
rimanendo miti e coraggiosi: «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi
ragione della speranza che è in voi».
L'apostolo formula un'ipotesi che è attuale.
Anche a noi può capitare che la gente ci chieda: come mai mostrate tanta gioia
e tanta speranza, pur quando vi trovate in situazioni di difficoltà o di
sofferenza? E noi, dando ragione della nostra speranza, proclamiamo il Signore
Gesù.
- «Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e
rispetto, con una retta coscienza, perché nel momento stesso in cui si parla
male di voi rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona
condotta in Cristo».
Pietro è dunque sicuro che la coscienza retta
dei cristiani, nella misura in cui non si spaventano, non fuggono, non si
nascondono, non dissimulano la loro fede, sarà prima o poi riconosciuta.
- E il testo si conclude riprendendo
l'affermazione iniziale: «È meglio infatti, se così vuole Dio, soffrire
operando il bene che facendo il male».
Questo principio è generale e riguarda
l'intera vita cristiana.
Sembra che a Pietro non basti avere espresso
questo segreto in maniera ampia, estendendolo a cristiani di ogni condizione.
Egli ritorna sul tema nel capitolo seguente, là dove ancora una volta insiste
sulla persecuzione dei cristiani, indicando che questa è una grazia, non una
disgrazia, non maledizione di Dio.
«Carissimi, non siate sorpresi per l'incendio
di persecuzione che si è acceso in mezzo a voi per provarvi, come se vi
accadesse qualcosa di strano. Ma nella misura in cui partecipate alle sofferenze
di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria
possiate rallegrarvi ed esultare. Beati voi, se venite insultati per il nome di
Cristo, perché lo Spirito della gloria e lo Spirito di Dio riposa su di voi.
Nessuno di voi abbia a soffrire come omicida o ladro o malfattore o delatore. Ma
se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; glorifichi anzi Dio per questo
nome. (...) Perciò anche quelli che soffrono secondo il volere di Dio si
mettano nelle mani del loro Creatore fedele e continuino a fare il bene» (4,
12-19).
- «Carissimi»: è 1'apostrofe usata nella
lettera per comunicare con grande affetto qualcosa di importante e che sta molto
a cuore.
- «Non siate sorpresi per l'incendio di
persecuzione che si è acceso in mezzo a voi per provarvi, come se vi accadesse
qualcosa di strano». Il subire persecuzione non è quindi un fatto impensabile,
inimmaginabile, è anzi piuttosto probabile e normale.
Gli esegeti si domandano se si parla della
persecuzione avvenuta sotto Nerone o di quella avvenuta più tardi sotto
Domiziano. Non abbiamo riferimenti precisi per rispondere, ma oggi gli stessi
biblisti ritengono che non si tratta forse di una persecuzione politica, bensì
della situazione di minorità, di emarginazione e quasi di disprezzo, in cui
erano tenuti i cristiani nella società di quel tempo: considerati un gruppo
poco influente, senza potere, un gruppo che si poteva tranquillamente deridere e
disprezzare.
Le parole di Pietro valgono comunque in ogni
persecuzione; è una grazia che fa partecipare da vicino alla sorte di Gesù. La
scelta di essere totalmente per lui non è comoda, non porta in tasca del
denaro, al contrario ci pone di fronte a difficoltà, anche a livello sociale.
- Continua il testo: «Ma nella misura in cui
partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi». È l'interpretazione
cristologica delle sofferenze dei cristiani destinatari della lettera. Non sono
soltanto sofferenze loro: come esprime con forza il verbo greco koinoneite (partecipate),
sono una koinonia, una comunione con le sofferenze di Cristo. Essi vivono
l'esperienza di Gesù, sono come Gesù.
- «Perché anche nella rivelazione della sua
gloria possiate rallegrarvi ed esultare». Si suppone nuovamente la speranza
escatologica, il trionfo del Signore, nel quale chi sarà stato dalla sua parte
pure nei momenti dolorosi, potrà finalmente godere ed esultare in Gesù.
- Interessante la beatitudine che segue:
«Beati voi, se venite insultati per il nome di Cristo, perché lo Spirito della
gloria e lo Spirito di Dio riposa su di voi». Siete addirittura come Gesù su
cui riposa lo Spirito nel momento del Battesimo. È un versetto molto solenne e
trinitario.
- Nell'intento che non si confondano le
sofferenze subite a causa del Vangelo con quelle subite per colpe personali, la
lettera aggiunge: «Nessuno di voi abbia a soffrire come omicida o ladro o
malfattore o delatore». Non dovete essere persone che col loro comportamento
danneggiano la società.
- «Ma se uno soffre come cristiano, non ne
arrossisca; glorifichi anzi Dio per questo nome».
Ricordo che durante il mio servizio episcopale
nella diocesi di Milano ho avuto tante volte modo, visitando le parrocchie, di
richiamare queste parole, in particolare quando i giovani mi chiedevano: cosa
dobbiamo fare quando veniamo derisi dai nostri coetanei perché frequentiamo
l'oratorio? E rispondevo: ringraziate il Signore, dal momento che essere derisi
per la vostra professione di fede in Gesù è una gloria. Non spaventatevi
perciò, non turbatevi, non fate come Pietro che nel momento della Passione ha
affermato di non conoscere il suo Maestro; date piuttosto ragione con fermezza
della vostra scelta, glorificando il vostro nome cristiano.
Un simile modo di agire mostra la forza e la
dignità del credente ed è capace di conquistare anche altri. Se al contrario
ci si impaurisce, negando la nostra appartenenza, gli interlocutori diventano
più audaci, così come, dopo il primo rinnegamento, tutti prendono coraggio di
scagliarsi contro Pietro, che finisce col negare di nuovo Gesù.
- Tralascio i vv. 17 e 18 che
riguardano il giudizio finale, e cito il versetto conclusivo: «Perciò anche
quelli che soffrono secondo il volere di Dio, si mettano nelle mani del loro
Creatore fedele e continuino a fare il bene». Dio è fedele, non permetterà
che quanti si abbandonano a lui abbiano a soffrire in maniera eccessiva, in
maniera da restarne travolti. Egli li sosterrà, li conforterà, li difenderà.
Vorrei affidare le pagine riguardanti il
segreto centrale della lettera alla vostra meditazione e alla vostra preghiera,
nella convinzione di essere di fronte al punto nodale dell' esistenza cristiana.
Questo messaggio fondamentale ci aiuta a
comprendere ciò che veniva anticipato all'inizio della 1 Pt, su
cui non ci siamo molto soffermati, e che ora possiamo comprendere meglio:
«Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un po' afflitti da
varie prove, perché il valore della vostra fede, molto più preziosa dell'oro,
che, pur destinato a perire, tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode,
gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo» (1, 6-7). Dunque da
subito la prova è unita alla gioia.
Viene alla mente una pagina degli Atti
degli Apostoli: «Essi (gli apostoli) se ne andarono dal sinedrio lieti di
essere stati oltraggiati per il nome di Gesù» (5, 41): battuti e
svergognati nel sinedrio, uscivano pieni di gioia perché avevano reso
testimonianza al Signore. È esattamente l'insegnamento dei brani della 1
Pt sulle sofferenze e le persecuzioni per il Vangelo.
In proposito ci sarebbero da ascoltare tante
obiezioni moderne. Per esempio la cosiddetta teologia della liberazione ritiene
necessario anzitutto liberare chi soffre ingiustamente e non invitarlo a
soffrire con pazienza.
TI contesto sociologico è ovviamente cambiato
rispetto al tempo della comunità primitiva. Abbiamo una visione più chiara e
accettata della dignità della persona, di quanto la persona autonomamente deve
fare per vivere nella libertà e nella giustizia. E tuttavia, pur tenuto conto
di tale diversità di sfondo e di cultura, rimane vera la rivelazione
fondamentale che soffrire ed essere umiliati per amore di Cristo è una grazia.
Una rivelazione tipicamente cristiana, che non
può essere capita dal mondo e che corrisponde chiaramente alle beatitudini:
beati coloro che piangono, perché saranno consolati; beati voi quando vi
perseguiteranno (cfr. Mt 5, 3-12). La beatitudine nella sofferenza e
nella persecuzione è parte del Vangelo purissimo di Gesù.
Di fronte a questo ci ribelliamo e ci tiriamo
continuamente indietro; siamo infatti timorosi e pavidi, proprio come lo era
Pietro che, di fronte ai soldati e alle serve del sommo sacerdote, non ha osato
confessare pienamente la sua fede.
