venerdì 31 agosto 2012

Martini: Il segreto della Prima Lettera di Pietro

http://img3.libreriauniversitaria.it/BIT/240/394/9788838483943.jpg


Signore, tu che ci hai permesso di radunarci in un luogo di silenzio, concedici di conoscere il tuo mistero d'amore. Donaci di vivere questi giorni penetrando gioiosamente i misteri che ci rinnovano e ci riempiono di nuovo coraggio per affrontare la vita quotidiana. Te lo chiediamo per intercessione di Maria, Madre di Gesù, e di tutti i santi.
L'inizio di un corso di esercizi spirituali è per me sempre un momento di grande gioia, un incontro con persone che vogliono servire sinceramente Dio. Accolgo ciascuno nella mia preghiera, lieto di vivere insieme a voi l'esperienza di comunione così singolare che è quella degli esercizi: un episodio della storia della propria salvezza per chi li guida e per chi li fa, una grande avventura dello Spirito.
D'altra parte non è senza trepidazione che incomincio questo corso, perché non sappiamo mai dove lo Spirito ci conduce. Mi sento come Davide di fronte a Golia, con tutta la fragilità e la piccolezza davanti al mistero del male che c'è in noi e del bene che Dio desidera offrirci. Mi piace comunque porre a conclusione di questa breve premessa una parola dell’apostolo Paolo nella lettera ai Romani:
«Ho un vivo desiderio di vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale, perché ne siate fortificati, o meglio, per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io» (1,11-12).
Quando guido gli esercizi li vivo io stesso ed è certamente molto più ciò che ricevo di quanto do, perché comunico con la fede di tante persone che mi rendono partecipe della loro esperienza spirituale.
Vi offro anzitutto tre punti su cui riflettere: in che cosa consistono gli esercizi; la vostra situazione nel momento in cui li iniziate; il testo biblico di riferimento che ho scelto.
Gli esercizi spirituali
1. Che cosa non sono
* Non sono una scuola di preghiera, anche se risultano di grande aiuto per entrare nell' orazione.
Noi abbiamo sempre molto bisogno di ricominciare a imparare a pregare. Spesso ci accorgiamo di quanto è vera la parola di Paolo: nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare (cfr. Rm 8,26). Per questo ogni volta occorre ricominciare, tenendo presenti alcune disposizioni interiori semplici e tuttavia nevralgiche, partendo per esempio dall' atteggiamento di riverenza, di adorazione, di silenzio di fronte al mistero di Dio. Talora preghiamo male, proprio perché non ci mettiamo di fronte al Mistero tremendum con quella riverenza, adorazione profonda, silenzio, che sono premessa indispensabile. È questo spirito di riverenza e di senso del nostro niente che dobbiamo ritrovare quando entriamo in preghiera.
Gli esercizi di fatto ci aiutano, sono certamente un momento assai utile per ricominciare il cammino dell'orazione. Non sono però una scuola di preghiera.
* Non sono neppure ciò che oggi si usa proporre in molte nazioni soprattutto nel nord dell'Europa, e che viene chiamato con nomi diversi: scuola di raccoglimento, scuola di preghiera profonda, scuola di unificazione interiore.
Indubbiamente gli esercizi favoriscono il raccogliersi, l'unificarsi, l'uscire dalla dispersione e dalla frammentazione nella quale sono vissute le nostre giornate, ma non sono di per sé una scuola di raccoglimento, bensì qualcosa di più e di diverso.
* Non sono una «lectio divina» su un testo della Scrittura, che infatti si può praticare fuori degli esercizi.
È ovviamente importante fermarsi su un testo biblico, e nel dipanarsi dei nostri esercizi, faremo la lectio divina sulla prima lettera di Pietro. La lectio però si pratica per spingerci a camminare, è come l'asfalto della strada, mentre gli esercizi consistono nel correre velocemente.
* Ancora, gli esercizi, pur se chi li guida parla, non sono nemmeno un ministero della Parola; ossia prediche belle ed efficaci che ci riscaldano il cuore e stimolano al bene.
2. Che cosa sono allora gli esercizi?
Sono un ministero dello Spirito. Partono dalla persuasione che lo Spirito santo è all’opera già prima e meglio di noi, e agisce in noi per farci cercare e trovare la volontà di Dio momento per momento, nella nostra vita. Siamo quindi chiamati ad ascoltare la sua voce, a sintonizzarci con lui, a seguirlo.
Negli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Lodola leggiamo fin dall’inizio, dalla prima Annotazione: «Con il nome di esercizi spirituali si intende ogni modo di esaminare la coscienza, di meditare, di contemplare, di pregare oralmente e mentalmente e di altre attività spirituali come più avanti si dirà» (n.1). Non si parla né di prediche, né di ascolti, bensì di attività personali dello spirito, di attività personali di preghiera che ciascuno vive.
Continua Ignazio: «Infatti, come sono esercizi corporali il passeggiare, il camminare, il correre, così si chiamano esercizi spirituali tutti i modo di preparare e disporre l’anima a togliere da sé tutti i legami disordinati e, dopo averli tolti, di cercare e trovare la volontà divina nell’organizzazione della propria vita per la salvezza dell’anima» (ivi).
Gli esercizi sono perciò operazioni spirituali che compiamo con lo scopo preciso di lasciarci muovere interiormente dalla grazia dello Spirito per cercare la volontà di Dio nella nostra vita.
Naturalmente qui sorge la domanda: come e dove opera lo Spirito?
Possiamo cogliere la presenza dello Spirito solo attraverso la fede, e spesso la sua azione la comprendiamo più tardi; come Mosè, che sul monte vede la gloria di Dio quando è passata. Di solito, considerando gli eventi su larga scala – pensiamo alla vocazione -, ci accorgiamo che lo Spirito ci ha mosso, ci ha portato, ci ha guidato.
Questo non significa che lo Spirito non operi nel momento.
Per esempio, agisce tutte le volte che mette in noi un certo disgusto della nostra mediocrità e ci stimola a desiderare di uscirne; opera in noi quando ci dà la sensazione che qualcosa non va e ci spinge a superarci, a fare un passo avanti fidandoci di Dio; opera tutte le volte che sperimentiamo la gioia di sacrificarci per un altro o la gioia per qualcosa che umanamente ci darebbe pena o sofferenza; e ancora, allorché avvertiamo il desiderio di maggior intimità con Gesù, di parlargli più familiarmente, di dialogare con lui come con una amico; opera quando superiamo delle ansie, delle tentazioni, dei blocchi che irrigidiscono la nostra mente e non ci permettono di agire con scioltezza nel regno di Dio. Sono tutti movimenti dello Spirito.
Gli esercizi consistono proprio nel rendersi conto della sua opera e nel seguirla, nel cogliere dove ci vuole portare. E a quale scopo? Perché noi diventiamo una cosa sola con Gesù, perché viviamo uniti a lui e lui abiti in noi, perché ci assimiliamo a Gesù, imparando a vivere, operare, soffrire, amare, morire come lui.
Gli esercizi originariamente nella formulazione classica di sant'Ignazio, hanno dunque lo scopo di aiutarci a scegliere lo stato di vita secondo la volontà di Dio, quello stato di vita che più ci assimila a Gesù. Quando lo stato di vita è già stato scelto, gli esercizi ci permettono di ritrovare, di riaccettare la volontà di Dio nel momento attuale della nostra esistenza.
Si può esprimere quanto ho detto in un altro modo: gli esercizi consentono di mettere ordine nella propria vita. Spesso, infatti, senza che ce ne accorgiamo, essa si disordina, si frammenta, si logora.
Quando ero Arcivescovo di Milano avevo su un tavolo nella sala delle udienze alcuni miei libri, e uno era intitolato Mettere ordine nella propria vita. I preti e i laici che venivano a incontrarmi lo guardavano interessati e dicevano: va bene per me, questo è ciò di cui ho bisogno.
Mettere ordine nella propria vita significa cercare la volontà che il Signore mi presenta adesso, in questo particolare momento della mia biografia, del mio cammino, dei miei doveri, delle mie prove, delle mie speranze. Gli esercizi sono un mezzo davvero formidabile per mettere un ordine giusto secondo la volontà di Dio, non soltanto una volta nella vita, bensì ogni giorno.
Di conseguenza siamo invitati a favorire le condizioni per cogliere in noi l'azione dello Spirito.
Ne ricordo almeno tre: il silenzio, che ci permette di cogliere la voce dello Spirito; la preghiera prolungata e metodica; l'ascolto della sacra Scrittura, della parola di Dio, non semplicemente per conoscere un libro nuovo della Bibbia che non si è mai magari letto bene, ma per ascoltare la parola di Dio, che ci comunica che cosa vuole da noi. Suggerisco a ciascuno di stabilire almeno tre o possibilmente quattro tempi di preghiera personale prolungata, due al mattino e due nel pomeriggio. Quattro momenti in cui ognuno di noi deve proporsi seriamente di pregare in silenzio davanti a Dio, ripartendo da ciò che abbiamo ascoltato o letto nella Scrittura, o che il Signore ci fa sentire nel cuore.
Se non possiamo dedicare un'ora intera quattro volte al giorno come dice sant'Ignazio di Lojola, proponiamoci almeno tre quarti d'ora o mezz'ora; evitiamo, dopo le meditazioni comuni, di andare un po' qui e un po' là, di leggere qualcosa, senza tuttavia una preghiera calibrata e ben composta.
Questo è un segreto degli esercizi; se non lo si vive, sono un ascolto di alcune parole buone, ma non producono il frutto che lo Spirito santo ha preparato per noi.
Un suggerimento importante
Per quanto vi riguarda sono nodali soprattutto due domande. La prima: come siamo arrivati agli esercizi? Seconda: come vorremmo uscirne?
- È importante chiedersi: in quale momento della mia biografia spirituale mi trovo? Mi sento calmo, tranquillo, disponibile? Oppure stanco, affaticato, magari depresso per qualche evento negativo che mi ha turbato? Oppure amareggiato, pesante?
È molto utile cogliere noi stessi come in uno specchio, per renderci conto di come il Signore ci tocca.
- Altrettanto importante è la seconda domanda: che cosa vorrei ottenere dagli esercizi? Che cosa vorrei chiarire in me stesso? Quale frutto vorrei ricavare?
Questo è 1'oggetto della nostra preghiera, è ciò su cui lavora lo Spirito, in modo diverso per ciascuno di noi.
Il testo biblico di riferimento
Ho pensato di prendere come riferimento degli esercizi la prima lettera di Pietro. Il motivo della mia scelta è anche pragmatico, perché 1'anno scorso, a Gerusalemme, dove mi sono ritirato alla conclusione del mio servizio episcopale a Milano, mi sono dedicato alla recensione critica del papiro Bodmer VIII, il più antico esemplare (è del III secolo) delle due lettere di Pietro.
A poco a poco me ne sono innamorato e ho ritenuto dunque che fosse utile e bello proporvi almeno la prima, una lettera che vuole incoraggiare cristiani in situazione non facile. Mi sembra del resto che di incoraggiamento abbiamo bisogno pure oggi.
Naturalmente non farò una lectio continua, in quanto lo scopo degli esercizi non è quello di una lezione esegetica; mi lascerò piuttosto guidare dalla dinamica degli Esercizi spirituali: scegliendo i brani della lettera che corrispondono alla dinamica del cammino di conversione che in essi ci viene proposto.
Sono infatti convinto che il percorso degli Esercizi mette in sintesi quello della rivelazione biblica, e quindi il loro dinamismo si può ritrovare nei diversi testi della Scrittura.
Chiediamo alla Madonna di aiutarci a vivere questi giorni come vero e proprio luogo di azione dello Spirito santo, non come scuola di preghiera o di raccoglimento, non come lectio divina o ministero della Parola. E invochiamola così: «Patrona exercitiorum, ora pro nobis».



Mi lascio ispirare per la preghiera iniziale dal testo della lettera agli Ebrei:
«Entrando nel mondo, Cristo dice: / Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, / un corpo invece mi hai preparato. / Non hai gradito / né olocausti né sacrifici per il peccato. / Allora ho detto: Ecco, io vengo / - poiché di me sta scritto nel rotolo del libro - / per fare, o Dio, la tua volontà» (10, 4).
Signore Gesù, fa’ che queste parole siano nostre. Noi siamo qui per compiere, o Padre, la tua volontà nella quale sta la nostra pace. Donaci l’abbondanza dello Spirito affinché possiamo vivere secondo la tua volontà ora, momento per momento, e discernerla nella nostra vita. Spirito di amore e di santità, vieni in noi con i tuoi doni di sapienza, di intelletto, di consiglio. Illumina i nostri cuori e le nostre menti.
Una domanda previa mi ha accompagnato e inquietato nei giorni scorsi: sarà proprio utile la prima lettera di Pietro per accompagnare un corso di esercizi?
È vero, e l'ho già accennato, che il carisma di sant'Ignazio è stato appunto di riassumere nel suo libro il dinamismo fondamentale delle Scritture.
Tuttavia non ogni pagina della Bibbia è ugualmente adatta per guidare il cammino degli esercizi. Io stesso ho preferito finora scegliere delle figure - Abramo, Mosè, Davide, Samuele, Geremia, Pietro, Paolo ecc. oppure le pagine narrative dei vangeli, perché è più facile cogliervi un processo dinamico simile a quello degli Esercizi.
Ma in una lettera parenetica, dove trovare tale dinamica? Siamo sicuri che ci aiuterà davvero e non sarà un impedimento? Ecco il dubbio che avevo. Tanto più che la 1 Pt è, in parecchie pagine, lontanissima dalla nostra cultura occidentale, è datata, per esempio dove parla delle autorità, degli schiavi, delle mogli e dei mariti.
D'altra parte la lettera, come ogni libro della Scrittura, ha un suo svolgimento, simile a quello degli Esercizi. Leggiamo nel c. 1 che i profeti
«cercarono di indagare a quale momento o a quali circostanze accennasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che dovevano seguirle» (v. 11).
In realtà gli Esercizi sono centrati sulla percezione delle sofferenze e della gloria di Cristo. La corrispondenza tra le Scritture e gli Esercizi è evidente.
E ancora, alla fine della lettera:
j «Vi ho scritto, come io ritengo, brevemente per mezzo di Silvano, fratello fedele, per esortarvi e attestarvi che questa è la vera grazia di Dio» (5, 12).