L'invito per noi è a pregare intensamente,
nel desiderio che ci sia donato, anche nelle difficili condizioni odierne, il
coraggio di vivere e di testimoniare le beatitudini.
Mi piace aggiungere un ultimo pensiero:
l'umiltà e la mitezza di Gesù, che il cristiano è chiamato a imitare nella
prova e nella persecuzione, è, potremmo dire con una immagine, la porta della
Trinità. L'umiltà e la povertà del Figlio di Dio vengono scoperte, a mano a
mano che procede l'approfondimento della fede lungo i secoli cristiani, non
soltanto come realtà cristologica, ma pure come fatto trinitario.
Proviamo a chiederei perché Gesù si presenta
fin dalla nascita a Betlemme come umile, povero, indifeso; non è capace neppure
di difendersi da Erode e deve fuggire in Egitto. Non ha nessun potere mondano,
nessun esercito che lo protegga, nessuna potenza politica che prenda le sue
parti. E proprio la sua volontà di essere umile e indifeso lo condurrà alla
morte: egli stesso dirà che avrebbe potuto chiedere al Padre dodici legioni di
angeli, e però voleva affrontare coraggiosamente il suo destino (cfr. Mt 26,
53).
Certamente una risposta è che la sua scelta
ha un motivo ascetico: vuole insegnarci a combattere l'orgoglio, radice
di tutti i peccati; a difenderei dalla presunzione del potere, da tutte le
passioni proprie del mondo, dalla voglia sfrenata di comandare, di possedere, di
essere violenti, di farsi giustizia; vuole insegnarci a liberarci dai lacci di
satana.
È però necessario aggiungere che il suo modo
di essere ha pure un valore teologico, nel senso che ci permette di
entrare in qualche modo nel mistero della Trinità. La teologia contemporanea
legge infatti nell'umiltà di Gesù alcuni riflessi del Mistero trinitario.
Che cosa sappiamo noi di questo Mistero?
Sappiamo che nessuna Persona divina è ripiegata su se stessa in difesa dei
propri diritti, che ogni Persona è relativa all' altra: il Padre è relativo al
Figlio, il Figlio al Padre, il Padre e il Piglio allo Spirito. Essere relativo
all' altro significa totale dedizione: il Padre dà tutto se stesso al Figlio,
il Figlio dà tutto se stesso al Padre, lo Spirito è l'amore del Padre e del
Figlio.
Tali atteggiamenti si traducono, nel
linguaggio umano, in «umiltà» e «amore» che sono perciò il segno della
Trinità. E Gesù, insegnando ci a vivere con umiltà e amore, mette nel mondo
il segno del Dio trinitario. Dio Amore è dunque rappresentato al meglio nel
Piglio umiliato, povero, sofferente, crocifisso, che diventa per noi porta di
intuizione della Trinità.
Ho letto recentemente un'opera del teologo
tedesco Hoffman intitolata Kreuz und Trinität, nella quale egli svolge
ampiamente questo tema. lo ho voluto accennarvi, pur se non emerge con evidenza
nella 1 Pt, perché mi sembra che lo sviluppo della riflessione
teologica abbia di fatto messo in luce un mistero profondo che, anche se non è
esplicitato, si percepisce racchiuso e custodito nelle parole dell' apostolo.
Dopo aver considerato l'umiliazione di Cristo
e le sue sofferenze come motivo teologico e trinitario, possiamo coglierne
infine un riflesso antropologico. Lo ha espresso il Concilio Vaticano II
con una formula che viene ripresa da Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica
Redemptor hominis: l'uomo si realizza pienamente nel dono di sé. In
altri termini, quando ci liberiamo dall' egoismo, dalla ricerca del successo,
del potere, della gloria, e ci dedichiamo agli altri, siamo veramente uomini.
Di conseguenza l'umiltà, la mitezza, lo
spirito di sacrificio costituiscono la strada per la vera pace. Non ci sarà
pace finché non saranno in onore lo spirito di dedizione, la mitezza, l'umiltà
e il perdono. È un dato che verifichiamo purtroppo ogni giorno nella vita
sociale e politica. Il cristianesimo vuol essere appunto segno e fermento di
riconciliazione in un mondo travagliato dalle passioni dell'ambizione, del
potere, della violenza.
A questo punto comprendiamo che le parole di
Pietro non sono certo espressione di assoggettamento al potere, di accettazione
di fatti compiuti; l'esempio di Cristo che ci propone l'apostolo ci aiuta a
capire il mistero stesso di Dio e dell'uomo.
Sgorga una preghiera:
Signore Gesù, tu ci chiami a seguirti e ci
fai comprendere a poco a poco, soprattutto col crescere della nostra vita e
delle nostre esperienze, che il seguirti è bello e però costa sacrificio.
Esige l'uscita da se stessi e la dedizione agli altri, esige la forza del
perdono e il coraggio della mitezza.
Ti chiediamo di imprimere in noi queste
virtù, che sono tuo dono. Così tu vivrai in noi e noi vivremo in te,
diventando sorgente di verità e di pace per tanti fratelli.
Ho pensato di fare una sorta di pausa nelle
nostre meditazioni per riprendere un argomento che mi sta molto a cuore e di cui
ho parlato nel nostro primo incontro: gli esercizi spirituali sono
essenzialmente un ministero dello Spirito.
Noi li abbiamo vissuti in parte come ministero
della Parola, perché ho spiegato il testo della 1 Pt per aiutarci
a comprendere e meditare la parola di Dio. Questa tuttavia è soltanto la trama
esteriore, in quanto negli esercizi è decisivo ciò che avviene nel cuore sotto
le mozioni dello Spirito santo.
Tali mozioni acquistano figura concreta in due
designazioni che Ignazio di Lojola propone attingendo alla Scrittura e alla
Tradizione, e che sono diventate classiche: la consolazione e la desolazione.
È vero che il variare delle consolazioni e
delle desolazioni avviene soprattutto quando si fanno gli esercizi per la prima
volta, ma è altrettanto vero che la vita spirituale è sempre un' altalena tra
questi due movimenti interiori.
È nell'Autobiografia che Ignazio
descrive il momento in cui ha incominciato ad avere una prima coscienza riflessa
delle mozioni che si agitavano in lui. Racconta, parlando in terza persona: «...pensando
alle cose del mondo provava molto piacere, ma quando, per stanchezza, le
abbandonava si sentiva vuoto e deluso. Invece andare a Gerusalemme a piedi, non
cibarsi che di erbe, praticare tutte le austerità che aveva conosciute abituali
ai santi, erano pensieri che non solo lo consolavano mentre vi si soffermava, ma
anche dopo averli abbandonati lo lasciavano soddisfatto e pieno di gioia. (...)
E a poco a poco imparò a conoscere la diversità degli spiriti che si agitavano
in lui: uno dal demonio, l'altro da Dio» (n, 8).
È il primo germe, l'esperienza che sta all'
origine storica degli Esercizi spirituali, soprattutto di quelle che poi
saranno proposte come Regole per il discernimento degli spiriti. Su tali
Regole vorrei che ci confrontassimo.
Preliminarmente osserviamo che già nelle Note
introduttive al libro - che sono indicazioni date per chi guida gli esercizi
- leggiamo: «Chi dà gli esercizi, quando avverte che non sorgono nell' anima
dell'esercitante mozioni spirituali, quali consolazioni o desolazioni, né che
sia agitato da vari spiriti, deve interrogarlo molto sugli esercizi, se cioè li
fa nei tempi stabiliti e come; così pure sulle addizioni, se le fa con
diligenza, chiedendo conto di ciascuna di queste cose particolareggiatamente» (n.
6). Ignazio dunque si stupisce che l'esercitante non sia agitato da qualche
spirito, ritenendo che in ciò consista la concreta esperienza degli esercizi.
E anche più avanti, là dove dà istruzioni
per la preghiera, insegna che occorre fermarsi quando si sperimenta maggiore
consolazione e fa capire che essa può essere desiderata e chiesta (cfr. n,
254).
Notiamo tuttavia che, parlando delle
circostanze in cui compiere una sana e buona elezione, ,afferma che si può
vivere un tempo tranquillo, cioè non agitato da diversi spiriti: «La terza
circostanza è di tranquillità: quando cioè una persona, tenendo presente
perché l'uomo è nato, cioè per lodare Dio nostro Signore e per salvare la
propria anima, e volendo ottenere ciò, sceglie come mezzo un genere o stato di
vita nell' ambito della Chiesa per essere aiutata nel servizio del Signore e
nella salvezza della propria anima». E aggiunge: «Ho parlato di tempo
tranquillo, quando, cioè, l'anima non è agitata da vari spiriti e usa le
proprie potenze naturali liberamente e tranquillamente» (n, 177).
Dunque ci può essere un tempo tranquillo; e
normalmente, col procedere degli anni e del cammino spirituale, è più facile
entrarvi e rimanervi. Occorre naturalmente stare attenti, perché talora il
tempo tranquillo può significare tregua e armistizio con i propri difetti; si
sono, cioè, emarginati i problemi realmente importanti, ci si accontenta di un
certo ritmo mediocre di preghiera e non ci si lascia più disturbare dall'
azione dello Spirito che ci spinge a fare la volontà di Dio.
Rimane in ogni caso vero che la nostra
biografia spirituale, per tutta la nostra esistenza, sarà sempre un'alternanza
tra consolazione, desolazione e tempi tranquilli; e i momenti della consolazione
e della desolazione saranno di solito i più significativi.
Per questo leggiamo almeno due Regole degli Esercizi,
dove si descrivono appunto la consolazione e la desolazione; successivamente
altre tre Regole di comportamento e di discernimento, particolarmente
importanti.
* «Chiamo consolazione spirituale il
causarsi nell'anima di qualche movimento intimo con cui l'anima resti infiammata
nell' amore del suo Creatore e Signore; come pure quando essa non riesce ad
amare nessuna cosa creata sulla faccia della terra, ma solamente in relazione al
Creatore di tutto.
Così pure, quando la persona versa lacrime
che la spingono all' amore del suo Signore, o a causa del dolore dei propri
peccati, o per la Passione di Cristo nostro Signore, o a causa di altre cose
direttamente indirizzate al suo servizio e lode. Infine chiamo consolazione ogni
aumento di speranza, di fede e di carità e ogni tipo di intima letizia che
sollecita e attrae alle cose celesti e alla salvezza della propria anima,
rasserenandola e pacificandola nel proprio Creatore e Signore» (n. 316).
Dapprima vengono descritte due situazioni
particolari, quella dell' accrescimento di amore o di dolore, poi il discorso si
fa più generale, ed è interessante che Ignazio ponga al primo posto la
speranza: «ogni aumento di speranza, di fede e di carità».
Quindi speranza, fede e carità, pace
interiore, gioia spirituale, tranquillità sono tutti moti dello Spirito.
Possiamo distinguere la consolazione, di cui
Ignazio parla in termini generali, in tre tipi: la consolazione della mente,
del cuore e della vita.
- Della prima, la consolazione della mente o
intellettuale, ha avuto un' esperienza straordinaria lo stesso Ignazio e
la racconta nell'Autobiografia: «Tutto assorbito nelle sue devozioni, si
sedette un poco con la faccia rivolta al torrente che scorreva in basso. E
mentre stava lì seduto, gli si aprirono gli occhi dell'intelletto: non ebbe una
visione, ma conobbe e capì molti principi della vita interiore, e molte cose
divine e umane; con tanta luce che tutto gli appariva come nuovo. Non è
possibile riferire con chiarezza le pur numerose verità particolari che egli
allora comprese; solo si può dire che ricevette una grande luce dell'
intelletto.
Il rimanere con l'intelletto illuminato in tal modo fu così
intenso che gli pareva di essere un altro uomo, o che il suo intelletto fosse
diverso da quello di prima.
Tanto che se fa conto di tutte le cose apprese
e di tutte le grazie ricevute da Dio, e le mette insieme, non gli sembra di
avere imparato tanto, lungo tutto il corso della sua vita, fino a sessantadue
anni compiuti, come in quella sola volta» (n. 30). E sappiamo che dopo
decine di anni ricordava ancora perfettamente la sua illuminazione e affermava
che, qualora si fosse persa la sacra Scrittura, sarebbe riuscito a ricostruirla
partendo dall'intuizione ricevuta.
Di consolazioni della mente abbiamo tutti
molto bisogno, specialmente quanti, avendo responsabilità di altri nella
Chiesa, devono essere lungimiranti per collocare in un quadro organico più
vasto il cammino delle persone loro affidate.
- Sperimentiamo la consolazione del cuore allorché
sentiamo crescere in noi, anche senza una particolare illuminazione
dell'intelletto, l'amore alla preghiera, l'amore a Gesù, la devozione, la
pietà, e ci sentiamo accesi interiormente davanti all'Eucaristia o di fronte
alle sofferenze degli altri. Il cuore si riscalda e si scioglie per la mozione
dello Spirito santo.
La consolazione affettiva è molto importante
perché, nella molteplicità degli impegni e degli incontri quotidiani, ci aiuta
a non perdere il gusto della preghiera e del contatto personale, sincero,
profondo, con le persone.
- Infine, la consolazione della vita è
la situazione spirituale in cui lo Spirito santo opera dall'interno, facendo in
modo che si compiano le opere del Vangelo con pazienza, con coraggio e con
perseveranza. È una consolazione percepibile nei suoi effetti, non in se
stessa. Quando incontriamo una persona che, malgrado le fatiche, le critiche, le
difficoltà, le stanchezze, prosegue nel servizio di Dio e del prossimo con
amore, umiltà, fedeltà, ci si rende evidente che è mossa e sostenuta dallo
Spirito.
* Passiamo alla Regola riguardante la desolazione
spirituale: «Chiamo desolazione tutto ciò che si oppone alla terza regola,
per esempio l'oscurità dell'anima, il suo turbamento, l'inclinazione alle cose
basse e terrene, l'inquietudine dovuta a vari tipi di agitazioni e tentazioni,
quando l'anima è sfiduciata, senza speranza, senza amore e si trova
tutta pigra, tiepida, triste e come separata dal suo Creatore e Signore». È un
elenco di stati d'animo terribili. E continua: «Infatti, come la
consolazione è contraria alla desolazione, così i pensieri che nascono dalla
consolazione sono opposti ai pensieri che nascono dalla desolazione» (n. 317).
Osserviamo che vengono descritti con maggior
facilità gli stati d'animo della desolazione, perché sono molteplici e più
percepibili. Ed è utile ricordare che fanno parte del cammino di ogni persona,
soprattutto di chi ha una vita spirituale profonda. È una fenomenologia che si
verifica di frequente; vi sfuggono coloro che - come ho già accennato -, non
lottando più con i propri difetti e accontentandosi della propria tiepidezza,
non vengono assaliti da satana.
Al riguardo gli autori spirituali hanno
parlato a lungo e in maniera sistematica nei loro testi di ascetica e di
mistica. Anche tanti santi hanno descritto le loro esperienze; ricordo
soprattutto san Giovanni della Croce nelle sue straordinarie opere Salita del
Monte Carmelo e Notte oscura.
Ed è impressionante costatare come anime
semplici sono entrate e sono rimaste per lungo tempo in questa terribile
sofferenza.
Abbiamo già menzionato le prove di santa
Teresa di Gesù Bambino. E pure Madre Teresa di Calcutta, dopo aver
goduto per anni delle consolazioni dello Spirito, è precipitata in uno stato di
oscurità e di desolazione spirituale, durato fino alla morte, di tentazione
contro la fede, che superava attraverso l'esercizio eroico della carità.
* Consideriamo ora due Regole degli Esercizi
che esprimono il comportamento da tenere durante la desolazione.
- «In tempo di desolazione non si facciano
mai mutamenti, ma si resti saldi e costanti nei propositi e nelle decisioni che
si avevano il giorno precedente a tale desolazione o nella decisione che
si aveva nella precedente consolazione. Perché, mentre nella consolazione ci
guida e ci consiglia di più lo spirito buono, nella desolazione ci guida quello
cattivo con i consigli del quale non possiamo imbroccare nessuna strada giusta»
(n. 318).
N ella desolazione ci salva dunque la
perseveranza. Quando fu chiesto a santa Teresa di Gesù Bambino come poteva
cantare «la felicità del cielo», pur se non sentiva più la fede, lei
rispose: «Canto ciò che voglio credere» (MA 280).