Dunque lo scopo di Pietro, è di far riconoscere la volontà di Dio in ciò che stanno vivendo i destinata,ri della lettera, pur nelle sofferenze che li rendono simili a Cristo. E questo è molto consono alla ricerca della volontà di Dio, propria degli Esercizi.
Sono perciò fiducioso che la lettera ci aiuterà.
Da un punto di vista metodologico, dovremmo tenere presenti alcune domande: quale esperienza spirituale suggerisce il testo di Pietro che stiamo leggendo? Quali risonanze e affinità o resistenze trova in me? Quale relazione ha con la dinamica degli Esercizi? Oppure, specularmente: che cosa comporta a questo punto la dinamica degli Esercizi? Come la pagina che stiamo leggendo vi corrisponde e quali suggerimenti ne seguono per noi, per l'attualizzazione - è il momento della lectio e della meditatio -? Quali stimoli ne vengono per la preghiera e la contemplazione?
Il primo percorso va dalla 1 Pt agli Esercizi; il secondo dagli Esercizi alla 1 Pt.
Ciò che vorrei di nuovo sottolineare è che non intendo praticare la lectio divina della lettera, ma leggerla tenendo presente l'itinerario ignaziano.
Riflettiamo sulla prima pagina degli Esercizi spirituali, chiamata Principio e fondamento.
È una sorta di premessa all'intero svolgimento del cammino, esprime la visione previa della vita dalla quale si parte per compiere l'itinerario di ricerca della volontà di Dio. «L'uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore e per salvare, in questo modo, la propria anima; e le altre cose sulla faccia della terra sono create per l'uomo affinché lo aiutino al raggiungimento del fine per cui è stato creato. Da qui segue che l'uomo deve servirsene, tanto quanto lo aiutino a conseguire il fine per cui è stato creato e tanto deve liberarsene quanto glielo impediscano. Per questa ragione è necessario renderci indifferenti verso tutte le cose create (in tutto quello che è permesso alla libertà del nostro libero arbitrio e non le è proibito) in modo da non desiderare da parte nostra più la salute che la malattia, più la ricchezza che la povertà, più l'onore che il disonore, più la vita lunga che quella breve, e così tutto il resto, desiderando e scegliendo solo ciò che più ci porta al fine per cui siamo stati creati» (n. 23).
Questa pagina è Principio perché bisogna cominciare da Dio, Creatore, Signore e fine dell'uomo; ed è anche Fondamento, perché tutto ciò che si costruisce ha qui la sua radice: cercando anzitutto e solo la volontà di Dio, per la salvezza dell' anima.
Potremmo anche chiamarla una premessa teologica e metodologica degli Esercizi. Teologica, in quanto tutto parte da Dio; premessa metodologica in quanto tutto è subordinato alla ricerca del fine, cioè la volontà del Signore, e questo è a sua volta subordinato alla vita eterna e alla salvezza dell' anima.
Nella 1 Pt troviamo ugualmente un presupposto che può fare da principio e fondamento della lettera?
Parto da un' osservazione linguistica.
Ci sono molte proposizioni in forma indicativa, cioè affermativa e ci sono tante altre frasi esortative all'imperativo. Il testo è composto sempre come di due momenti: un momento affermativo, nel quale si asseriscono delle verità, e un momento esortativo nel quale si invita a vivere secondo tali verità.
Per esempio, momento affermativo: «Dio ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti per una speranza viva» (1 Pt 1, 3); oppure: «Venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale» (2, 5).
Momento esortativo: «Siate vigilanti, fissate ogni speranza in quella grazia che vi sarà data» (1, 13); oppure: «A immagine del Santo che vi ha chiamati, diventate santi anche voi in tutta la vostra condotta» (v. 15); ancora: «Come bambini appena nati bramate il puro latte spirituale» (2, 2). È chiara anche sintatticamente la differenza tra l'indicativo e l'esortativo o imperativo.
Consideriamo dunque nella 1 Pt le pagine all'indicativo, che esprimono il principio e fondamento dell'esortazione, pagine che si trovano in particolare nei primi due capitoli, soprattutto da 1, 1 a 2, 10. Su di esse rifletteremo ora e nella prossima meditazione.
Notiamo che la 1 Pt è un capolavoro letterario ed è scritta con uno stile scorrevole, in un greco elaborato, di eccellente qualità, con un vocabolario ricco e vario. È inoltre densissima, suppone un' esperienza spirituale molto profonda e condensata. Noi però la avviciniamo in maniera semplice, secondo le scansioni della lectio divina: la lectio, che consiste nel leggere e rileggere il testo, per metterne in rilievo le scansioni, la struttura, gli elementi portanti, le parole chiave; la meditatio, che consiste nel chieder ci quali sono i valori del testo, in relazione al momento degli esercizi spirituali che stiamo vivendo; infine la contemplatio, che ci mette davanti al Signore Gesù per entrare in colloquio con lui che ci ha parlato attraverso il brano biblico. È il tempo prezioso del vostro dialogo personale col Signore e mi limiterò ad offrirvi qualche spunto di preghiera, a modo di avvio.
Mittente, indirizzo, augurio
I primi due versetti - il cosiddetto praescriptum epistolare - tengono il luogo di quella che per noi è la busta, sulla quale scriviamo l'indirizzo e il mittente:
«Pietro, apostolo di Gesù Cristo, ai fedeli dispersi nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell'Asia e nella Bitinia, eletti secondo la prescienza di Dio Padre, mediante la santificazione dello Spirito, per obbedire a Gesù Cristo e per essere aspersi del suo sangue: grazia e pace a voi in abbondanza» (1 Pt 1) 1-2).
* Anzitutto il mittente, Pietro.
È un pescatore di Galilea diventato poi apostolo; come sappiamo dai vangeli, ha avuto la grazia di proclamare Gesù Cristo Figlio di Dio, Messia; è colui che l'ha rinnegato ed è stato perdonato; che ha seguito il cammino delle primitive comunità da Gerusalemme, a Giaffa, a Cesarea.
Come apparirà alla fine della lettera, Pietro è stato aiutato nella stesura da Silvano. Del resto gli esegeti sono scettici sulla paternità petrina e si domandano: come poteva un pescatore scrivere in modo tanto elaborato, con un linguaggio preciso, profondo, denso e incisivo? La lettera non è forse da addebitare alla primitiva comunità romana, dove c'erano persone di grande cultura?
Sta di fatto che l'epistola è messa sotto l'autorità di Pietro, «apostolo di Gesù Cristo». La sua missione è quella di inviato da Gesù e tutta la sua dignità è relativa appunto a lui.
* A chi scrive Pietro?
«Agli eletti dispersi». La traduzione CEI del testo parla prima di «fedeli dispersi nel Ponto, nella Galazia...», e aggiunge poi «eletti secondo la prescienza di Dio Padre...». Il testo greco, invece, più concisamente recita: «Pietro... agli eletti dispersi (eklektois parepidémois); ed è molto forte il collegamento.
«Eletti» richiama la grande dignità del popolo di Israele, il popolo eletto; propone la grande dignità di essere scelti da Dio, con amore, dall' eternità, per una missione. Mentre «dispersi» evoca povertà e fragilità, indica la sofferenza di gente che non ha una patria ed è messa ai margini della società. «Dispersi» vuol probabilmente dire che non abitano in modo stabile in un luogo e mancano dei diritti civili fondamentali. Costituiscono perciò la parte un po' disprezzata della popolazione, come lo sono oggi molti profughi e lavoratori stranieri che non hanno diritto di cittadinanza.
C'è forse (ma è difficile stabilirlo con certezza) anche una memoria del popolo ebraico in diaspora: come il popolo ebraico, anch' essi partecipano della dispersione tra le genti, che costituisce una particolare presenza salvifica di Dio pure in situazioni umili e povere.
Interessanti le indicazioni geografiche. «Dispersi»: nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell' Asia e nella Bitinia. Probabilmente si tratta di quattro e non di cinque regioni romane, perché il Ponto era unito alla Bitinia. Tutte e quattro er.ano regioni dell'odierna Turchia, allora lontane dai grandi centri di comunicazione.
Non è facile spiegare l'ordine in cui sono menzionate. Si parte dal Ponto, al nord della Turchia, si scende verso il centro con la Galazia e la Cappadocia, ci si sposta verso l'ovest con l'Asia, provincia visitata pure da san Paolo, e si ritorna al nord con la Bitinia. Gli esegeti si chiedono il perché di tale ordine e ritengono che ci si debba riferire all'itinerario che seguirà Silvano, per portare la missiva. Possiamo dunque seguire il percorso di questa lettera che, notiamo, è circolare, rivolta cioè non a una comunità, ma a molte, a cristiani sparsi in mezzo ai pagani, abbandonati a se stessi e quindi privi di una forte esperienza comunitana.
È bello notare l'amore con cui un apostolo da lontano, cioè da Roma, vuole essere vicino a questi cristiani nella loro situazione storica, geografica e culturale.
Osserviamo ancora che l'elezione, l'essere amati da Dio, viene subito specificata trinitariamente, ed è molto importante perché sta a dire che il pensiero, della Trinità riempiva il cuore dei primi cristiani: «eletti» «secondo la prescienza di Dio Padre» (cioè Dio Padre da sempre vi ha amato e vi ha scelto); «mediante la santificazione dello Spirito» (lo Spirito opera in voi, siete lavorati, santificati, mossi dallo Spirito); «grazie all'obbedienza e al sangue di Gesù». Distaccandomi dalla traduzione CEI, «per obbedire a Gesù Cristo», preferisco allinearmi con l'esegeta Elliott: «grazie all'obbedienza che Gesù ha fatto al Padre». È l'obbedienza che Gesù ha vissuto rispetto al Padre che ci rende eletti. «Grazie all'aspersione del suo sangue»: come l'aspersione del sangue consacrava l'arca dell' alleanza e indicava l'elezione di Israele.
Non abbiamo tempo di scrutare tutte le radici veterotestamentarie delle parole di Pietro; possiamo però capire come sono dense di richiami, in particola re all'aspersione del sangue che Mosè fa nel c. 24 dell'Esodo, aspersione del popolo e dell' altare:
«Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l'altra metà sull'altare. C..) Allora Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell' alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!» (vv. 6.8).
Mi piace infine ricordare che il termine «prescienza» (prognosis) occorre solo due volte nel Nuovo Testamento, qui e in At 2, 23:
«Dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l'avete inchiodato sulla croce per mano di empi e lo avete ucciso»
dove indica la preveggenza di Dio per le sofferenze di Gesù. Tuttavia si trova anche altrove il verbo progignoskein, per esempio in Rm 8,29 (proégno), dove Paolo descrive la conoscenza e l'amore di Dio, che dall' eternità ha conosciuto e poi scelto.
Vedete come questa lettera è densa fin dalle sue prime righe.
* A conclusione dei primi due versetti, l'augurio: «grazia e pace a voi in abbondanza».
Un augurio abbastanza raro nel Nuovo Testamento, perché di solito troviamo «grazia e pace a voi». Qui si aggiunge il verbo plethyntheie: abbondi, si riempia in pienezza in voi la grazia e la pace di Gesù.
Questo augurio di grazia e pace in abbondanza si trova pure nell'indirizzo (1,2) della 2 Pt. È una caratteristica delle due epistole petrine.
Coscienza battesimale
Ora, nel momento della meditatio, ci domandiamo: a quale esperienza spirituale rispondono queste parole? Certamente sono frutto di una profondissima e ricchissima esperienza.
A me sembra che rispondano, sia in Pietro che scrive, sia nei cristiani dispersi che leggono, a una forte coscienza di un Dio che ci ha amato per primo, opera in noi per mezzo dello Spirito e ci salva grazie all'obbedienza di Gesù. Potremmo dire, una straordinaria coscienza battesimale: Dio ci ha amati per primo, lo Spirito santo ci santifica nel battesimo, Gesù ci redime donando la sua vita per no!.
Ci chiediamo: che cosa corrisponde in me, in noi cristiani di oggi, a tale esperienza spirituale? Abbiamo davvero una profonda coscienza battesimale del nostro legame con la Trinità, Padre, Figlio e Spirito santo?
Oggi purtroppo abbiamo spesso di noi una visione ristretta, un po' grigia e rassegnata. Il nostro cristianesimo consiste nel fare certe cose, nel compiere certi obblighi, nel portare certi pesi, nell' eseguire certe osservanze; e ci consideriamo una piccola e povera realtà rispetto alla potenza mondana. Tutto questo lo viviamo con smarrimento e non con la coscienza della grazia di Dio.
Se la nostra coscienza battesimale è scarsa, è dunque urgente chiedere la grazia che venga ravvivata. Di fatto tocchiamo qui l'esperienza del Principio e fondamento, quella di essere creature di Dio, da lui amate e chiamate a una grande missione.
Avvio alla «contemplatio»
Vi invito a pregare contemplando la Trinità che è in noi e la chiamata di Dio per ciascuno, con gratitudine e con gioia, con fierezza e con orgoglio. Possiamo essere i più disperati o disgraziati uomini della terra, non contare niente politicamente o economicamente, e però siamo amati da Dio dall' eternità e lo Spirito opera in noi per una grande missione.
Pietro vuole indicarci appunto le conseguenze della straordinaria elezione trinitaria del semplice cristiano, che vive in condizioni di solitudine o di debolezza: l'altissima dignità del cristiano che gli permette di essere fiero, gioioso, contento, ottimista, anche in situazioni di marginalità sociale e culturale, e addirittura nell'umiliazione e nella sofferenza. .
È la nostra coscienza battesimale e vocazionale, che dobbiamo coltivare quale principio e fondamento di tutto il nostro esistere e operare cristiano. La 1 Pt ci invita ad avere una grande idea di noi.
O Dio Padre nostro, Tu ci hai tanto amato fin dall'eternità e hai previsto tutte le situazioni nelle quali ci saremmo trovati nei diversi tempi della nostra vita. Tu ci hai riempito dello Spirito santo, perché ci desse la forza, il discernimento per vivere in verità ogni nostro giorno. Tu ci hai santificato e ci santifichi con l’obbedienza di Gesù fino alla morte e con l'aspersione del suo sangue, che vengono continuamente rinnovate in noi nell’Eucaristia. Ti chiediamo, per intercessione di Maria, di riconoscere con gioia i tuoi grandi doni, per poterli mettere a frutto nella vita quotidiana, a servizio della tua Chiesa.
Passiamo ora alla lettura dei versetti successivi:
«Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, per la vostra salvezza, prossima a rivelarsi negli ultimi tempi. Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un po' afflitti da varie prove, perché il valore della vostra fede, molto più preziosa dell' oro, che, pur destinato a perire, tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo; voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la mèta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime.
Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti che profetizzarono sulla grazia a voi destinata cercando di indagare a quale momento o a quali circostanze accennasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che dovevano seguirle. E fu loro rivelato che non per se stessi, ma per voi erano ministri di quelle cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo nello Spirito santo mandato dal cielo: cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo» (1 Pt 1, 3-12).
È una pagina ricca di prospettive teologiche, piena di entusiasmo e di speranza.
Cerchiamo anzitutto, nel momento della lectio, di cogliere la struttura del testo, che si compone di tre parti: la coscienza escatologica del cristiano (vv. 3-5), la gioia nella prova (vv. 6-9), la coscienza messianica del cristiano (vv. 10-12). Sono per così dire tre elementi di principio e fondamento.
La coscienza escatologica del cristiano
«Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo». Inizia con quella che in ebraico si chiama berakah, una benedizione, che conosciamo da altre lettere del Nuovo Testamento, per esempio 2 Cor: «Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo» (1, 3).
Alla benedizione seguono delle proposizioni affermative, che indicano il principio e fondamento dell'esortazione della lettera: «Dio nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce».
La parola chiave è speranza: «Dio ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva», speranza che viene poi specificata in tre modi: è un'eredità che «non si corrompe» (a-phtharton), «non si macchia» (a-mianton), «non marcisce» (a-maranton). L’alfa privativo indica come questa speranza è assolutamente intoccabile e ha un carattere di definitività. È l'esperienza di una apertura eterna, non limitata a piccoli tempi della vita e all'esistenza terrena. E benediciamo Dio che ci ha donato una prospettiva che va ben al di là della morte, per raggiungere la pienezza stessa di Dio, la sua felicità.
Speranza viva che «è conservata nei cieli per voi». Pietro, dopo aver detto: «Dio ci ha rigenerati», passa subito al «voi»: «Essa è conservata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, per la vostra salvezza, prossima a rivelarsi negli ultimi tempi».
Siamo ammirati di come la primitiva comunità cristiana riusciva a esprimere in maniera così profonda il dogma. Noi non saremmo capaci oggi di scrivere una frase tanto densa come questa.
Il termine è dunque la speranza viva, che è eterna, che viene conservata nei cieli dalla potenza di Dio e che si rivelerà negli ultimi tempi. È una speranza escatologica. E il principio e fondamento è questa speranza del cristiano, resaci certa da Dio e donataci mediante la risurrezione di Gesù dai morti.
La gioia nelle prove
Ne deriva un secondo principio e fondamento ed è la gioia nelle afflizioni (vv. 6-7): «Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un po' afflitti da varie prove, perché il valore della vostra fede, molto più preziosa dell'oro, che, pur destinato a perire, tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo». Il cristiano, attendendo la manifestazione escatologica di Gesù Cristo, sperimenta la gioia pur nelle prove del presente.
Dopo la menzione di Gesù Cristo alla fine del v. 7, leggiamo un' effusione d'amore molto bella nei vv. 8 e 9: «Voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la mèta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime».
È un approfondimento del pensiero fondamentale. Dal momento che tutto è giocato sulla speranza di ciò che verrà e la speranza riempie di gioia il momento presente, vi riempie di gioia anche l'amare Gesù, pur senza averlo visto. È la beatitudine che sgorga dalla speranza, dall' amore e dalla fede, e si manifesterà alla fine nella salvezza delle anime.
Osserviamo come quella che è stata proclamata speranza viva nel v. 3 viene poi ripresa come fede nei vv. 7 e 9: «il valore della vostra fede, molto più preziosa dell'oro», «mentre conseguite la mèta della vostra fede».
Notiamo inoltre che ambedue le parti terminano con la menzione della salvezza escatologica. Il v. 5 recita: «Dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, per la vostra salvezza, prossima a rivelarsi negli ultimi tempi»; e il v. 9: «mentre conseguite la mèta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime».
Questi versetti sono dunque una grande contemplazione mistica della salvezza escatologica del cristiano ed esprimono la coscienza della gioia che essa suscita fin da ora, nel presente.
Coscienza messianica
I vv. 10-12 offrono un terzo principio e fondamento: il riconoscersi l'oggetto ultimo del disegno di salvezza proclamato dai profeti nel Primo Testamento. Tutto ciò che è avvenuto riguarda noi: «Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti che profetizzarono sulla grazia a voi destinata» (v. 10).
Il v. 11 è considerato una lente ermeneutica per la lettura dell'intera Bibbia: «cercando di indagare a quale momento o a quali circostanze accennasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che dovevano seguirle».
Viene alla mente il discorso di Gesù ai discepoli di Emmaus: i profeti avevano previsto le sofferenze e le glorie del Cristo che si sono avverate oggi per voi (cfr. Le 24) 25-27).
Ciò viene detto più chiaramente nel v. 12: «E fu loro rivelato che non per se stessi, ma per voi, erano ministri di quelle cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il Vangelo nello Spirito santo mandato dal cielo; cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo».
Siamo di fronte a una profonda intuizione profetica sul signicato di tutto il Primo Testamento, che ora si adempie nei cristiani.
Concludendo: al principio e fondamento costituito dalla coscienza battesimale (vv. 1-2), la 1 Pt aggiunge il principio e fondamento costituito dalla coscienza escatologica, dalla coscienza potremmo dire gioiosa delle sofferenze di fronte alla pienezza eterna, e della coscienza messianica di essere il punto di arrivo della storia di salvezza.
Prima di passare alla meditatio, sottolineo due parole chiave del testo.
Speranza e salvezza
La prima parola chiave l'ho già accennata: è speranza (v. 3): «per una speranza viva», che ritornerà in 1, 13: «Fissate ogni speranza in quella grazia che vi sarà data»; e ancora concluderà l'esortazione dal c. 1: «Così la vostra fede e la vostra speranza sono fisse in Dio» (v. 21).
La speranza è il leit-motiv presente in tutto il capitolo 1.
Un'altra parola chiave è salvezza: «Dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, per la vostra salvezza» (v. 5). Ritorna al v. 9: «Mentre conseguite la mèta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime», e all'inizio della terza parte: «Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti».
Ci accorgiamo perciò che non senza motivo sant'Ignazio pone salvezza come parola chiave del suo Principio e fondamento: «L'uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore e per salvare in questo modo la propria anima» (n. 23).
È un'espressione che ritorna al n. 177, dove si parla dell' elezione, che è il cuore degli Esercizi e si può fare in una situazione di tranquillità, «tenendo presente perché l'uomo è nato, cioè per lodare Dio nostro Signore e per salvare la propria anima». E di nuovo al n. 179, quando dice che occorre scegliere «ciò che mi sembri meglio per la gloria di Dio nostro Signore e per la salvezza della mia anima».
Non siamo più abituati oggi a parlare di salvezza dell'anima, ma comprendiamo che è un termine tradizionale nella Scrittura e negli Esercizi, e indica il fine dell'uomo quale liberazione dal pericolo della morte eterna.
Attualizzazione
Dopo la lectio vi suggerisco qualche riflessione per il momento della meditatio.
* Se ci domandiamo in quale misura la speranza escatologica è viva e presente oggi nella Chiesa, dobbiamo purtroppo rispondere che è piuttosto dimenticata.
Dalle inchieste sociologiche si ha l'impressione che oltre il 50% di coloro che si ritengono cristiani non credono nella vita eterna o comunque la considerano un' appendice possibile: dobbiamo vivere bene in questa vita, tanto meglio se ce ne sarà un'altra! Non è affatto una prospettiva sull' orizzonte eterno che illumina il presente. In realtà il presente viene illuminato da principi buoni, ma non è letto in quell'ampiezza senza limiti che è l'eternità.
Forse ci siamo lasciati contagiare dall'atmosfera creata dal marxismo nel secolo scorso, che poneva ogni speranza di giustizia su questa terra.
A mio parere la caduta dell' orizzonte escatologico è una delle carenze più gravi della Chiesa in Occidente. Basta confrontare le iscrizioni dei cimiteri dei secoli passati, dove sempre ci si riferiva all' aldilà, con le iscrizioni di oggi dove al massimo si legge: visse una vita buona, fu un buon cristiano, un uomo onesto, leale. Nessuna apertura alla speranza escatologica.
La lettera di Pietro ci ricorda dunque un grave
deficit della nostra Chiesa.
E notiamo che la speranza della vita eterna non è di per sé soltanto speranza della mia salvezza personale, di andare in paradiso, ma speranza che si manifesti il Regno, che venga il giudizio finale sulla storia a mostrare la glorificazione del Cristo risorto, che venga il momento in cui l'umanità intera riconoscerà la regalità di Cristo.
È una speranza che muove tutto il nostro operare perché comincia a realizzarsi fin da ora e, a partire dai suoi segni premonitori, noi dirigiamo il nostro lavoro anche pastorale e apostolico. Soprattutto il Vescovo è chiamato a custodire la grande speranza della venuta del Regno e a indirizzare i cammini della Chiesa nel quadro di questa visione globale.
Mi piace citare una frase di san Paolo:
«Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione» (2 Tm 4, 8).
Mi colpisce l'espressione «che attendono con amore la sua manifestazione», cioè non solo l'aspettano come fine di tutto, ma la amano, la desiderano, la prevengono, la pongono in opera fin da ora.
* La seconda linea di meditazione che suggerisco è presente nei versetti centrali (vv. 6-8).
Quando si ha la visuale del regno di Dio che viene e che noi attendiamo, è più facile considerare le difficoltà e le sofferenze come prove purificanti che preparano il Regno. Tali prove non sono incidenti di percorso o momenti difficili per i quali prima o poi è necessario passare, bensì vere preparazioni alla glorificazione totale del nome di Gesù nel mondo.
Non a caso Pietro scrive: voi attraverso queste sofferenze già «conseguite la mèta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime» (v. 9). La mèta della fede è conseguita da voi fin da questo momento se vivete con una visuale grandiosa della fine della storia.
Signore, tu vedi come la tua Chiesa è spesso oppressa dalle fatiche di ogni giorno e rischia di perdere la speranza e la gioia della vita eterna. Viviamo talvolta rassegnati, portando la nostra croce, ma senza renderei conto che questa croce è fonte di gioia e di purificazione per un ideale in vista del quale vale la pena di spendere tutta la nostra vita. Allarga il nostro cuore e quello di tutti i cristiani, perché possiamo conoscere la speranza a cui siamo chiamati. E concedi che ogni Eucaristia sia esperienza e pregustazione della pienezza che tu ci prepari.

Noi ti ringraziamo, o Padre, perché ci nutri con la tua Parola di verità e la fai giungere a noi dopo tanti secoli, attraverso le parole dell’apostolo Pietro. Fa' che anche noi partecipiamo alla sua esperienza della morte e risurrezione di Gesù, alla sua speranza nella gloria. Egli che ora vive in questa gloria presso di te interceda per noi, con la beata vergine Maria, per farci desiderare i beni eterni e proiettare sulle nostre azioni quotidiane la luce della tua volontà e la potenza dello Spirito santo. Te lo chiediamo, o Padre, per Cristo nostro Signore.
Tralasciando per ora di soffermarci sulle parole esortative di 1 Pt 1, 13-22, continuiamo a riflettere su alcuni versetti assertivi, affermativi, che esprimono due ulteriori formulazioni di principio e fondamento. Considereremo 1 Pt 1,23-25; 2,4-5. 9-10. Di ciascuno di questi brani faremo la lectio e la meditatio.
Leggiamo il testo:
«...essendo stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna. Poiché / tutti i mortali sono come l'erba / e ogni loro splendore è come fiore d’erba. / L’erba inaridisce, i fiori cadono, / ma la parola del Signore rimane in eterno» (1, 23-25a).
* L'autore ha una fortissima coscienza del fatto che il cristiano è generato dalla Parola. Ha insegnato precedentemente che la misericordia del Padre ci ha rigenerato, ci ha fatto nascere di nuovo; e qui aggiunge che la rigenerazione è dalla parola di Dio. Il nostro vivere cristiano non viene da un seme naturale, umano e corruttibile, ma da un seme immortale.
La Parola è quindi all'origine della nostra rinascita spirituale, della nostra vita, perché ci fa muovere secondo la volontà di Dio e nutre in noi la crescita interiore.
I vv. 24 e 25a spiegano ulteriormente, utilizzando un passo di Isaia, che cosa vuol dire «parola di Dio eterna»: «Tutti i mortali sono come l'erba / e ogni loro splendore è come fiore d’erba.! L’ erba inaridisce, i fiori cadono/ ma la parola del Signore rimane in eterno» (Is 40, 7-8).
Tutte le ideologie, tutte le parole umane, tutte le filosofie, tutti i pensieri che sono unicamente frutto dell'uomo non sostengono, si rivelano caduchi, perituri. E abbiamo assistito al cadere di tante ideologie che sembravano costruite perfettamente. Solo la parola di Dio è eterna, indistruttibile, sempre capace di generare.
E qual è la Parola?
Ricordiamo che il Primo Testamento aveva un concetto analogo, applicato tuttavia alla Legge. Penso al c. 24 del libro del Siracide:
«La sapienza loda se stessa, / si vanta in mezzo al suo popolo. / Nell'assemblea dell'Altissimo apre la bocca, / si glorifica davanti alla sua potenza: / "lo sono uscita dalla bocca dell'Altissimo"» (vv. 1-3a).
Quindi la sapienza è come la parola di Dio. E dopo tutto l'elogio della sapienza, leggiamo al v. 22:
«Tutto questo è il libro dell'alleanza del Dio altissimo, / la legge che ci ha imposto Mosè, / l'eredità delle assemblee di Giacobbe».
È la Torah. La sapienza personificata è identificata con la Torah che vive in mezzo al popolo di Israele.
Diverso è il pensiero di Pietro che, dopo aver affermato: «La parola di Dio rimane in eterno», aggiunge: «E questa è la parola del Vangelo che vi è stata annunziata». La Parola è quella del Vangelo, la parola di Gesù. Anzi potremmo dire andando oltre, come l'evangelista Giovanni, che questa parola è Gesù: in principio era la Parola, la Parola era presso Dio, la Parola era Dio, la Parola ha abitato tra noi (cfr. Gv l, 1. 14).
La pagina della 1 Pt esprime in maniera fortissima la coscienza che il cristiano dipende dalla Parola, da essa è generato e rigenerato.