- Anche la seconda Regola è estremamente
significativa: «Chi si trova nella desolazione, consideri come il Signore lo
lascia nella prova affidato alle sue forze naturali, perché resista alle molte
agitazioni e tentazioni del nemico; infatti può fare ciò con l'aiuto divino
che gli resta sempre, sebbene non lo senta chiaramente perché il Signore gli ha
sottratto il suo grande fervore, l'intensità dell' amore e della grazia, pur
lasciandogli la grazia sufficiente per la salvezza eterna» (n.
320).
Conosco persone che sono state fortemente
aiutate nella desolazione dal ripetere questa parola: con l'aiuto di Dio posso
resistere, sono certo della sua grazia. Tale certezza ha permesso loro di
superare quei momenti di prove durissime.
* Mi sembra bello infine citare la prima delle
Regole della Seconda settimana, la cosiddetta «Regola della gioia»,
fondamentale per la vita personale e per la vita della Chiesa, per riconoscere
la presenza delle mozioni dello Spirito, che si trova ovunque vi sia vera
letizia interiore: «È proprio di Dio e dei suoi angeli dare con le loro
mozioni vera letizia e godimento spirituale, togliendo qualsiasi tristezza e
turbamento inoculati dal nemico; per questi è connaturale combattere contro
tale letizia spirituale, adducendo ragioni speciose, sofismi e continue
falsità» (n. 329).
Mentre lo Spirito ispira letizia e gioia,
l'avversario cerca di combatterle in tutti i modi, anche nei modi più nascosti,
intricati e misteriosi.
La «Regola della gioia» è dunque essenziale
per il discernimento personale e per quello pastorale.
L'esperienza della consolazione è infatti
particolarmente necessaria per chi esercita oggi un ministero pastorale, che
spesso è un ministero di consolazione: la gente è stanca, disturbata
mentalmente, psicologicamente, affettivamente, e chiede di essere confortata e
aiutata.
Domandiamo in preghiera la consolazione dello
Spirito per ciascuno di noi, per ogni cristiano che voglia vivere con
profondità e testimoniare con coerenza la propria fede. Domandiamola per ogni
situazione in cui si fa lavoro di frontiera, dove si fa opera missionaria in
senso lato, dove ci si occupa di realtà difficili, per ogni situazione in cui
ci sia bisogno di discernimento.
Signore, noi abbiamo bisogno di te, abbiamo
bisogno del tuo conforto come del pane quotidiano.
Donaci la consolazione dello Spirito, donaci quel tocco di letizia, di serenità, di pace e di gioia che ci permette di fare unità nella nostra vita, di resistere alle tentazioni, di perseverare nella nostra vocazione.
Donaci la consolazione dello Spirito, donaci quel tocco di letizia, di serenità, di pace e di gioia che ci permette di fare unità nella nostra vita, di resistere alle tentazioni, di perseverare nella nostra vocazione.
Concedici, Signore Gesù, per intercessione
di Maria tua Madre, di entrare nel tuo cuore, di amarti sempre più e di poterti
seguire senza alcun riserva. Fa' che conosciamo le azioni, le parole, le
sofferenze della tua vita, per comunicare anche ai tuoi dolori ed essere uniti a
te nella pienezza della gioia. Tu che sei Dio e vivi e regni con il Padre
nell'unità dello Spirito santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.
Rileggendo per l'ennesima volta ieri sera la
lettera di Pietro, ho notato la frequenza dei riferimenti alla Passione di
Gesù; ed è giusto che sia così da parte di colui che si presenta come
testimone delle sofferenze di Cristo:
«Esorto gli anziani che sono tra voi, quale
anziano come loro, testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria
che deve manifestarsi» (5, 1).
Del resto fin dall'inizio la lettera insiste
sulle sofferenze di Cristo, là dove si rivolge ai fedeli «eletti (...) grazie
all' obbedienza di Gesù e all' aspersione del suo sangue» (1,2). E
menziono altri versetti che ritornano sullo stesso tema:
Dio Padre «ci ha rigenerati, mediante la
risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva» (1,3);
lo Spirito santo «prediceva le sofferenze
destinate a Cristo e le glorie che dovevano seguirle» (v. 11);
«voi foste liberati (...) con il sangue prezioso di Cristo,
come di agnello senza difetti e senza macchia» (v. 19);
«Anche Cristo patì per voi, / lasciandovi un
esempio, / perché ne seguiate le orme» (2,21), espressione che fa parte
della lunga pericope su cui ci siamo soffermati parlando del segreto della 1
Pt;
«Anche Cristo è morto una volta per sempre
per i peccati, giusto per gli ingiusti» (3, 18);
«Poiché dunque Cristo soffrì nella carne,
anche voi armatevi degli stessi sentimenti» (4, 1);
«Nella misura in cui partecipate alle
sofferenze di Cristo, rallegratevi» (v. 12).
Possiamo concludere che l'epistola e il
suo segreto - la gioia di comunicare alle sofferenze di Cristo nasce da una
prolungata, profonda e amorosa meditazione sulla Passione del Signore. Non
dobbiamo perciò stupirci se questo grande segreto della gioia nella
partecipazione ai dolori di Cristo ci rimane un po' esteriore, non ci penetra
dentro.
È necessario farlo nostro attraverso una
ripetuta meditazione e contemplazione sulla vita, Passione, morte ,e
risurrezione di Gesù.
È pure la convinzione sottesa allo
svolgimento delle Settimane ignaziane.
Abbiamo già visto come la figura del Cristo
povero e dolente è posta davanti al nostro sguardo già nella Seconda settimana
in alcune meditazioni chiave - la chiamata del re temporale e del re eterno, le
due bandiere di Cristo e di satana -. Mi preme qui sottolineare che esse sono
come incastonate nel tessuto di una serie di ripetute contemplazioni sulla vita
del Signore - l'incarnazione, la nascita, la vita a Nazareth, il Battesimo, la
chiamata dei discepoli, i miracoli, fino alla domenica delle Palme -. La Terza
settimana ci farà poi contemplare a lungo i misteri della Passione, dall'ultima
cena alla cattura, al processo, alla croce.
Non è sufficiente, infatti, per seguire
Gesù, assimilare i suoi insegnamenti. Occorre guardarlo nei misteri di tutta la
sua esistenza, così da renderei meno duro e incomprensibile il linguaggio della
croce. Bisogna lasciarsi attirare da lui, identificarsi con lui, per giungere ad
avere «gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fi12, 5).
Seguendo dunque il cammino propostoci dalla 1
Pt e da Ignazio, ci fermeremo ora a guardare il Signore nella sua Passione.
Per introdurci vi leggo un punto nodale della Seconda settimana, dove si parla
del terzo grado di umiltà, che consiste nello scegliere la via della croce per
essere come e con Gesù: «La terza umiltà è perfettissima e si ha quando,
includendo la prima e la seconda e consentendolo un'uguale lode e gloria della
divina maestà, desidero e scelgo, per imitare e rassomigliare più
effettivamente a Cristo nostro Signore, la povertà con Cristo povero piuttosto
che la ricchezza, le ingiurie con Cristo, che ne è ricolmo, piuttosto che gli
onori, e preferisco di essere stimato stupido e pazzo per Cristo, che per primo
fu ritenuto tale, anziché saggio e prudente in questo mondo»(n. 167).
È stato il desiderio dei santi ed è la
domanda che, se vogliamo, possiamo fare nostra nel corso di questi esercizi.
Sarà il cammino di tutta la vita.
Ci aiuti il Signore a entrare con tali
disposizioni nella contemplazione delle ultime tremende vicende della sua
esistenza.
Mi propongo di riflettere con voi sulla
Passione di Gesù, così da parlargli da amico, contemplando con affetto e
tenerezza ciò che ha sofferto per noi.
Segnalerò alcuni brani del vangelo secondo
Marco a cui fare riferimento, perché è il più semplice. Da parte vostra,
potete approfondire la meditazione anche leggendo gli altri vangeli.
Spesso si considera la Passione delle
sofferenze fisiche, che certamente sono grandi. Un canto religioso natalizio
molto noto in Italia, composto da sant'Alfonso Maria de' Liguori, dottore della
Chiesa e fondatore della Congregazione del SS. Redentore, inizia così: «Tu
scendi dalle stelle, o Re del cielo, e vieni in una grotta al freddo e al gelo.
O Dio beato! Ah, quanto ti costò l'avermi amato!». Dunque si considerano
soprattutto la povertà e i patimenti fisici di Gesù. E anche un recente film -
The Passion offre una rappresentazione molto cruda dei dolori fisici.