* Per la meditatio vi offro qualche pensiero, rispondendo alla domanda: qual è l'esperienza spirituale profonda che Pietro esprime? È l'esperienza dei primi cristiani di dovere la vita alla Parola del Vangelo.
La Parola genera alla fede (san Paolo l'ha espresso in maniera molto forte in 1 Cor 4,15: «Vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo») e rigenera. Noi sperimentiamo infatti che, quando siamo smarriti o stanchi o turbati o confusi, e prendiamo in mano la parola di Dio, essa ha una forza potente, ci rischiara, ci illumina, ci rigenera; quando entriamo in momenti di stanchezza, di aridità, di buio, di notte dello spirito, è sempre la Parola che ricostruisce in noi la fede e la speranza.
A che cosa corrispondono le parole di Pietro nella nostra esperienza spirituale? A quella che è stata una fondamentale acquisizione del Concilio Vaticano II, espressa nella Dei Verbum al c. VI, e che diventa esortazione ai fedeli: «Il Santo Sinodo esorta con ardore e insistenza tutti i fedeli (...) ad apprendere la "sublime scienza di Gesù Cristo" (Fil 3, 8) con la frequente lettura delle divine Scritture. "L'ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo". (...) Si ricordino però che la lettura della sacra Scrittura dev'essere accompagnata dalla preghiera, affinché possa svolgersi il colloquio tra Dio e l'uomo; poiché "quando preghiamo, parliamo con lui; lui ascoltiamo quando leggiamo gli oracoli divini"» (n. 25).
Dunque i cristiani devono giungere a una familiarità orante con la parola di Dio. È la convinzione del primato della Parola nella Chiesa, che forse per alcuni secoli è rimasto un po' oscurato e oggi è stato riscoperto.
Vi confesso che come Vescovo per 22 anni e mezzo della diocesi di Milano ho avuto a cuore una sola preoccupazione: rispondere all' esortazione della Dei Verbum, aiutando la gente a rendersi familiare con la parola di Dio e a pregare a partire da essa. È un programma pastorale che comporta il contatto con i giovani, con le parrocchie, con la gente semplice, con le persone di cultura, con gli stessi non credenti, perché tutti e ognuno di noi sentono il fascino della Parola. Tante volte ho detto, ai giovani in particolare: quando, trovandoti davanti a una parola del Vangelo, riconoscerai, per intuizione tua, che parla di te, anzi che parla a te, avrai scoperto il tesoro della parola di Dio.
In proposito vi leggo un pensiero di Giuseppe Dossetti, fondatore di una comunità monastica, e lo traggo da una raccolta di suoi scritti, molto incisivi, dal titolo La parola di Dio seme di vita e di fede incorruttibile: «La parola di Dio, secondo il c. 1 della prima lettera di Pietro, è il seme, la semenza incorruttibile che genera e conserva e fa crescere il cristiano e l'intero popolo dei fedeli, la Chiesa.
Per Pietro, come per tutto il Nuovo testamento, l'unica forza generante, l'unico seme di vita nuova per sé incorruttibile, è la parola del Signore. Ogni altra parola, ogni altra mediazione culturale e persino ogni mediazione teologica, - anche se in certe fasi della vicenda di un uomo, di una comunità o di una generazione può essere utile e, in certa misura e a certe condizioni, può apparire persino necessaria non è propriamente generale e creatrice e incorruttibile nel senso assoluto in cui solo la sperma (seme) della parola di Dio è incorruttibile».
Noi preferiamo a volte nutrirci di parole che non sono quelle della Scrittura, pur se le riflettono. Ma se vogliamo davvero rigenerarci, dobbiamo prendere contatto con la Parola viva che è Cristo e che è contenuta nell'Eucaristia e nella Bibbia.
Ancora Dossetti: «Ogni altra parola, staccata o che prevalga sulla parola di Dio, presto si isterilisce, perde la sua forza generante, si fissa in una sterilità piena e si corrompe».
Questo accade quando per esempio noi vogliamo sostituire alla Parola dei principi psicologici o teologici o fenomenologici o filosofici; danno entusiasmo per un certo tempo, ma poi si isteriliscono e vengono meno.
Solo la Parola dell'Eterno rimane. È un principio e fondamento espresso assai bene nella pagina della 1 Pt.
Siamo allora invitati a esaminarci severamente: la parola di Dio è all' origine e alla sorgente della nostra vita interiore? O invece preferiamo parole più facili, più accessibili, e che non hanno carattere incorruttibile ed eterno?
O Signore, fa, che non passi giorno senza che meditiamo un testo della Scrittura e donaci di insegnare a molti a trovare consolazione e speranza nelle pagine del tuo Libro santo.
Un ultimo principio e fondamento secondo la 1 Pt si trova nel c. 2, vv. 4-5.9-10.
In questi versetti le metafore sono talmente numerose e intrecciate l'una nell' altra che non è facile spiegarle e coglierle in unità. La lettera si sta di fatto rivelando come una grande fontana di un bellissimo giardino, che si moltiplica in innumerevoli zampilli, per cui non si riesce a capire esattamente da dove venga l'acqua, perché tutto è ricco di getti e di sorgenti.
* Consideriamo una prima serie di metafore (vv. 4-5):
«Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo».
- Anzitutto Gesù è pietra viva: Pietro sottolinea la fondamentale coscienza del cristiano, il principio e fondamento che la pietra, la roccia solidissima è Cristo.
Potremmo dire: come il popolo ebraico si è costituito intorno al Sinai, così il popolo cristiano si costituisce attorno a Gesù. E noi ci stringiamo a lui. Il greco ha proserchomenoi: lo seguiamo da discepoli, ci mettiamo sulla sua via e diventiamo noi pure pietra viva come lui.
- Dalla metafora della pietra si passa a quella dell’edificio: voi siete «pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale», potremmo dire un edificio costruito e abitato dallo Spirito santo. Gli esegeti discutono se l'edificio spirituale è il tempio, un nuovo tempio, oppure una casa, la casa di Dio nella quale trova rifugio l'umanità. In ogni caso è chiaro che il termine «spirituale» non significa un edificio invisibile, ma un edificio che è dimora dello Spirito.
- La terza metafora - siete «un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio» - sta a dire che allo stesso modo in cui il popolo eletto offriva sacrifici nel tempio, il nuovo popolo di Dio offre sacrifici spirituali.
Anche Paolo scrive in Rm 12, 1-2:
«Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto».
La nostra vita, la nostra quotidianità, il nostro corpo, sono il vero sacrificio che si unisce a quello di Gesù. .
La vera dignità del cristiano è di essere un solo edificio con Gesù, essere il sacerdozio santo che offre il sacrificio della propria vita.
Pietro approfondisce i suoi pensieri ai vv. 9-10, dove troviamo un' altra cascata di metafore con cui riprende le prerogative del popolo di Dio, per applicarle alle comunità cristiane a cui scrive:
«Ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce; voi, che un tempo eravate non-popolo, ora invece siete il popolo di Dio; voi, un tempo esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia».
«Stirpe eletta», una nazione scelta da Dio per un compito speciale; «sacerdozio regale», un popolo sacerdotale che regna sul mondo e offre a Dio il mondo in sacrificio; «nazione santa», una nazione che partecipa della santità di Dio; «popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce». Sono evidenti i rimandi al testo di Esodo 19, 5-6:
«Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra. Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti».
E ancora: «Voi che un tempo eravate non-popolo, ora invece siete il popolo di Dio; voi, un tempo esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia». Molto chiari in questo v. 10 i riferimenti al libro di Osea:
«Dopo aver divezzato Non-amata, Gomer concepì e partorì un figlio. E il Signore disse a Osea: / "Chiamalo Non-mio-popolo, / perché voi non siete mio popolo / e io non esisto per voi"» (1, 8-9); «Dite ai vostri fratelli: "Popolo mio" / e alle vostre sorelle "Amata"» (2, 3); «lo li seminerò di nuovo per me nel paese / e amerò Non Amata; / e a Non-miopopolo dirò: Popolo mio, / ed egli mi dirà: Mio Dio» (v. 25).
Lascio a voi di scoprire e gustare le altre numerose e preziose assonanze con pagine del Primo Testamento.
Con questa ricchissima collezione di metafore Pietro assicura a comunità povere, disperse e disprezzate che sono l'opera di Dio nel mondo, il suo disegno che si realizza, il faro che illumina la storia.
* Dopo la lectio del testo, segnalo alcune piste di meditatio.
- Quale esperienza spirituale suppone in Pietro e nei primi cristiani questa serie di parole così alte?
A mio avviso suppone una duplice esperienza.
La prima è quella della solidità di Cristo, che è la pietra, la sola realtà veramente stabile, il centro della storia umana.
La seconda è quella che dall' essere irremovibili in Gesù, fondati su di lui e con lui solidali, deriva l'essere solidali tra loro, l'essere un unico popolo, comunità, unita indissolubilmente in Cristo, capace di affrontare la storia oscura e difficile in cui è inserita.
- E come risuona in noi questo principio fondamentale?
Dovrebbe risuonare come coscienza di essere tutti un popolo identificato con Gesù.
Di fatto la coscienza di Chiesa è spesso molto scarsa. Si ha una religiosità individuale, si compie una ricerca personale di Gesù e tuttavia manca il senso di Chiesa. E d'altra parte è normale che sia così, perché lo si acquista gradualmente, crescendo in essa, sacrificandosi e pagando di persona.
È più facile vivere il senso di appartenenza in una
comunità religiosa. È più difficile riferirlo alla Chiesa come tale. Notiamo infatti una presenza di individualismo di gruppo, magari anche religioso, che non è vero e proprio sensus Ecclesiae.
Posso dire sinceramente che nella mia esperienza ho vissuto da gesuita, fino all'età di 53 anni, la solidarietà soprattutto con la Compagnia di Gesù. Quando sono diventato Vescovo, ho allora capito che cos'è la solidarietà con la Chiesa, con una comunità universale. In essa la mia appartenenza alla Compagnia di Gesù mi inseriva fortemente, in quanto ne era una specificazione concreta.
Proviamo a chiederci: esiste negli Esercizi il senso ecclesiale?
Come sappiamo, sant'Ignazio si preoccupa dell'uomo singolo, del suo cammino di conversione e della sua spiritualità. Ma certamente li vede sempre inseriti nella Chiesa. Non a caso il libro degli Esercizi termina con alcune Regole «per il vero criterio che dobbiamo avere nella Chiesa militante», di cui leggiamo la prima: «Messo da parte ogni giudizio, dobbiamo avere l'animo disposto e pronto a obbedire in. tutto alla vera sposa di Cristo nostro Signore che è la nostra santa madre Chiesa gerarchica» (n. 353).
L'appartenenza a Gesù, che in Ignazio era fortissima, gli permetteva di vivere il principio e fondamento dell'appartenenza alla Chiesa in maniera esemplare.
Siamo chiamati ad approfondire il nostro inserimento nel popolo cristiano come grazia grande, fondamentale e da cui tutte le altre derivano; l'essere il popolo di Dio, il vivere l'esperienza di Chiesa, sono realtà da stimare al di sopra di ogni altro bene.
Ti ringraziamo, Signore, perché ci hai chiamato a far parte dell’ unica Chiesa. Ti affidiamo questa Chiesa che amiamo, la Chiesa del tuo Figlio Gesù, l’identità nostra con Gesù diventata comunione di fede e di amore. Proteggila, salvala e difendila. Rendila perfetta nell’unità} perché proclami le tue grandi opere e faccia conoscere al mondo il tuo amore per l’ umanità.

Incominciamo recitando i primi versetti del salmo De profundis:
«Dal profondo a te grido, o Signore; / Signore, ascolta la mia voce. / Siano i tuoi orecchi attenti / alla voce della mia preghiera. / Se consideri le colpe, Signore, / Signore, chi potrà sussistere? / Ma presso di te è il perdono: / e avremo il tuo timore. / lo spero nel Signore, / l'anima mia spera nella sua parola» (Sal 130, 1-5).
O Signore, ciascuno di noi grida a te dal profondo. Tu solo conosci il nostro cuore, tu solo conosci le caverne interiori nelle quali ancora si annidano i serpenti e i veleni. Non vediamo il nostro interno fino in fondo, ma tu lo scruti e puoi guarirlo, medicarlo, confortarlo. Gridiamo a te, o Signore, per essere purificati e consolati in un cammino penitenziale che ci porti a quella sovrabbondanza di pace che l'apostolo Pietro augurava all'inizio della sua lettera. Ti chiediamo di guidarci verso le nostre profondità, perché non ci spaventiamo, ma ci lasciamo illuminare e risanare da te, che sei Dio e vivi con il Padre e lo Spirito santo per i secoli dei secoli. Amen.
Con questa meditazione ci inoltriamo nel cammino penitenziale, secondo il processo dinamico degli Esercizi spirituali che, dopo il Principio e fondamento, fa percorrere la via della penitenza e della conversione, attraverso la cosiddetta Prima settimana, che di solito si conclude con la confessione sacramentale.
Abbiamo fin qui raccolto, come Davide, sei ciotoli dal torrente, sei piccole pietre che costituiscono il principio e fondamento della 1 Pt. Sono: la coscienza battesimale, la coscienza escatologica (della speranza eterna a cui Dio ci ha chiamati), la coscienza della gioia nella sofferenza, la coscienza messianica (tutta la storia della salvezza è per noi), la coscienza della nostra origine dalla Parola (generati da un seme incorruttibile che è la parola di Dio viva ed eterna) e la coscienza cristologica ed ecclesiale di essere uno con la roccia che è Cristo nella solidarietà della Chiesa.
I sei sassolini sono il punto di partenza e corrispondono al Principio e fondamento degli Esercizi ignaziani.
Ora si tratta invece di considerare l'opposto, cioè le forze distruttive, che cercano di corrodere, di limare, di far tremare, di soppiantare e sconquassare l'edificio costruito dalla grazia di Dio.
È una settimana dedicata appunto alla purificazione, a consolidare il cammino di conversione, a promuovere il cambiamento di vita, a favorire la guarigione délle ferite più gravi presenti in noi, a suscitare un certo disgusto del passato, della mediocrità, della tiepidezza, della frigidità spirituale nella quale spesso viviamo.
Desidero leggere il n. 63 degli Esercizi, che ritengo molto importante, là dove Ignazio fa chiedere alla Madonna di ottenerci da Gesù tre grazie.
La prima: che io «senta profonda cognizione dei miei peccati e disgusto per gli stessi». È la grazia tipica della conversione dal peccato, in quanto rovina la mia vita, rovina il piano di Dio, offende il Padre, lacera la comunità.
La seconda è la grazia di sentire «il disordine delle mie attività in modo tale che, detestandolo, mi corregga e mi ordini». Ignazio suppone che oltre ai peccati formali, c'è un disordine nel nostro agire, pensare, intendere, volere, disordine che spesso non conosciamo, e tuttavia vi siamo immersi. Si va più al fondo del peccato, si scopre un disordine in cui, pur non essendoci carenze evidenti, c'è una situazione di insieme che non corrisponde alla volontà di Dio.
La terza grazia: «Chiedere la conoscenza del mondo perché, detestandolo, allontani da me le cose mondane e vane». Anche una vita abbastanza buona può essere implicata in qualcosa che non è né peccato mortale né veniale e neppure disordine, bensì un insieme di vanità, di sogni, di tensioni affettive che ci coinvolgono con i principi, i modi di agire del mondo e ci impediscono di vivere secondo Cristo.
Il percorso è certamente lungo, appunto perché si tratta non 'solo di conoscere e detestare i peccati mortali e veniali. Occorre aborrire il disordine delle nostre azioni, della nostra vita - può essere pure il disordine materiale o magari dell' orario, del modo di vivere, di andare a dormire, di alzarsi, di studiare, di pregare affidandosi all'umore del momento -; e rifiutare la mondanità, ossia tutto ciò che ci rende conniventi con i principi di questo mondo che non onora Dio come Padre e non onora la dignità umana anche nei più poveri.
Questo è lo scopo della Prima settimana degli Esercizi.
Il cammino penitenziale ignaziano ha il suo riscontro nella 1 Pt ? Di per sé la risposta dovrebbe essere negativa, perché la lettera lo suppone compiuto e si riferisce a uno stadio ulteriore. Non presenta perciò un itinerario di purificazione preciso, come lo troviamo nei primi 7 capitoli della lettera di Paolo ai Romani, dove si delinea un puntuale percorso penitenziale e .si avverte tutta la forza distruttiva del peccato.
Tuttavia nella 1 Pt troviamo dei frammenti, degli accenni al cammino già fatto. Mi propongo di sottolinearli e di sottoporli alla meditazione personale di ciascuno di voi.
Ma proprio perché l'epistola non contiene una trattazione sistematica della purificazione, mi riferirò anzitutto al vangelo di Marco.
L'evangelista Marco nei vv. 21-23 del c. 7, ci offre probabilmente una sintesi dell'insegnamento morale che veniva impartito al catecumeno, una lista di atteggiamenti negativi incompatibili col messaggio cristiano, che il catecumeno era invitato a riconoscere e a fuggire.
Parlando del puro e dell'impuro, un concetto fondamentale per gli ebrei, Gesù dice: l'impurità non viene dal toccare, dal mangiare, dall' avere relazione con certe realtà, ma viene dal cuore, nasce dal di dentro: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive» (7, 21a), dialogismoì kakoì, cioè coinvolgimenti negativi della psicologia, della personalità umana.
Enumera successivamente i principali vizi, le principali oscurità del cuore umano e sono dodici: «fornicazioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l'uomo» (vv. 21b-23).
Non abbiamo tempo di approfondire l'esame dei dodici atteggiamenti e sarebbe molto importante che ciascuno di voi lo facesse personalmente. Da parte mia vorrei limitarmi a due o tre riflessioni, a partire dall'osservazione che questi atteggiamenti cominciano dai più visibili, più macroscopici, più ripugnanti, e arrivano ai più nascosti.
I primi tre - fornicazioni, furti, omicidi - si possono vedere al di fuori, sono peccati molto palesi che appaiono chiaramente come distruttivi della società e rompono il consorzio umano.
Seguono altri tre più interiori, più sottili e spesso nascosti: adultèri, cupidigie (cioè avarizia, golosità che rendono disordinato il cuore e il corpo) e malvagità.
La terza triade esprime anch' essa comportamenti molto concreti: inganno, impudicizia - soprattutto il non controllare la sensualità -, invidia. Tutti peccati un po' invisibili e conosciuti soltanto dalla persona che li compie.
Ancora più interiori, sottili e distruttivi sono poi la calunnia, che purtroppo percorre le nostre città e certe volte le comunità cristiane; la superbia, cioè il credersi un padre eterno; la stoltezza che trova una sua espressione tipica nell' accumulare tanti lavori e impegni, magari buoni, senza però alcun riferimento a Dio.
Non dimentichiamo che ciascuno di noi ha dentro di sé questi atteggiamenti, che nelle caverne profonde del nostro cuore si nascondono tali tensioni e inclinazioni. Spesso, grazie a Dio, riusciamo a tenerle a bada, talora ruggiscono dentro, si agitano e cercano di travolgerci. Lo comprenderemo meglio leggendo i passi della 1 Pt.
Con l'insegnamento proposto al catecumeno e presupposto a ogni percorso di conversione dobbiamo sempre confrontarci, sapendo di essere a rischio. Il salmo 130 che abbiamo ricordato all'inizio della meditazione è davvero la preghiera che facciamo nostra. «Dal profondo a te grido, o Signore; / Signore, ascolta la mia voce... Se consideri le colpe, Signore, / Signore chi potrà sussistere?».
Riflettiamo ora su alcuni dei frammenti penitenziali che si trovano qua e là nella 1 Pt e documentano come ogni epistola corrisponda alle esperienze di una comunità, che vive dei momenti di richiamo alla conversione.
Ci sono anzitutto frammenti che rispondono alla domanda: che cosa c'è dentro di noi? Da che cosa dobbiamo guardarci? Altri - li considereremo nella successiva meditazione - ci illuminano su che cosa c'è intorno a noi, nel nostro mondo, nel nostro ambiente che ci induce al peccato.
* Cominciamo coi primi versetti del c. 4, che ci danno una immagine plastica della vita di quel tempo, di come fa gente viveva tranquillamente il paganesimo, soprattutto nelle grandi feste, quando si lasciava andare e poteva capitare, di giorno e di notte, un po' di tutto.
«Poiché dunque Cristo soffrì nella carne, anche voi armatevi degli stessi sentimenti; chi ha sofferto nel suo corpo ha rotto definitivamente col peccato, per non servire più alle passioni umane, ma alla volontà di Dio, nel tempo che gli rimane in questa vita mortale. Basta col tempo trascorso nelle dissolutezze, nelle passioni, nelle crapule, nei bagordi, nelle ubriachezze e nel culto illecito degli idoli. Per questo trovano strano che voi non corriate insieme con loro verso questo torrente di perdizione e vi oltraggiano» (4, 1-4).
- «Poiché dunque Cristo soffrì nella carne, anche voi armatevi degli stessi sentimenti. Chi ha sofferto nel suo corpo ha rotto definitivamente col peccato» (v. 1). È un versetto di difficile interpretazione e probabilmente si riferisce non a Cristo, ma al cristiano che, avendo accettato di soffrire per Cristo, con ciò stesso ha rotto col peccato.
- «Per non servire più alle passioni umane» (v. 2). La vita del pagano viene definita un servire alle passioni umane. Passioni efficacemente richiamate dall' evangelista Marco, là dove spiega la parabola del seminatore:
«Altri sono quelli che ricevono il seme tra le spine: sono coloro che hanno ascoltato la Parola, ma sopraggiungono le preoccupazioni del mondo e l'inganno della ricchezza e tutte le altre bramosie, soffocano la Parola e questa rimane senza frutto (4, 18-19).
Queste passioni a cui non dobbiamo più servire sono non semplicemente i peccati, bensì le preoccupazioni eccessive, la bramosia di mettersi in mostra, di fare bella figura; e ancora l'inganno delle ricchezze, la persuasione che più uno è ricco, più ha potere e può aiutare meglio gli altri.
Da tali passioni Pietro ci invita a guardarci.
- Successivamente insiste: «Basta col tempo trascorso nel soddisfare le passioni del paganesimo». Il testo greco recita: «la volontà del paganesimo», che dunque ha una sua logica, un suo modo di volere e di agire che pretende imporre alla gente, ed è descritto così: «vivendo nelle dissolutezze, nelle passioni, nelle crapule, nei bagordi, nelle ubriachezze e nel culto illecito degli idoli» (v. 3).
Siamo di fronte a sei forme di comportamento: dissolutezze (asélgeiai), cioè il lasciarsi andare anche dal punto di vista del contegno, del dominio di sé; le passioni, i desideri ardenti per tutto ciò che soddisfa il corpo e la carne; le crapule, termine che traduce oinophlygìa, quella sensazione di prima confusione che viene dal cominciare a bere un po' troppo e a poco a poco non si è più del tutto padroni di sé. Seguono i bagordi, il mangiare e bere a sazietà nei banchetti; e si arriva alle ubriachezze, quando non si capisce più nulla e si fa qualunque cosa. E Pietro conclude la sua lista con il culto illecito e infame degli idoli.
Sappiamo bene che purtroppo anche oggi piace molto alla gente, soprattutto in Occidente, trascorrere notti intere nei bagordi facendo uso di alcolici e di droga, fino a non capire più nulla; a quel punto tutto diventa lecito, tutto è possibile.
È una tentazione che ci tocca certamente da vicino, e anzi oggi possiamo partecipare a queste feste degradanti addirittura in maniera virtuale. È molto facile, stando in camera, senza che nessuno lo sappia, vedere programmi notturni televisivi o navigare in Internet cercando siti dove facilmente si raggiungono i limiti estremi dell'indecenza, della pornografia, prendendo parte in incognito a quei festini dei pagani a cui non oseremmo partecipare pubblicamente.
Il testo di Pietro è dunque molto attuale e ci invita a esaminarci sui pericoli della televisione, di Internet, del cinema, degli spettacoli, e pure su quelle festicciole che facilmente possono degenerare.
- È interessante il v. 4: «Per questo trovano strano che voi non corriate insieme con loro verso questo torrente di perdizione e vi oltraggiano». Ci oltraggiano i nostri amici, ci prendono in giro per il fatto che non conosciamo i programmi pornografici e vogliono convincerci ad andare con loro e a vivere secondo la moda e la morale corrente.
La pericopa di Pietro che abbiamo esaminato riguarda fin qui dei comportamenti che chiamiamo pagani, esterni.
* La lettera inoltre denuncia atteggiamenti interni alla comunità, dove, pur non essendoci depravazione e degrado, ci sono tuttavia delle ferite dolorose.
- Sono sottolineati anzitutto in 2) 1, là dove dice:
«Deposta dunque ogni malizia e ogni frode e ipocrisia, le gelosie e ogni maldicenza».
Cinque comportamenti distruttivi della vita di comunità, di comunità magari buone. In parte li abbiamo trovati nell' elenco di Marco e in parte sono nuovi.
Malizia (kakìa) è il gusto di far penare un altro, il gusto che l'altro sia umiliato, il voler male agli altri gratuitamente. È qualcosa che ferisce profondamente il cuore.
Frode (dòlos) è mostrare agli altri ciò che non è, il costruirsi una maschera senza presentarsi nella propria autenticità.
L'ipocrisia (ypòkrisis) va nella stessa linea: fingere, per esempio, di pregare, di avere una profonda vita spirituale, e pensare in realtà a tutt'altro.
Le gelosie (phthònoi) sono tipiche di ogni vita di comunità: quel tale è più servito di me, trattato meglio di me, i superiori lo preferiscono, hanno dato questo a lui e non a me.
Maldicenza (katalalià) è il dire male degli altri, lasciando cadere, magari in modo apparentemente casuale, parole di denigrazione o insinuazioni negative.
Tutti atteggiamenti presenti nella comunità di Pietro di 2000 anni fa. E noi siamo sottoposti alle stesse difficoltà.
Molto bello il rimedio che Pietro suggerisce:
«Come bambini appena nati bramate il puro latte spirituale, per crescere con esso verso la salvezza: se davvero avete già gustato come è buono il Signore» (2, 2-3).
Il latte spirituale è la parola di Dio e l'apostolo è convinto, che quando ci nutriamo di essa, scompaiono, vinte dalla sua forza, quelle ferite dolorose capaci di logorare la vita comunitaria.
- C'è un altro versetto che accenna al cammino penitenziale:
«Carissimi, io vi esorto come stranieri e pellegrini ad astenervi dai desideri della carne che fanno guerra all'anima» (2, 11).
Notiamo subito che l'espressione «stranieri e pellegrini» non ha più ormai un significato soltanto sociologico (abitate senza pieni diritti di cittadinanza); sono stranieri e pellegrini rispetto al cielo, alla vita eterna, sono persone che hanno la patria in cielo, hanno quella coscienza escatologica di cui abbiamo a lungo parlato. E sono invitati ad astenersi dai desideri della carne.
Tali desideri si chiamano con un termine moderno autoreferenzialità: riferire tutto a se stesso, mettersi al centro e giudicare sempre in relazione ai propri interessi personali.
In proposito c'è un'immagine straordinaria nel vangelo di Luca:
«C'era là una donna che aveva da diciotto anni uno spirito che la teneva inferma; era curva e non poteva drizzarsi in nessun modo» (13, 11).
L'autoreferenzialità è essere curvi così da preoccuparsi soltanto di sé, della propria fama, della propria salute, del proprio avvenire, il non alzare mai gli occhi verso orizzonti più vasti, né verso gli altri, né verso la Chiesa di Dio, né verso l'umanità. La carne è la tendenza per la quale noi assumiamo la nostra comodità come legge suprema.
E ciò «fa guerra all'anima», come conclude Pietro nel v. 11, perché l'anima tende ad alzare lo sguardo, a guardare verso Dio, verso gli altri, verso il cielo.
È l'esortazione a non lasciarsi imprigionare dalla chiusura su se stessi, peccato che certo guasta decisamente la vita delle comunità.
- L'ultimo atteggiamento negativo lo leggiamo nel frammento di catechesi penitenziale del c. 2 al v. 16: «Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servitori di Dio».
Qui comprendiamo che persino la libertà, dono bellissimo di Cristo, può essere strumentalizzata e diventare presunzione.
Per esempio, chi ha un atteggiamento critico che gli viene da una cultura superiore può essere portato a disprezzare gli altri e ad assumere, in nome della libertà derivante dalla fede, atteggiamenti indipendenti, completamente svincolati da ogni ordine umano e divino. La libertà può diventare un velo per coprire la malizia e l'incredulità.