Tuttavia la Passione comporta pure delle
profonde sofferenze morali e umiliazioni. Gesù infatti ha messo in gioco per
noi il suo onore, lo ha perduto volentieri: onore di uomo, di fedele ebreo, di
suddito leale dell' autorità romana, il suo onore di Messia, di re d'Israele,
di Figlio di Dio.
Tenendo presenti in particolare le
umiliazioni, rileggo i testi della Passione, cominciando dalle predizioni.
- «E incominciò a insegnar loro che il
Figlio dell'uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai
sommi sacerdoti e dagli scribi» (Mc 8,31).
Questa prima predizione è semplice e insieme
sconvolgente. Gli anziani costituivano il potere politico, amministrativo;
i sommi sacerdoti l'autorità religiosa; gli scribi il potere
intellettuale, la teologia, la cultura.
Ora Gesù prevede che sarà respinto da tutte
queste autorità, che perderà ogni stima da parte di coloro che sono
rappresentanti ufficiali di Dio presso il popolo, persone che contano presso la
gente, ritenute depositarie della verità e della giustizia. Gesù gioca dunque
la sua stima per noi.
- Colpisce pure la seconda predizione:
«Istruiva i suoi discepoli e diceva loro: "Il Figlio dell'uomo sta per
essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso,
dopo tre giorni, risusciterà"» (9, 31). .
Non vengono più elencate le tre grandi
categorie del potere. Sono gli uomini che lo prendono nelle loro mani e lo
eliminano dalla faccia della terra. Gesù si sente respinto e sa che faranno di
lui quello che vorranno; si è fatto uno di loro e proprio da loro è rifiutato.
Non sarà più in possesso del suo corpo, della sua vita, che saranno in potere
di altri.
- C'è una terza predizione: «Ecco, noi
saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell'uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti
e agli scribi: lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, lo
scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno» (10,
33-34).
Tutte le forme di disprezzo della società
religiosa e dell'autorità romana sono rovesciate su Gesù. Non solo è umiliato
davanti al suo popolo, lo è anche di fronte ai goim, a coloro che
Israele disprezzava.
Egli dunque ha previsto con assoluta chiarezza
il suo destino è l'ha accettato per obbedienza al Padre e per amore nostro,
entrando con piena consapevolezza nella Passione che lo attende.
Dei capitoli 14 e 15 di Marco
sottolineo come Gesù viene provato nella sua rispettabilità e
onorabilità, e non soltanto con sofferenze fisiche.
- «In verità vi dico, uno di voi colui
che mangia con me, mi tradirà» (14,18). È una umiliazione
durissima. È una grande vergogna il sapere di essere tradito da uno a cui hai
dato fiducia, da uno degli intimi, una sofferenza morale lancinante; anche
perché sembra uno scacco educativo per Gesù il fatto di non essere riuscito
neppure a tirarsi dietro tutti i Dodici che gli erano più vicini, quasi avesse
sbagliato a scegliere i collaboratori. È tradito e umiliato nella fiducia che
aveva dato ai suoi.
- Gesù inoltre sa che non solo Giuda lo
tradirà, ma che tutti i discepoli rimarranno scandalizzati e lo abbandoneranno:
«E dopo aver cantato l'inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. Gesù disse
loro: "Tutti rimarrete scandalizzati, poiché sta scritto: Percuoterò
il pastore e le pecore saranno disperse"» (14, 26-27). A dire:
nessuno di voi che mi siete stati vicini in questo tempo saprà restarmi accanto
e prendere le mie difese, ma tutti vi vergognerete di me. È il fallimento
completo della sua missione.
- Forse l'umiliazione più grave che Gesù ha
subito è il rinnegamento di Pietro, di colui che sembrava il più entusiasta di
tutti e prometteva di seguirlo fino alla morte: «In verità ti dico: proprio tu
oggi, in questa stessa notte, prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai
tre volte» (14, 30).
Proprio Pietro che Gesù ha tanto amato e su
cui contava di più, al quale ha rivelato il suo segreto messianico e di
figliolanza divina, lo abbandona lasciandolo in totale solitudine.
- Un' altra prova estremamente umiliante
avviene nel Getsemani quando Gesù, presi con sé Pietro, Giacomo e Giovanni,
comincia a provare paura e angoscia: «La mia anima è triste fino alla morte»
(14, 34).
Non so se ci è mai capitato di dire su di noi
una parola così pesante. Bisogna arrivare al limite massimo di debolezza, di
sofferenza, di prostrazione. il Signore è talmente accasciato e schiacciato dal
dolore, che vive l'umiliazione di una tale tristezza.
- Molto umiliante è pure il modo usato dal
traditore, l'antico amico, per consegnarlo ai suoi nemici: «Chi lo
tradiva aveva dato loro questo segno: "Quello che bacerò è lui;
arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta". Allora gli si accostò
dicendo: "Rabbi" e lo baciò» (14, 44-45).
Gesù sperimenta la terribile umiliazione di
una forma di tradimento così ripugnante, vergognosa e ipocrita: viene venduto
con un gesto di amicizia.
- Fino alla cattura nel Getsemani tutte le
umiliazioni avevano toccato Gesù senza togliergli la sua autonomia. Invece
subito dopo l'indicazione di Giuda, 1'evangelista annota: «Essi gli misero le
mani addosso e lo arrestarono» (14, 46).
È un versetto che mi ha sempre impressionato:
dal momento in cui Gesù si vede messe addosso le mani degli altri, perde ogni
libertà e ogni diritto alla dignità umana. Si rende conto che ormai è in
balia della crudeltà, della meschinità, della vendetta degli uomini.
- Di fronte alle tante accuse che gli venivano
fatte, «taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo
interrogò dicendogli: "Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio
benedetto?"» (14, 61). È la domanda decisiva.
Gesù avrebbe potuto continuare a tacere,
oppure rispondere in maniera vaga, e forse si sarebbe salvato. Invece risponde,
per nostro amore, in maniera sincera: «lo lo sono! / E vedrete il Figlio
dell’uomo / seduto alla destra della Potenza / e venire con le
nubi del cielo» (v. 62).
Ha così firmato la sua condanna, dichiarando
con assoluta limpidezza la propria identità, e il sommo sacerdote lo accusa di
bestemmia. Certamente si sarà sentito colpito in ciò che più gli sta a cuore:
la sua unità col Padre.
- Subito dopo è deriso in tutte le sue
prerogative, iniziando da quella profetica: «Allora alcuni cominciarono a
sputargli addosso, a coprirgli il volto, a schiaffeggiarlo e a dirgli:
"Indovina". I servi intanto lo percuotevano» (v. 65).
La sua missione profetica è offesa e
sbeffeggiata. Ed è appunto in tale contesto che il racconto evangelico descrive
la negazione di Pietro: «Non conosco quell'uomo che voi dite» (v. 71).
La sua risposta non è dettata semplicemente dalla paura, ma nasconde una
qualche verità: egli sente che il suo Rabbi lo ha deluso, conducendolo a una
situazione che non avrebbe mai immaginato, e per questo può dire di non
conoscerlo. Dunque Pietro, che poteva essergli vicino, si ritira e lo lascia
nelle mani dei nemici, dei persecutori.
- A questo punto interviene a umiliare Gesù
anche la folla, che chiede la sua morte. Fino a quel momento si era inimicato i
capi del popolo e tuttavia la gente era dalla sua parte, stava con lui. Ora
invece si ritrae: «I sommi sacerdoti sobillarono la folla perché Pilato
rilasciasse loro piuttosto Barabba. Pilato replicò: "Che farò dunque di
quello che voi chiamate il re dei Giudei?". Ed essi di nuovo gridarono:
"Crocifiggilo!"» (15, 11-13).
È respinto dalle persone alle quali aveva
fatto appello diretto, suscitandone il consenso, l'entusiasmo e l'affetto, è
umiliato come benefattore della folla.
- Così viene consegnato ai soldati per essere
crocifisso. E i soldati offendono nella sua regalità proprio lui che era re
d'Israele, destinato a diventare Re dell'universo. Lo rivestono di porpora, gli
mettono una corona di spine, lo salutano «Salve, re dei Giudei!», gli
percuotono il capo con una canna, gli sputano addosso, gli si prostrano davanti
e lo scherniscono (cfr. 15, 16-20).