E sotto la categoria di una libertà che copre la malizia possiamo collocare non pochi aspetti della cosiddetta contestazione verificatasi dopo il Concilio Vaticano II negli anni Sessanta-Settanta. In essa si affermavano dei giusti valori - povertà, autenticità... -, e tuttavia in questo modo si coprivano spesso, sotto pretesto di libertà, i propri comodi e la pretesa di sciogliersi da qualunque pur giusta dipendenza.
Avviandoci alla contemplazione, possiamo ispirarci al vangelo di Giovanni (1,29), là dove il Battista indica Gesù dicendo: «Ecco colui che toglie il peccato del mondo».
E diciamo:
Signore, tu conosci il fondo del mio cuore. Tu solo conosci la malizia che c’è in me. Aiutami a riconoscerla, a pentirmene, ad emendarmi. Aiuta a superarmi con la tua grazia invincibile e gloriosa, perché la vittoria della fede vince tutte le malvagità e tutti i degradi del mondo, ed è capace di superare ogni malizia e ogni ferita prodotta dalla cattiveria umana.
A questo punto la preghiera tende a diventare contemplazione, cioè il momento passivo dell'intimità col Signore. Ed è importante, perché soltanto a livello di tale intimità noi cominciamo a conoscere il mistero di Dio nell' esperienza, nel cuore e non soltanto con l'intelletto.
Donaci, Gesù, di contemplarti con uno sguardo umile e semplice, che è risposta alla Parola che abbiamo meditato.


Procedendo nel cammino penitenziale, è opportuno tenere presente la prima lettera di Giovanni, là dove dice:
«Non amate né il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l'amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!» (2, 15-17).
Signore Gesù, sappiamo che le profondità del male che è in noi hanno delle connivenze, degli alleati all'esterno, nel modo di pensare, di giudicare, di valutare proprio del nostro tempo, della cultura dominante: il gusto del potere, del successo, del denaro, del piacere, della potenza, del dominio, della crudeltà, dello schiacciamento degli altri.
Tu vedi, o Signore, che tutto ciò ci circonda, ci tenta, ci inficia e ci contagia. Donaci occhi limpidi per vedere quanto intorno a noi non è secondo il Vangelo e per operare nel senso del Discorso della montagna, delle beatitudini, così da attraversare le difficoltà di questo mondo illuminati dalla tua volontà e dal tuo amore, per conoscere ciò che ti è gradito e respingere ciò che invece è contro la verità dell’ uomo e del suo destino,
Te lo chiediamo, o Padre, per intercessione di Maria e di Ignazio di Lodola, nel desiderio che la tua grazia ci assista in questo momento di preghiera e sempre.
La Prima settimana degli Esercizi ~ lo abbiamo già detto - ci sollecita a riflettere non semplicemente sui peccati che sono dentro di noi, sulle nostre passioni e inclinazioni cattive, ma pure sullo spirito mondano, su tutto ciò che è contrario al Vangelo e spesso è invece modo di agire, di pensare, di giudicare, che ci coinvolge in qualche modo, ci prende dentro come una malattia contagiosa.
Ho pensato allora di leggere altri due brani della lettera di Pietro, che mettono in luce queste realtà, sia direttamente sia facendole risaltare per contrasto attraverso la descrizione del positivo.
Vorrei poi accennare alla confessione sacramentale, che Ignazio prevede per il momento penitenziale degli esercizi.
Leggo un primo brano della lettera:
«Onore dunque a voi che credete; ma per gli increduli / la pietra che i costruttori hanno scartato / è divenuta la pietra angolare, / sasso d’inciampo e pietra di scandalo. / Loro v'inciampano perché non credono alla Parola; a questo sono stati destinati» (2, 7-8).
Parole terribili, le quali indicano che Gesù è pietra di costruzione per il tempio spirituale, per la casa di Dio, per coloro che credono in lui; mentre per chi non crede è fonte di distruzione e di rovina.
Si impone allora una riflessione sull' incredulità, che è attorno a noi e dentro di noi.
Quando ero Arcivescovo di Milano, ero solito proporre ogni anno la cosiddetta Cattedra dei non credenti, dove invitavo i non credenti a esporre le loro ragioni. L'iniziativa nasceva dall'intuizione, che ho trovata espressa in un apologo rabbinico e ripresa poi dal Cardinale Ratzinger nel libro Introduzione alla fede, che in ciascuno di noi convive un credente e un non credente.
Narra l'apologo che un non credente espone a un rabbino degli argomenti contro l'esistenza di Dio, contro la fede. Il rabbino ascolta in silenzio e alla fine si limita a rispondere: forse è vero.
C'è dentro di noi un credente e un incredulo. Quando crediamo, diamo voce al primo, ascoltiamo i suoi argomenti, gli riconosciamo il diritto a esprimersi. Tuttavia rimane il non credente, con i suoi «ma», i suoi «se», i suoi «forse»; è difficile sradicarlo e non lo sradichiamo mai completamente.
D'altra parte anche il non credente ha un credente dentro di sé, che non lo lascia in pace e gli porta motivazioni che distruggono le certezze su cui si fonda.
Il credente che è in noi trova alleati nella parola di Dio, nell' ambito della Chiesa, in un' atmosfera di fede, di comunità cristiana, parrocchiale; il non credente che è in noi ha i suoi alleati soprattutto nel clima attuale di carenza di fede e di speranza.
Per Pietro, che si riferisce al suo tempo, gli increduli sono coloro che rifiutano Gesù come Messia, che non accettano la sua parola quale parola di Dio definitiva per l'uomo.
Il quadro per noi è ben più vasto: è l'incredulità in genere che rifiuta Gesù e la sua missione, e pure l'esistenza stessa di Dio, del mondo soprannaturale, della vita eterna. La terrenità è la tentazione primaria della nostra epoca e l'offuscarsi della fede, e di conseguenza della speranza nella vita eterna, è la più grande prova della Chiesa e del mondo occidentale.
Nell'Occidente non è di moda professare la fede. Si può credere privatamente, interiormente, ma non è di buon gusto proclamare apertamente il proprio credo. Gli ambiti pubblici - la televisione, il tempo libero, il tempo del divertimento e dello spettacolo, l'opinione politica - prescindono totalmente da un orizzonte di fede. Chi deve vivere in questi ambienti è perciò sempre tentato di ascoltare l'incredulo che è in lui. E chi crede si sente un po' fuori tempo, isolato, «disperso» (cfr. 1 Pt 1, 1) in mezzo a un mare di incredulità.
Pur se non è vero che l'Occidente è completamente secolarizzato, ci sono per esempio regioni d'Europa dove la fede va declinando in maniera paurosa. Vi do due esempi concreti. Una statistica elaborata da una Chiesa molto attenta nei suoi calcoli, la Chiesa Evangelica tedesca, ci informa che negli ultimi dieci anni due milioni e mezzo di persone hanno rotto completamente con la fede. È la segnalazione di un trend, una linea di tendenza dolorosa e assai grave.
Un secondo esempio. Un sacerdote tedesco, padre spirituale in un seminario, che ha celebrato pochi anni fa i suoi 50 anni di Messa, ha affermato: in questi 50 anni non mi hanno sconvolto tanto né il nazismo né la guerra, quanto l'abbandono rapido della fede da parte di tanti.
Non si tratta propriamente, a ben guardare, di incredulità proclamata, come in certi momenti di ateismo teoretico; è piuttosto agnosticismo, un agnosticismo benevolo.
Viene alla mente la figura di un filosofo italiano che stimavo molto, scomparso recentemente, Norberto Bobbio. Fino all'ultimo giorno della sua lunga vita ha ripetuto: cerco e non trovo. Rispettava il pensiero religioso, però non arrivava a conclusioni certe, e diceva con un'immagine: sono arrivato ai piedi dell'albero della verità, ma non sono riuscito a salirci sopra.
L'agnosticismo odierno, questa specie di nebbia gettata sulle verità della fede, induce a ritenere che ciascuno può pensare come vuole. Ne deriva che alla gente va bene tutto. Verifichiamo per esempio nelle nostre comunità una certa accettazione indifferente di fronte a casi di abbandono della fede e, ancora più specificamente, del sacerdozio o della vita religiosa. È venuta meno quella censura sociale che aiutava le persone a perseverare nella fede, nella vocazione, nella vita di famiglia e nel matrimonio. Il leit-motiv è molto semplice: ciascuno è libero di scegliere quanto gli piace e gli sembra giusto.
E agnosticismo significa pure incredulità pratica: ammettere Dio teoreticamente, accettare a parole alcune verità, e poi vivere come se Dio non esistesse.
Ci vuole coraggio a credere, soprattutto oggi. Tante volte l'incredulo che è in noi magari non si fa sentire esteriormente, però borbotta dentro e inquieta, logora. La lotta per la fede e per la speranza è il primo combattimento del cristiano. Le tentazioni a tale riguardo sono più forti e più pesanti di quanto possiamo immaginare. Già san Paolo diceva: «Ho combattuto la buona battaglia, (...) ho conservato la fede» (2 Tm 4,7). Sembra poco, ma è moltissimo: l'ha conservata, nonostante si trovasse tra gente indifferente od ostile.
Siamo di fronte a una vera battaglia. Chi non nutre la vita della parola di Dio che rigenera continuamente l'atto di fede, si trova asfittico, quasi malato, convalescente, debole nel credere. Abbiamo grande bisogno di innaffiare continuamente il cuore con la Parola della Scrittura, così da ricostruire un orizzonte nel quale respirare a pieni polmoni.
Vale la pena sottolineare che anche nella vita monastica, claustrale, contemplativa la fede è combattimento, non tranquilla acquisizione. Mentre la vita pastorale, l'accompagnare altre persone nella scoperta e nel cammino cristiano è spesso un grande aiuto, là dove manca ogni aggancio pastorale, la domanda sulla fede diviene talora più drammatica, non come espressione di incredulità - notiamo bene - bensì come prova.
Forse ce ne stupiamo e ne chiediamo il motivo. Una risposta ci viene data dalla figura, emblematica nella sua eroicità, di Teresa di Lisieux. La giovane carmelitana, vissuta cento anni or sono; tormentata dalle domande di fede verso la fine della sua vita, entrava pienamente, dolorosamente e atrocemente nella notte della fede e della speranza, quasi a preludio della notte in cui stava precipitando il mondo occidentale. Teresa ha vissuto la lacerazione di chi si sente unito a Dio, totalmente dalla sua parte, e nello stesso tempo solidale con le angosce di chi non conosce il senso vero della vita. È entrata, conservando intatta la sua fede, nella via della compassione, della compartecipazione di chi crede alla sofferenza di chi non crede.
Dobbiamo dunque essere consapevoli che, nella misura in cui la nostra fede è ardente, prima o poi sarà certamente vagliata nel crogiuolo, proprio per far nascere la compassione verso chi non crede.
È un punto per noi capitale da tenere presente per vivere il nostro tempo con serietà e verità.
In questi giorni di esercizi vogliamo perciò interrogarci su come viviamo la fede, come la nutriamo e come ne affrontiamo le difficoltà, come preghiamo per credere e per riconoscere davanti a Dio che siamo spesso uomini di poca fede, bisognosi del suo aiuto: 'Credo, Signore. Aiuta la mia poca lede! Credo, Signore. Aiuta la mia incredulità! '.
E imploriamo di essere sempre sorretti, nella «buona battaglia», dalla speranza, non solo per noi ma per il mondo nel quale siamo immersi. Chiediamo di essere liberati dalla tentazione, - tanto comune nei buoni cristiani e anche nei preti e nei Vescovi - di pensare che per il nostro mondo, per Ninive non c'è speranza, che Ninive non è capace di ascoltare la parola di Dio, non sarà capace di convertirsi. Il libro di Giona ci mostra infatti il contrario.
Possiamo coltivare la certezza che Dio parla al cuore dell'uomo e il cuore dell'uomo, qualunque siano le opinioni correnti, porta sempre in sé una nostalgia della sua Parola; possiamo operare sempre sapendo che la parola di Dio trova la sua strada nei cuori di tutti, malgrado le resistenze, le difficoltà, l'agnosticismo e la carenza di fede.
Nutriamo sempre la speranza che la bontà misericordiosa del Signore non cesserà mai di costruire strade di salvezza e di aprirle alla libertà di ognuno. È la speranza che ci consente di discernere i segni della vita capaci di sconfiggere i germi nocivi e mortali.
La seconda realtà che rende difficile l'esperienza cristiana oggi è costituita dalla non comunicazione, dalle dialettiche che si esprimono ed emergono nella comunità e nella società.
Viviamo non solo in un ambiente di agnosticismo e di incredulità, ma in un ambiente di inimicizia, dove la regola è la competitività, il superare l'altro, se possibile ingannarlo e anzi, a livello pure macroscopico e politico, schiacciarlo. Il nostro è un mondo drammaticamente competitivo, dove è diffuso lo spirito di superamento dell' altro e di non accettazione del diverso, che porta a una situazione di insofferenza e di inimicizia.
Di questo non parla direttamente Pietro - Paolo ne parla molto a lungo ad esempio nella seconda lettera ai Corinti -.
Vi propongo così di riflettere su un brano dell'epistola petrina che mostra la nostra situazione per contrasto, delineando l'immagine ideale della comunità:
«E finalmente siate tutti concordi, partecipi delle gioie e dei dolori degli altri, animati da affetto fraterno, misericordiosi, umili; non rendete male per male, né ingiuria per ingiuria, ma, al contrario, rispondete benedicendo; poiché a questo siete stati chiamati per avere in eredità la benedizione.
Infatti: / Chi vuole amare la vita / e vedere giorni felici; / trattenga la sua lingua dal male / e le sue labbra da parole d'inganno; / eviti il male e faccia il bene, / cerchi la pace e la segua» (3, 8-11).
È una descrizione splendida, positiva, una piccola sintesi del Discorso della montagna. Vi possiamo leggere specularmente i pericoli della comunità, con i difetti, i peccati che rendono invivibile l'esistenza sulla terra e scatenano un conflitto permanente.
Rileggiamo i versetti.
- «E finalmente siate tutti concordi». Ma non siamo concordi; siamo tutti discordi, la discordia regna nel mondo! Quante guerre, quanti odi razziali, etnici, politici, quante divisioni!
- «Siate partecipi delle gioie e dei dolori degli altri». E invece prevale ed è fortissima nella gente la preoccupazione per il dolore proprio e la dimenticanza del dolore altrui. Ho scritto recentemente un articolo su un quotidiano italiano, partendo dalla situazione della Terra santa, dove dicevo: è importante che ciascuno impari a vedere non solo le proprie ferite ma anche quelle dell' altro. Se non si fa così, due persone che si sono reciprocamente offese si combattono in nome della giustizia perché ciascuna, guardando solo le proprie ferite, vuole ritorcere il torto ricevuto e vendicarsi. È una regola molto comune nel mondo.
- «Animati da affetto fraterno». Ma quanta poca fraternità c'è nel mondo e quanta inimicizia, dissensione, diffidenza, paura del diverso!
- «Misericordiosi e umili». Di fatto la misericordia è poco diffusa nel mondo. Pensiamo ai conflitti, dalla Bosnia, all'Iraq, ai Paesi dell'Africa, alle vicende degli ultimi anni: non c'è misericordia, non c'è umiltà!
- Continua Pietro: «Non rendete male per male, né ingiuria per ingiuria, ma, al contrario, rispondete benedicendo». Eppure la regola, a volte etnica, di famiglie o di popoli, è di rendere ingiuria per ingiuria, offesa per offesa, male per male, per difendere 1'onore della propria etnia, della propria famiglia. Lo stesso fenomeno drammatico del terrorismo suicida nasce di solito da qui: hanno offeso, ucciso qualcuno della mia famiglia, io mi sacrifico, muoio per uccidere altri e così vendicarlo.
Comprendiamo dalla lettura speculare delle parole dell' apostolo tutta la difficoltà di vivere una vera fraternità e sororità nel nostro mondo. Esso tende continuamente a dividersi in gruppi, clan, etnie, nazioni, partiti contrapposti gli uni agli altri, non in una lotta leale e competitiva per il bene, ma in una contrapposizione frontale e distruttiva.
Questo richiede da noi una grande fede nel Discorso della montagna (cfr. Mt 5-7). È un Discorso non popolare; magari è ammirato, e però poco capito. Noi stessi, quando ci impegniamo a viverlo fino in fondo, scopriamo che scotta le dita, perché non pensavamo fosse tanto difficile da praticare. Tuttavia questo è il cammino di conversione che il Signore vuole da noi.
- Pietro ne parla così: «Infatti: / Chi vuole amare la vita / e vedere giorni felici, / trattenga la sua lingua dal male / e le sue labbra da parole d’inganno; / eviti il male e faccia il bene, / cerchi la pace e la segua» (3, 10-11).
Ricordiamo inoltre che, come ha detto molto bene il Papa nel suo discorso per la Giornata della pace del 2002, non c'è pace senza giustizia, non c'è giustizia senza perdono. Il perdono, la misericordia sono necessari al mondo per superare i conflitti e scegliere la via della concordia. L'impegno di accettarsi vicendevolmente coinvolge la vita di ognuno di noi, delle famiglie, delle comunità.
Un grande problema si pone oggi all'umanità: riuscire a convivere tra diversi sullo stesso territorio, nello stesso ambito, rispettandosi, senza contrastarsi né distruggersi. Non si tratta soltanto di tolleranza. Occorre piuttosto stimolarsi reciprocamente nel bene. E a livello di differenza di religioni, bisogna aiutare gli altri a crescere nel disegno di Dio, pur se non possiamo magari proclamare loro il Vangelo.
È infatti troppo consono all' agnosticismo contemporaneo il dire: tu pensa come vuoi, io penso come voglio, a patto che tu non interferisca nelle mie scelte né io nelle tue. Non basta, non è fraternità; è semplice tolleranza, pura neutralità. Dobbiamo aiutarci a cercare il bene. E probabilmente in periodi storici quali il nostro, di fronte a grandi movimenti religiosi come l'Islam, tale aiuto non può sempre assumere le forme dell' evangelizzazione diretta, perché non verrebbe accettata e compresa. Dunque, se non si deve praticare soltanto tolleranza, è necessario attuare una mutua stimolazione a vivere secondo le coordinate della vita che definiscono l'esistenza autentica e sono in realtà le coordinate del Discorso della montagna. Aiutare cioè gli altri a distaccarsi dal denaro, dal successo, dal potere; a perdonare, a essere misericordiosi, a essere pazienti, a pregare per chi ci perseguita.
Ritengo compito importante della comunità cristiana il perseguire l'ideale di convivenza pacifica, armonica, promozionale che è il vero ideale dell'umanità, ed è quello che vediamo maggiormente contrastato, soprattutto nei luoghi di grandi sofferenze. A noi per primi è richiesto di mostrare che è possibile vivere insieme rispettando e accettando le diversità, prendendo parte alle gioie e ai dolori degli altri, praticando la misericordia, non rendendo male per male e rispondendo con benedizioni a coloro che ci maledicono.
A partire dal nostro cammino penitenziale si apre quindi un cammino di servizio sociale e spirituale da rendere alla gente. La parola di Pietro è indubbiamente una chiave per il ministero della Chiesa nel mondo di oggi.
Concludo comunicandovi alcuni pensieri sulla confessione sacramentale.
Sappiamo che dopo il Concilio Vaticano II la confessione è entrata in una grande crisi e che da allora molte persone, compresi preti e religiosi, hanno fortemente ridotto la frequenza al Sacramento, soprattutto nel nord dell'Europa e dell' America.
Di questo si è discusso tante volte. Ricordo in particolare il Sinodo sulla Riconciliazione del 1983 , a cui ho partecipato, nel quale purtroppo non sono state accettate alcune proposte che avrebbero potuto migliorare la situazione. Si è cercato dunque di andare avanti al meglio, ma con tante difficoltà.
Qui tuttavia non entro nel merito del problema pastorale, che è assai ampio; mi limito a parlare della confessione personale, partecipandovi alcune riflessioni nate dall'esperienza.
Sono partito dalla costatazione che la confessione personale frequente era accusata, dall'ondata di critiche degli anni Sessanta-Settanta, di ridursi alla ripetizione formale di alcuni piccoli peccati sempre uguali, e di non essere vissuta come momento di crescita delle persone. Mi sono chiesto allora: come superare una simile difficoltà, che alla fine ci allontana da un vero cammino penitenziale, cammino che non può prescindere dalla confessione sacramentale frequente?
Mi è venuto allora in mente questo paradosso: se una confessione breve è faticosa, perché non provare una confessione lunga?
E a poco a poco ho elaborato una formula che è poi divenuta molto comune: la confessio laudis, la confessio vitae e la confessio fidei.
Una confessione che quindi comincia non con un' accusa bensì con una preghiera di lode, per ringraziare il Signore dei tanti doni ricevuti dall'ultima confessione.
Mi ritorna alla mente l'espressione sempre stupita delle persone, che venivano da me a confessarsi cominciando con l'elenco dei propri peccati, quando io interrompevo dicendo: c'è qualcosa di cui lei vorrebbe anzitutto ringraziare il Signore? E con meraviglia rispondevano: sì, il Signore mi ha aiutato in una circostanza, mi ha donato un'intuizione spirituale utile, ha fatto trovare lavoro a mio marito, ha guarito mio figlio, ecc.
Del resto sant' Agostino comincia il libro delle Confessioni proprio con una confessio laudis: ti lodo, ti benedico, ti glorifico, o Dio che mi hai tanto amato.
Su tale sfondo può essere più sincera e più vera la confessio vitae, che non ridurrei al semplice elenco dei peccati, configurandola piuttosto quale risposta alla domanda: che cosa mi pesa e mi disturba dall'ultima confessione? Che cosa non vorrei che ci fosse stato? È un andare al di là dei peccati formali, per coglierne le radici profonde: le antipatie, le amarezze, i disgusti, le ribellioni, le ferite interiori da cui dobbiamo essere risanati per evitare che si trasformino poi in disordine e mondanità. In questo modo la nostra vita è messa davanti a Dio così com'è.
Alla confessio vitae segue la confessio fidei: è il domandare al Signore di essere purificati, di essere medicati nelle forze oscure che non controlliamo e da cui derivano tanti atteggiamenti sbagliati; è il chiedere che venga tolto il peso dei peccati passati, che genera scoraggiamenti, forme di depressione, di aridità, di stanchezza.
Allora la confessione diventa un colloquio penitenziale, che coinvolge l'esistenza. Se provate a praticare questa triplice confessio scoprirete che è più autentica e più umana, capace di far cadere la grazia dello Spirito santo sulla verità di noi stessi e sulla nostra fragilità e povertà. Indubbiamente ne abbiamo tanto bisogno, perché siamo sempre come la donna curva che non riesce ad alzare gli occhi e guarda soltanto a se stessa, ai propri interessi, alle proprie necessità. Quando invece Gesù ci tocca sulla spalla, noi alziamo gli occhi, contempliamo il mistero di Dio e di fronte ad esso comprendiamo meglio le nostre colpe e l'amore con cui Lui ci perdona, ci rilancia, ci ridà la sua fiducia volendo fare attraverso di noi grandi cose per il suo Regno.
Per il momento del dialogo personale con Gesù, rileggiamo le prime parole di un bellissimo inno di sant'Ambrogio: «Gesù Signore, guardaci pietoso / quando tentati, incerti vacilliamo. / Se tu ci guardi, le macchie si dileguano / e il peccato si stempera nel pianto». Per Ambrogio il dramma del peccato si scioglie lasciandosi guardare da Gesù con amore.
O Gesù che togli i peccati del mondo, tu solo puoi salvarci.
Non solo ti chiediamo perdono per le nostre mancanze, ma ti chiediamo guarigione per le nostre ferite, serenità per la nostra tristezza, pace per la nostra angoscia, luce per la nostra oscurità e il nostro smarrimento.
Purificaci fino in fondo, ordinaci secondo la tua volontà, cancella da noi ogni mondanità, fa’ che possiamo aiutare molti altri a gustare la dolcezza della tua misericordia.
 
Signore Gesù, hai posto nella sequela di te la nostra perfezione, la nostra santità, e vuoi che, lasciando tutto, veniamo dietro a te. Attraici con la forza della tua grazia, infondi in noi lo Spirito santo paraclito, perché ci renda docili e attenti alla tua chiamata e a seguirti là dove vuoi che siamo, per essere sempre con te e diventare figli del Padre che con te vive e regna nell’unità dello Spirito santo per tutti i secoli dei secoli.
Potremmo dare come titolo a questa meditazione Il segreto della prima lettera di Pietro.
Dico «il segreto» perché finora ci siamo limitati a considerare i preliminari della lettera. Abbiamo visto come essa parla della grande dignità del cristiano e come contiene frammenti di cammino penitenziale.
Ora tuttavia ci proponiamo di entrare nel messaggio specifico dell' epistola, messaggio che ne costituisce la ragione d'essere, la novità, la bellezza e la forza.
Proprio per comprenderne il profondo segreto, è necessario cogliere anzitutto il significato di quella che negli Esercizi ignaziani è chiamata la Seconda settimana.
La Prima era dedicata alla conversione, alla penitenza, al pentimento, al cambiamento del cuore. Con la Seconda settimana inizia il cammino della chiamata alla sequela di Gesù, che continuerà fino al termine degli Esercizi.
Tutto comincia con una parabola: «La chiamata del re temporale aiuta a contemplare la vita del re eterno» si legge al n. 91 degli Esercizi. E la domanda previa a tutte le meditazioni sarà sempre la stessa: Signore Gesù, che io possa conoscerti, per poterti amare di più e seguirti più intimamente.
Recita poi il n. 95: «Se abbiamo preso in considerazione la chiamata del re temporale ai suoi sudditi, quanto più sarà degno di essere preso in considerazione il fatto di vedere Cristo nostro Signore, re eterno, e davanti a lui tutto l'universo che egli, come fa con ciascuno in particolare, chiama dicendo: "È mia volontà conquistare tutto il mondo e tutti i nemici, ed entrare così nella gloria del Padre mio; pertanto chi vuol venire con me, deve lavorare con me perché, seguendomi nella sofferenza, mi segua anche nella gloria"».
Di qui partono le meditazioni sulla vita di Gesù - su questo ritorneremo - dall'incarnazione a Nazareth, alla nascita a Betlemme, alla visita al Tempio; e successivamente il Battesimo al Giordano, la vita pubblica, la Passione, la Risurrezione.
Si tratta dunque di seguire Gesù fino in fondo e ciò si basa sul principio teologico che siamo creati per essere a immagine del Figlio di Dio e che la nostra perfezione è essere come lui.
Avrete notato un accento particolare della sequela che traspare fin dal n. 95 e ritornerà in tutte le meditazioni della Seconda e Terza settimana: non si tratta solo di conoscere Gesù, bensì di conoscerlo, amarlo, seguirlo nella povertà, nella sofferenza, nell'umiliazione.
Il merito di Ignazio è di esplicitare coraggiosamente il significato di una vera sequela evangelica. Chi è Gesù che voglio seguire? È il Gesù che non ha dove posare il capo, che soffre e viene umiliato ingiustamente. Se non lo si segue così, la nostra risposta alla sua chiamata è fantasia, immaginazione, è vederlo a nostro modo. Il prenderne coscienza è talmente nodale che Ignazio fa appunto dire a Gesù: «Pertanto chi vuol venire con me, deve lavorare con me perché, seguendomi nella sofferenza, mi segua anche nella gloria».
Soltanto la sequela di questo Gesù scioglie il nostro cuore e ci permette di vincere i condizionamenti mondani.
Più chiaramente, leggiamo al n. 98: «Eterno Signore di tutte le cose (...), io voglio e desidero ed è mia ferma decisione, purché sia per vostro maggior servizio e lode, imitarvi nel sopportare tutte le ingiurie e ogni disprezzo e ogni tipo di povertà, tanto attuale quanto spirituale, qualora la vostra santissima maestà voglia eleggermi e ricevermi per tale stato di vita».
Chiunque si sente portato a farsi discepolo di Gesù con generosità, chiunque vuole consegnargli la propria vita con entusiasmo, deve seguirlo non semplicemente come un profeta, un predicatore itinerante che compie miracoli e attira le folle e che poi, per un disgraziato incidente, viene fatto prigioniero e viene ucciso, ma come colui che fin dalla nascita a Betlemme pone la sua vita sotto il segno della povertà, della fragilità, della debolezza, del nascondimento, dell'umiliazione, del disonore ricevuto e accolto misteriosamente quale parte del suo cammino.