La sua stessa prerogativa regale, che era il
suo diritto nativo, in forza del quale era venuto a salvarci, è calpestata e
dileggiata.
- La massima umiliazione gli è rovesciata
addosso sulla croce: «I passanti lo insultavano e, scuotendo il capo, esclamavano:
"Ehi, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni, salva te
stesso scendendo dalla croce!". Ugualmente anche i sommi sacerdoti con gli
scribi, facendosi beffa di lui, dicevano: "Ha salvato altri, non può
salvare se stesso! Il Cristo, il re d'Israele, scenda ora dalla croce, perché
vediamo e crediamo"? E anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo
insultavano» (15, 29-31).
La folla, i sacerdoti, perfino i malfattori
crocifissi con lui, lo irridono perché non è capace di scendere dalla croce.
Gesù vive il momento più drammatico della
sua vita. La provocazione dei sacerdoti - gli crederemo se scenderà dalla croce
- è pesantissima, tremenda. Se scende dalla croce crederanno, e però non in
quel Dio che lui è venuto a rivelare, bensì in un Dio che cerca il proprio
tornaconto, il proprio vantaggio; se non scende, continueranno a insultarlo, ma
lui affermerà il Dio misericordioso e umile che ha sempre proclamato nella sua
vita, potrà presentare il vero volto di Dio. Gesù sa bene che potrebbe con un
solo gesto convertire tutti i presenti e che così verrebbe meno alla sua
testimonianza del mistero del Padre. Per questo non scende dalla croce e gli
resta fedele fino alla fine.
- Alle tre del pomeriggio, mentre si faceva
buio su tutta la terra, «gridò con voce forte: "Eloì~ Eloì~ lema
sabactàni" che significa: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?"». (v. 34).
Sono parole di Gesù enigmatiche per noi.
Secondo alcuni importanti teologi contemporanei, come Hans Urs von Balthasar e
altri, indicherebbero che si è sentito umanamente abbandonato dal Padre, che,
pur essendo senza alcuna colpa, ha sperimentato in se stesso quella lontananza e
separazione da Dio che è il peccato, ha vissuto la situazione di peccato. Ha
giocato, per così dire, in qualche modo la sua figliolanza divina, come uomo,
sentendosi abbandonato da quel Padre a cui aveva offerto se stesso senza
riserve.
È un mistero insondabile, e possiamo solo
intuire l'abisso in cui Gesù è precipitato, annichilendosi per riscattarci dal
nostro male.
- Ed ecco che da questo momento inizia la
glorificazione di Gesù, con le parole semplici del centurione che, «vistolo
spirare in quel modo, disse: "Veramente quest'uomo era Figlio di
Dio!"» (v. 39).
Proprio là dove tutto era perduto, dove aveva
perso anche la dignità di Figlio, la sua gloria comincia a manifestarsi e
mostra la fecondità inaudita della croce, fecondità che fermenta il mondo
intero ancora oggi.
Comprendiamo allora quanto profondamente i
testimoni della croce, come Pietro, hanno vissuto il trauma della Passione di
Gesù e ne sono stati toccati e coinvolti. E Pietro, che ha meditato a lungo su
questi eventi, è giunto a esprimere nella sua lettera il segreto della gioia
nella comunione con Cristo sofferente; ha intuito gradualmente che la koinonia,
cioè la partecipazione alle sofferenze di Gesù, è la vera fonte di
salvezza.
Donaci, Signore, la grazia di vivere quel
segreto, di coinvolgerci con gioia nelle tue umiliazioni, che hai vissuto per
noi. Donaci il coraggio di giocarci nella nostra vita come ti sei giocato tu.
Rimettici ogni giorno nella via della fede, nella tua via della croce. Fa’ che
possiamo lasciarci invadere dall’amore per te e contemplare la tua bellezza di
Crocifisso risorto.
Anche per la Quarta settimana degli Esercizi
sant'Ignazio raccomanda all'esercitante di continuare le meditazioni sulla
vita del Signore, dalla Risurrezione all' Ascensione.
A me preme considerare quella «Contemplazione
per raggiungere l'amore» che conclude l'itinerario ignaziano e fa da cerniera
tra l'esperienza degli esercizi e la vita quotidiana. Anzitutto si chiede
di ricordare che «l'amore si deve dimostrare più nelle opere che nelle
parole» (n. 230); quindi che «l'amore
consiste nella comunicazione tra le due parti, cioè nel fatto che l'amante dà
e comunica all'amato quello che ha (...) e allo stesso modo fa l'amato verso
l'amante» (n. 23).
E dopo l'invito a ringraziare per i benefici
ricevuti da Dio (cfr. n. 234), si riflette su «ciò che da parte mia
devo offrire e dare alla sua divina Maestà», pronunciando quello splendido
atto di offerta che vorrei facessimo nostro:
«Prendi, Signore, e accetta tutta la mia
libertà, la mia memoria, il mio intelletto e tutta la mia volontà, tutto ciò
che ho e possiedo: tu me lo hai dato, a te, Signore, lo ridono, tutto è tuo,
disponine a tuo pieno piacimento, dammi il tuo amore e la tua grazia, ché
questa mi basta» (ivi).
È nel quadro di tale offerta che possiamo,
dopo questo tempo di esercizi, ritornare nella vita di ogni giorno. È nella
gioia della Pasqua che, come i due di Emmaus (cfr. Lc 24, 13-35),
vogliamo testimoniare la familiarità vissuta con Gesù nell' ascolto della
Parola e nella frazione del pane. E alla luce dell' amore ci impegniamo nel
servizio del nostro ministero, custodendo nel cuore la speranza che, più pura e
più viva, ci ha riscaldato il cuore.
Ritengo quindi importante per i nostri doveri
di pastori leggere con voi l'ultima delle esortazioni della 1 Pt, l'esortazione,
molto breve ma molto densa, di 5, 1-4.
«Esorto gli anziani che sono tra voi, quale
anziano come loro, testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria
che deve manifestarsi: pascete il gregge di Dio che vi è affidato,
sorvegliandolo non per forza ma volentieri secondo Dio; non per vile interesse,
ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi
modelli del gregge. E quando apparirà il pastore supremo, riceverete la corona
della gloria che non appassisce».
Sono parole rivolte ai presbiteri, gli
anziani, a tutti coloro che sono responsabili di comunità. Le rileggiamo
cercando di rispondere a tre domande: chi fa l'esortazione? a che cosa esorta?
che cosa promette?
Chi esorta è lo stesso Pietro che all'inizio
della lettera si era definito apostolo, il suo titolo di gloria. Si mette
tuttavia al livello dei presbiteri; è sympresbyteros, anziano come loro,
uno di loro, come a dire: le mie parole esprimono l'esperienza che ho vissuto,
un' esperienza simile alla vostra, affinché vi aiutino nel vostro servizio.
Aggiunge due qualifiche.
«Testimone delle sofferenze di Cristo», una
designazione che abbiamo già menzionato. Ora però si comprende che anche
l'arte di essere responsabile di comunità, il modo di presiedere è generato in
Pietro da una lunga familiarità con le sofferenze di Cristo, e che sempre da
qui nasce la sua esortazione.
«Partecipe della gloria che deve
manifestarsi». «Partecipe» (nel greco koinonos) è un termine forte:
comunicante, in comunione.
Ancora una volta Pietro appare uomo aperto
alla speranza; vive infatti la responsabilità di altri, non guardando
semplicemente al presente bensì tenendo viva l'attesa della manifestazione
gloriosa di Cristo. Ci insegna così che ogni presbitero e ogni responsabile di
comunità deve assumere come orizzonte quello eterno; in caso contrario resterà
prigioniero dei problemi e delle ansie proprie della quotidianità. È un
insegnamento per noi assai importante, dal momento che spesso ci lasciamo
travolgere o schiacciare dalle responsabilità e non fissiamo lo sguardo sulla
gloria di Dio che si rivelerà.
L'esortazione fondamentale di Pietro è:
«Pascete il gregge che vi è stato affidato», e la specificherà con tre
caratteristiche.
La parola chiave è «pascete», siate pastori.È la stessa che era stata rivolta a lui dal Risorto sul lago di Tiberiade, quando, dopo la triplice interrogazione: «Mi ami tu?», Gesù gli aveva per tre volte ripetuto: «Pasci i miei agnelli. Pasci le mie pecorelle. Pasci le mie pecorelle» (cfr. Gv 21,15 ss). Pietro trasmette ai presbiteri il mandato che ha ricevuto.
Ed è pure la parola usata da Paolo nel
Discorso di Mileto agli anziani di Efeso: «Vegliate su voi stessi e su tutto il
gregge, in mezzo al quale lo Spirito santo vi ha posti come vescovi a pascere
la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue» (At 20,
28).
Notiamo che Gesù dice: «Pasci le mie pecorelle»;
Paolo: «Pascete la Chiesa di Dio»; e Pietro: «Pascete il gregge di
Dio che vi è affidato».
La Chiesa perciò è di Dio, il gregge è di
Cristo. Risulta chiaro che lui è il vero pastore, il pastore supremo (v. 4:
archipoìmen). Il gregge è suo e di nessun altro, è lui che lo possiede
e lo conduce; noi siamo vicari, collaboratori, aiutanti, delegati.
È fondamentale, per conservare la pace del
cuore e liberarci dall' ansietà, sapere che, pur sacrificandoci per il gregge,
non ne siamo i responsabili ultimi. Siamo certamente responsabili davanti a Dio,
ma ricordando che non potremo mai aver cura della nostra gente più di quanto ne
abbia il Signore. È lui il padrone unico. Noi abbiamo il compito di pascere
«sorvegliando» (epi-skopountes), come chi vede dall'alto e non si
lascia condizionare dalle situazioni, perché vede e giudica l'insieme, senza
affannarsi o preoccuparsi per i particolari, ma valutando tutto in un ambito
generale più vasto.
Un grande filosofo francese che ho conosciuto
personalmente, Jean Guitton, diceva di sé: «Je suis le spécialiste des
ensembles». È un'affermazione paradossale, in quanto chi è specialista si
cura dei particolari. Tuttavia il filosofo, e pure il Vescovo, il parroco, il
responsabile di comunità deve essere uno specialista dell'insieme, per non
rischiare di lasciarsi risucchiare dall'una o dall' altra faccenda.
Seguono le tre caratteristiche del pascere:
«non per forza ma volentieri, secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon
animo; non spadroneggiando sulle pecore a voi affidate, ma facendovi modelli del
gregge».
- «Non per forza», non dando
l'impressione di portare un peso. Conosco presbiteri e anche Vescovi che vivono
molto il loro ministero come fatica e quasi fanno sentire alla gente il
rimprovero per il peso che devono portare. Sovente raccomandavo ai parroci:
guardate che il buon umore della gente dipende dal vostro buon umore. Se voi
siete tristi, affaticati e di cattivo umore, i fedeli si accorgono
immediatamente e non sanno in che modo aiutarvi. Se invece sorridete, siete
contenti, vi seguono volentieri. E lo stesso vale per un Vescovo.
Dunque «non per forza», ma «volentieri»,
come ministero bello e gioioso. Se si vive il proprio servizio con un certo
gusto, volentieri, tutto va meglio e, malgrado le fatiche, le stanchezze, le
delusioni, si può distribuire gioia attorno a sé.
In proposito sant'Agostino, nel De
catechizandis rudibus ha un' espressione assai efficace, là dove esorta il
catechista a catechizzare con gioia: gaudens catechizet. E c'è un passo
della lettera agli Ebrei che recita: «Obbedite ai vostri capi e state loro
sottomessi, perché essi vegliano su di voi, come chi ha da renderne conto;
obbedite, perché facciano questo con gioia e non gemendo: ciò non sarebbe
vantaggioso per voi» (13, 17).
Prosegue Pietro: «secondo Dio». L'espressione,
molto pregnante, probabilmente va interpretata: «secondo la volontà di Dio»,
secondo ciò che lui vuole. Chi è responsabile deve essere sempre conscio di
non compiere la propria volontà, ma quella del Signore e quindi la vive con
pace, serenità, tranquillità. È il Signore che lo guida e si rende in qualche
maniera responsabile delle sue azioni.
- Seconda caratteristica: «non per vile
interesse». Dobbiamo essere liberi da ogni interesse, sia di beni e di
denaro, come pure di prestigio.
Cito a chiarimento due passi della Scrittura.Il primo si trova nel Discorso di Paolo a Mileto:
«Non ho desiderato né argento, né oro, né
la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano
con me hanno provveduto queste mie mani» (At 20, 33-34).
Ha vissuto in povertà il suo ministero, ha
provveduto lui stesso a ciò che avrebbe potuto legittimamente chiedere. Di
fatto fin dall' antichità era uso provvedere ai bisogni dei responsabili di
comunità, al loro sostentamento. Il rischio però di passare da questo al
desiderio di guadagno è forte; e 1'avarizia del responsabile che cerca di
trarre vantaggio dalla propria posizione distrugge la fiducia nella gente.
Un altro esempio di disinteresse lo leggiamo
nel discorso che Samuele rivolge al popolo al termine della sua missione:
«"lo ho vissuto dalla mia giovinezza
fino ad oggi sotto i vostri occhi. Eccomi, pronunciatevi a mio riguardo alla
presenza del Signore e del suo consacrato. A chi ho portato via il bue? A chi ha
portato via 1'asino? Chi ho trattato con prepotenza? A chi ho fatto offesa? Da
chi ho accettato un regalo per chiudere gli occhi a suo riguardo? Sono qui a
restituire!". Risposero: "Non ci hai trattato con prepotenza, né ci
hai fatto offesa, né hai preso nulla da nessuno". Egli soggiunse loro:
"È testimonio il Signore contro di voi ed è testimonio oggi il suo
consacrato, che non trovate niente in mano mia?" . Risposero: "Sì, è
testimonio"» (1 Sam 12,2-5).
È decisiva la testimonianza di disinteresse e
la gente è molto sensibile nel cogliere qualunque segnale di avarizia nel prete
o nel Vescovo.
All' espressione «non per vile interesse» si
contrappone l'affermazione positiva: «ma di buon animo». «Di buon
animo», in greco prothymos, significa quel senso di spontaneità, per
cui non si calcola a chi tocca questo o quel servizio. È la buona volontà, la
dedizione gratuita con la quale si svolge il ministero per amore di Dio e per
amore del gregge.
Non si nega ovviamente che si possa ricevere
il giusto compenso per il proprio sostentamento, e però la gratuità è la
caratteristica evangelica di fondo. Ed è appunto la proprietà del responsabile
che si spende nel servizio alla gente, senza calcolare troppo gli orari e le
prestazioni. È certamente giusto fissare un orario, avere una regolarità, e
però c'è differenza tra il darsi un orario e il ritirarsi in casa, facendo
capire alla gente che non vogliamo essere disturbati.
Sono convinto che il ministero cattolico sta o
cade con la gratuità, che è la risposta alla parola di Gesù: «Gratuitamente
avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10, 8).
Viene alla mente la lettera di un Vescovo
svizzero che fu pubblicata sulla rivista ufficiale della sua diocesi: vedo con
sofferenza il crescere della professionalità e il diminuire della gratuità.
Cresce la professionalità perché gli assistenti laici tengono molto alla loro
professione e anche alloro stipendio; diminuisce la gratuità in quanto sono
sempre meno le persone che si mettono liberamente a disposizione. E concludeva
con saggezza: colgo in questo un segno preoccupante per il futuro della Chiesa.
Uno dei motivi che mi hanno deciso a
promuovere nella diocesi di Milano - pure con molte cautele e precisazioni - il
ministero del Diaconato permanente è il fatto che esso testimonia la gratuità
del servizio in mezzo al popolo di Dio, soprattutto quando il diacono è sposato
e ha famiglia.
- Anche la terza caratteristica è
psicologicamente incisiva: «non spadroneggiando sulle
persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge».
Se Pietro ha scritto queste parole 2000 anni
fa significa che il difetto di spadroneggiare sulle persone affidate è molto
antico. La tentazione dell'autorità è quella che porta a non rispettare la
dignità degli altri, a non fame dei veri collaboratori capaci di assumere una
parte di responsabilità. «Ma facendovi modelli del gregge».
L'autorità nella Chiesa è anzitutto l'autorità dell' esempio, come
ci insegna Gesù:
«Chiamati a sé i Dodici, disse: "I capi
delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di
esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare
grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra
voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell'uomo, che non è
venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per
molti"» (Mt 20, 24-28).
E in una circostanza simile Gesù ha detto
ancora:
«Chi è più grande, chi sta a tavola o chi
serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come
colui che serve» (Lc 22, 27).
È questo l'ideale per un presbitero, per un
Vescovo, per un responsabile di comunità: dare l'esempio, fare per primi ciò
che chiediamo agli altri; insegnare, comandare col nostro modo di vivere. Allora
le nostre parole saranno credibili.
Ritengo utile sottolineare che esiste un
pericolo contrario allo spadroneggiare; è il caso del prete, del responsabile
che non comanda affatto, facendosi anzi guidare dalla gente.
Eppure l'esperienza dimostra che la gente ha
bisogno di una guida, non autoritaria, non imperiosa, non autocratica. Ha molto
bisogno di riferirsi e anche di obbedire a persone che fanno crescere e danno
fiducia di volere il vero bene, in modo da essere accompagnata soprattutto nelle
scelte decisive della vita. E allora si fa disponibile ad ascoltare più di
quanto non si pensi, pur se dobbiamo riconoscere che l'obbedienza è oggi
qualcosa di estremamente difficile.
Le caratteristiche del pascere hanno uno
sbocco, un orizzonte di premio, altrimenti sarebbero un puro dover essere. Così
Pietro conclude: «Quando apparirà il pastore supremo, riceverete la corona
della gloria che non appassisce».
Guarda dunque alla parusia, all'apparire del
pastore supremo, colui che è il responsabile di tutti; e quando apparirà
riceveremo «la corona della gloria che non appassisce», cioè l'eredità di
cui l'apostolo ha parlato fin dal primo capitolo della lettera: un' eredità che
«non si corrompe, non si macchia e non marcisce.., conservata nei cieli per
voi» (l, 4).
L'orizzonte del presbitero, del responsabile
non è necessariamente la gratificazione umana, che può esserci o meno. È la
gratificazione che viene da Dio, il solo giudice del cuore umano, che sa se
abbiamo lavorato davvero di buon animo, non per vile interesse, con spirito di
servizio, con spirito di umiltà. Non sono gli uomini che danno il giudizio su
di noi, pur se spesso ci giudicano e ci criticano.
Al termine dei nostri esercizi, siamo invitati
a pregare molto per noi e per tutti i responsabili, affinché compiano il loro
dovere con gioia e non gemendo, ricordandosi di questa massima: quanto più
grande è la responsabilità, tanto più abbiamo bisogno di silenzio
contemplativo. Non si può vivere una responsabilità senza compensare
l'attivismo pur necessario con lunghi tempi di silenzio, onde evitare di essere
mangiati dalle urgenze. Nei tempi lunghi di silenzio e di preghiera il cuore ha
la possibilità di riorientarsi, la nostra psicologia si riorganizza e
riaffrontiamo con gioia e buona volontà le asprezze della vita quotidiana.
Signore, infondi in noi lo spirito di
preghiera! Noi non sappiamo pregare, non sappiamo che cosa chiedere né come
passare utilmente il tempo dell’ orazione.
Insegnaci a pregare e prega tu in noi. Suggeriscici le parole,
i pensieri, gli affetti dovuti alla maestà di Dio, perché possiamo vivere bene
il momento della preghiera e diventare maestri di orazione per altri.
Ti ringraziamo perché, malgrado la nostra
indegnità, ci hai voluto tuoi collaboratori, partecipi del tuo ministero di
pastore. Illumina la nostra mente, così che conosciamo momento per momento la
tua volontà. Donaci la grazia di compiere con gioia il nostro servizio, perché
possiamo un giorno contemplarti in pienezza e conseguire il premio da te
promesso ai servi fedeli. Amen.
RICONOSCERE
LA GRAZIA DI DIO ( omelia)
Terminiamo gli esercizi celebrando insieme
l'ultima Eucaristia.
Nelle nostre riflessioni non abbiamo parlato
in modo specifico del mistero eucaristico, quel mistero che è sorgente della
Chiesa e la forma, la nutre, la fa crescere. Tuttavia sappiamo che quanto siamo
venuti dicendo trovava compimento giorno dopo giorno nell'Eucaristia e nella sua
forza trasformante. Essa è una sintesi della Trinità e del mondo, è il luogo
di convergenza tra il cielo e la terra.
Noi oggi viviamo questa Messa adorando ancora
una volta la presenza del Signore crocifisso e risorto, nel desiderio di
configurarci a lui, in una vita totalmente donata e dedicata ai fratelli.
In chiave eucaristica mi piace anche accennare
brevemente ai testi della liturgia odierna.
È infatti unendo ci a Gesù nell'Eucaristia che possiamo
leggere pure le nostre sconfitte - ce le richiama la lettura del primo libro di
Samuele (4, 4-11) come una tappa verso la vittoria della fede. Ed è
ancora nell'Eucaristia che Gesù ci «tocca», come ha fatto col lebbroso del
vangelo secondo Marco (1, 40-45), e ci libera da ogni male, da
ogni malattia e debolezza.
Senza però attardarmi sui due brani, benché
importanti ed evocativi, preferisco affidarvi tre ricordi tratti dalla nostra
riflessione sulla 1 Pt.
«Vi ho scritto, come io ritengo, brevemente
per mezzo di Silvano, fratello fedele, per esortarvi e attestarvi che questa è
la vera grazia di Dio» (5, 12).
Sono praticamente le parole conclusive della
lettera e ne costituiscono in certo senso il compendio.
È l'invito a ricordare che le situazioni in
cui il Signore ci pone, le prove che abbiamo affrontato e ancora affronteremo,
le prospettive che ci stanno davanti, sono pura grazia di Dio. Essa è dunque
qui, non lontana da noi, e non dobbiamo cercarla chissà dove. È grazia perché
è gratuita; è grazia in quanto aspetta gratitudine.
Esprimiamo dunque la nostra riconoscenza dal
momento che ciascuno durante gli esercizi ha avuto modo di cogliere la gratuita
manifestazione d'amore della Trinità, la volontà del Signore su di sé. E
impegniamoci a fare della riconoscenza il tessuto dei giorni che la grazia
divina vorrà donarci.
Il secondo ricordo che vi consegno è a
proposito di un tema che abbiamo meditato a lungo, ma su cui non si insiste mai
a sufficienza.
Ritorniamo ai versetti dove Pietro sottolinea
che siamo stati rigenerati «non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè
dalla parola di Dio viva ed eterna». E aggiunge citando Isaia: «Poiché / tutti
i mortali sono come l'erba / e ogni loro splendore è come fiore d’
erba. / L’ erba inaridisce, i fiori
cadono, ma la parola del Signore rimane in eterno» (1, 23-24).
Noi siamo rimasti stupiti scoprendo come la
parola di Dio è sempre sorprendente, sempre nuova e sempre ci spalanca nuovi
orizzonti. Siamo rimasti consolati, pensando che ci può riaprire il cuore e
ridonare speranza ogni volta che, sentendoci stanchi, turbati, depressi,
scettici, afflitti, desolati, aridi, ci accostiamo a essa con fede.
Possa questa fede nella forza rigeneratrice
della Parola esserci guida nel cammino che ci attende.
Vi lascio un terzo ricordo, ispirato ad alcune
parole della 1 Pt, forse le più belle che leggiamo nel Nuovo
Testamento sull' amore personale per Gesù: «Questo Gesù voi lo amate, pur
senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui» (1,
8).
Gesù, che è il centro della nostra vita, va
amato con un amore appassionato, incomparabile rispetto a tutte le altre
amicizie umane, con una tenerezza che ci riempie il cuore e sostiene il nostro
sacrificio e il nostro apostolato.
E la relazione con Gesù fa esultare «di
gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la mèta della vostra fede, cioè
la salvezza delle vostre anime» (vv. 8-9): è l'innamorarsi del Signore
che ci apre gli orizzonti della salvezza e pone in noi la larghezza di cuore e
di mente necessaria per poter vivere con spirito di sacrificio anche in
situazioni sociali e politiche pesanti. Un innamorarsi - ricordiamolo sempre -
che non è frutto di ragione, bensì nasce dalla grazia di Dio e dalla
contemplazione amorosa di quanto Cristo ha fatto per noi.
Preghiamo la Madonna affinché ci ottenga di
vivere questa Eucaristia come il segno efficace del rendimento di grazie per
ciò che abbiamo ricevuto negli esercizi, e chiediamo che i doni di cui siamo
stati colmati diventino fecondi per il bene di molti.