La giusta comprensione della sequela di Gesù sta tanto a cuore a Ignazio che al centro della Seconda settimana invita a un'altra meditazione chiave, fondamentale, in cui si ascolta un discorso programmatico di Gesù, preceduto da un discorso programmatico di satana. Satana invita i suoi a tentare gli uomini, a legarci, ad accalappiarci attraverso l'amore delle comodità, del successo, delle ricchezze e quindi della superbia (cfr. n. 142); mentre il progetto di Gesù è quello di invitare tutti alla sobrietà della vita, alla rinuncia, a lasciare ogni cosa per seguirlo, ad accettare anche la via dell'umiliazione (cfr. n. 146).
È una meditazione fondamentale che ci offre una visione combattiva e conflittuale della vita cristiana, della vita secondo lo Spirito. Non semplicemente acquistare le virtù alla sequela del Signore, bensì essere con lui partecipando al suo destino di sofferenza e di gloria, opponendosi al disegno di successo e di ambizione proprio di satana che tenta di distruggerci.
Questo progetto è necessario per capire quanto accade nel mondo, come va la storia, quali sono le forze che aiutano la crescita della Chiesa e quelle che invece la debilitano, la logorano, la tentano, cercano di scalzarla attraverso l'ambizione, la ricchezza, il successo, il potere.
È una chiave di lettura della storia molto austera e insieme molto sincera e forte, e sant'Ignazio la desume direttamente dal Vangelo.
Ho richiamato brevemente il succo del cammino della Seconda settimana degli Esercizi, perché partendo da esso è possibile comprendere meglio il segreto della 1 Pt.
Ricordiamo che quella di Pietro non è una lettera dogmatica, benché abbia un solidissimo fondamento dogmatico; e neppure una lettera penitenziale, tesa a convertire una comunità da comportamenti cattivi. È piuttosto una esortazione pratica.
Dopo aver descritto i principi basilari della vita cristiana - sottolineando la grande dignità del cristiano che nel battesimo è fatto figlio del Padre, luogo di azione dello Spirito, conquistato dalla morte e dal sangue di Gesù, chiamato a una speranza eterna, fondato sulla roccia che è Gesù, generato dalla Parola di salvezza che non viene mai meno -, e dopo aver richiamato alcuni momenti del cammino penitenziale, Pietro si preoccupa soprattutto di aiutare i cristiani a essere irreprensibili in tutti gli stati di vita, ad avere una condotta onorevole in mezzo ai pagani, così da evitare critiche o maldicenze:
«La vostra condotta tra i pagani sia irreprensibile, perché mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere giungano a glorificare Dio nel giorno del giudizio» (2, 12).
Come anche Paolo nelle sue lettere pastorali – in particolare la lettera ai Colossesi, a Tito, a Timoteo -
Pietro vuole che la comunità sia integerrima, che i cristiani si mostrino rispettosi delle leggi, capaci di formare famiglie sane e operose, di vivere e lavorare in fraternità. Essi devono, e lo leggeremo più avanti, «chiudere la bocca all'ignoranza degli stolti» (2, 15), di coloro che non accettano Gesù, ma vedendo il contegno dei cristiani, sono costretti a riconoscerne l'esemplarità.
Interessanti le diverse categorie di doveri che vengono elencati: verso le autorità civili (2, 13-17), nel rapporto tra schiavi e padroni (vv. 18-25), tra mogli e mariti (3, 1-7) e nell'ambito comunitario (vv. 8-12).
Le esortazioni dei cc. 2 e 3 costituiscono il corpo fondamentale della lettera. E saranno riprese alla fine, dove si parla dei doveri degli anziani e dei presbiteri (5, 1-4), dei doveri dei giovani (v. 5) e dei doveri di tutti i fedeli (vv. 6-10).
Sembrerebbe impossibile aspettarci molto da tali esortazioni, perché si tratta di espressioni di buon senso e di insegnamenti verosimilmente già conosciuti dalla comunità primitiva.
C'è però una sorpresa, che è appunto il segreto della 1 Pt, e la si trova nell' esortazione agli schiavi, la categoria più infima e disprezzata. E mi propongo di leggere con voi queste esortazioni, fermandomi in particolare su quella in cui emerge il segreto (2, 18-25). Ho già accennato che possono apparire un po' datate, perché mettono a fuoco una situazione sociologica diversa dalla nostra. Ma è interessante che proprio a riguardo di una situazione ormai superata emergano elementi fondamentali specificamente evangelici.
«State sottomessi a ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al re come sovrano, sia ai governatori come ai suoi inviati per punire i malfattori e premiare i buoni. Perché questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all'ignoranza degli stolti. Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servitori di Dio.
Onorate tutti, amate i vostri fratelli, temete Dio, onorate il re» (2, 13-17).
Qui il problema non è di instaurare la democrazia e neppure di avere delle autorità scelte secondo i criteri del bene comune; il problema è semplicemente di obbedire alle autorità: «State sottomessi a ogni istituzione umana per amore del Signore».
L'autorità di allora era dispotica, non democratica; e tuttavia Pietro non vuole cambiare la situazione, ed esorta: assoggettatevi, vivete bene, poiché questa è la volontà di Dio, in questo ambito siete chiamati alla sottomissione.
E aggiunge, sapendo che la prerogativa del cristiano è la grande libertà interiore: «Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servitori di Dio». I cristiani sono liberi e la loro libertà va espressa nel comportarsi correttamente. Conclude poi dicendo: «Onorate tutti, amate i vostri fratelli, temete Dio, onorate il re».
Termina così la piccola esortazione a vivere nell'ambito civile come buoni e onesti cittadini, obbedienti e rispettosi delle leggi, di cui nessuno deve dire male, di cui nessuno deve potersi lamentare.
Il segreto della prima lettera di Pietro
«Domestici, state soggetti con profondo rispetto ai vostri padroni, non solo a quelli buoni e miti, ma anche a quelli difficili. È una grazia per chi conosce Dio subire afflizioni, soffrendo ingiustamente; che gloria sarebbe infatti sopportare il castigo se avete mancato? Ma se facendo il bene sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, poiché
anche Cristo patì per voi, / lasciandovi un esempio, / perché ne seguiate le orme: / egli non commise peccato / e non si trovò inganno sulla sua bocca / oltraggiato non rispondeva con oltraggi, / e soffrendo non minacciava vendetta, / ma rimetteva la sua causa a colui / che giudica con giustizia. Egli portò i nostri peccati nel suo corpo / sul legno della croce, / perché, non vivendo più per il peccato, / vivessimo per la giustizia; / dalle sue piaghe siete stati guariti. / Eravate erranti come pecore, / ma ora siete tornati al pastore / e guardiano delle vostre anime» (2, 18-25).
Il secondo quadro sociologico, riguardante l'ambito domestico, è quello del rapporto servi-padroni, potremmo dire più chiaramente schiavi-padroni, perché in quel tempo esisteva la schiavitù e tutte le famiglie abbienti possedevano degli schiavi. Su tale rapporto era basato tutto il sistema economico e sociale, quello del tempo di Gesù, ed è continuato per secoli.
Colpisce nell' esortazione, come del resto in alcune lettere di Paolo, che Pietro non intende affatto rovesciare quell' ordine sociale. Tale ordine sarà un giorno ritenuto ingiusto e lesivo della dignità umana, e quindi superato. Ma sappiamo che ci sono voluti molti secoli prima di rovesciarlo appieno grazie anche alla progressiva maturazione del seme evangelico, e in certe parti della terra non è ancora avvenuto del tutto.
Paolo e Pietro non ritengono opportuno farsi ribelli al sistema sociale di allora. Ricordiamo il breve e prezioso biglietto a Filemone, dove Paolo rimanda lo schiavo Onesimo al padrone, senza voler cambiare la sua situazione. Lo rimanda pregando Filemone di accoglierlo con carità, di perdonarlo, di essere comprensivo; e tuttavia non lo affranca, non lo esorta a sciogliere le catene di schiavitù.
È certamente un comportamento che a noi crea problemi, proprio perché viviamo in un mondo che ha maturato una profonda coscienza della dignità e della libertà nativa di ogni uomo. D'altra parte il Nuovo Testamento rispecchia un' atmosfera diversa e gli apostoli non hanno come prima preoccupazione il rovesciamento della situazione esistente; propongono invece ai cristiani di vivere il Vangelo al suo interno.
Riprendiamo i singoli versetti.
- «Domestici, state soggetti con profondo rispetto ai vostri padroni». La parola «domestici» sta per
schiavi che sono legati a una casa, a una famiglia intesa in senso ampio.
- E ora comincia la difficoltà: «non solo a quelli buoni e miti, ma anche a quelli difficili». La parola greca (skolioì) dice di più: a quelli intrattabili, che si comportano con voi in maniera ingiusta e con eccesso di rigore e di punizioni non meritate.
Che cosa ci aspetteremmo dall' apostolo di fronte a tale situazione? Almeno un po' di compassione: poveretti, mi dispiace per la vostra sofferenza. Quanto è dolorosa e vergognosa la vostra condizione! Quanto sono crudeli e arbitrari i vostri padroni! Alcuni si aspetterebbero anzi una promessa di rivalsa: dovete ribellarvi! Oppure almeno un'esortazione ai padroni: non siate esigenti, cercate di essere umani!
- Eppure la via che segue Pietro è a prima vista impensabile perché, con nostra meraviglia, scrive: «È una grazia per chi conosce Dio subire afflizioni, soffrendo ingiustamente; che gloria sarebbe infatti sopportare il castigo se avete mancato? Ma se facendo il bene sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio».
È un' esortazione sorprendente, lontanissima dalla mentalità odierna, e però ci permette di capire come l'apostolo non parla per un desiderio di pace sociale ad ogni costo, per non creare disordini, perché i cristiani non appaiano ribelli e non siano quindi perseguitati dall' autorità civile. La sua affermazione si basa sul motivo di fondo: così si è comportato Gesù. L’esortazione sociologica diventa a questo punto cristologica e Pietro innalza un meraviglioso inno sulle sofferenze di Cristo:
- «A questo siete stati chiamati, poiché l anche Cristo patì per voi, / lasciandovi un esempio, / perché ne seguiate le orme: / egli non commise peccato / e non si trovò inganno sulla sua bocca». Non dava motivo di punirlo, era leale, onesto, innocente, patì senza colpa.
- «Oltraggiato non rispondeva con oltraggi, / e soffrendo non minacciava vendetta, / ma rimetteva la sua causa a colui / che giudica con giustizia». Gesù è esempio di umiltà, di accettazione della sofferenza anche ingiusta, di accettazione dell'umiliazione, di affidamento a Dio («Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» - Lc 23, 46).
- E Gesù è morto giusto per noi ingiusti, è morto innocente per noi peccatori. In lui è l'unica salvezza, la chiave della storia: «Egli portò i nostri peccati nel suo corpo / sul legno della croce». Noi abbiamo meritato il legno della croce, noi abbiamo meritato i castighi, ma lui li ha presi su di sé.
- «Perché, non vivendo più per il peccato, / vivessimo per la giustizia; / dalle sue piaghe siete stati guariti. / Eravate erranti come pecore, / ma ora siete tornati al pastore / e guardiano delle vostre anime»: meritavate di perdervi, perché avete voluto allontanarvi dal gregge, ma lui con bontà e con amore vi ha ricondotti e ha pagato per voi.
Quello che ho chiamato il segreto della 1 Pt si evidenzia qui: la capacità di interpretare cristologicamente una pesante e ingiusta situazione socio logica, in maniera tale da mettere in risalto soprattutto il primato di Gesù che si è lasciato condannare per amore nostro. È la forza cristologica di questa epistola, che rovescia le situazioni umane con la proclamazione della sofferenza di Cristo.
Mi limito ad accennare, nell'ambito familiare, all'esortazione riguardo al rapporto mogli-mariti. Di nuovo ci troviamo assai lontani dalla situazione descritta in questo brano, almeno nel nostro mondo occidentale.
Di fatto, mentre alle mogli vengono date esortazioni per più di mezza pagina, ai mariti vengono dette pochissime cose:
«Ugualmente voi, mogli, state sottomesse ai vostri mariti perché, anche se alcuni si rifiutano di credere alla parola, vengano dalla condotta delle mogli, senza bisogno di parole, conquistati considerando la vostra condotta casta e rispettosa» (3, 1-2).
E poi ancora una lunga esortazione alle mogli affinché non si lascino corrompere dalla mondanità degli ornamenti, delle collane, degli anelli, di tutto quanto può essere sfoggio di lusso, come allora avveniva. Pietro le esorta a ornarsi interiormente, ad avere un cuore pieno di mitezza e di pace (cfr. vv. 3-6), secondo l'esempio di Gesù mite e pacifico, che rinuncia ai privilegi della sua divinità.
Più breve, come dicevo, l'esortazione ai mariti:
«E ugualmente voi, mariti, trattate con riguardo le vostre mogli, perché il loro corpo è più debole, e rendete loro onore perché partecipano con voi della grazia della vita: così non saranno impedite le vostre preghiere» (v. 7).
Noi abbiamo una concezione diversa del rapporto uomo-donna e accettiamo con fatica queste parole. In ogni caso mostrano la volontà in Pietro di promuovere il rispetto della donna e l'uguaglianza nella fede e nella preghiera.
È interessante osservare come una società arcaica, legata pure a strutture ingiuste, viene gradualmente fermentata dal pensiero cristiano, a partire non da una ribellione esteriore, ma da un mutamento interiore del cuore, in cui il punto decisivo è la relazione a Gesù.
L'ultima esortazione di questa parte centrale si rivolge all' ambito comunitario. L'abbiamo già citata e la rileggiamo per sottolinearne la valenza cristologica.
«E finalmente siate tutti concordi, partecipi delle gioie e dei dolori degli altri, animati da affetto fraterno, misericordiosi, umili; non rendete male per male, né ingiuria per ingiuria, ma, al contrario, rispondete benedicendo; poiché a questo siete stati chiamati per avere in eredità la benedizione.
Infatti: / Chi vuole amare la vita/ e vedere giorni felici, / trattenga la sua lingua dal male / e le sue labbra da parole d'inganno; / eviti il male e faccia il bene, cerchi la pace e la segua, / perché gli occhi del Signore sono sopra i giusti / e le sue orecchie sono attente alle loro preghiere; / ma il volto del Signore è contro coloro che fanno il male» (3, 8-12).
È richiamato un atteggiamento ispirato al Discorso della montagna: modesti e miti, non superbi e non pretenziosi. Di nuovo domina l'esempio di Gesù, che «oltraggiato non rispondeva con oltraggi» (2,23).
L'apostolo sembra dire che non è necessario stravolgere in maniera violenta la società: è piuttosto testimoniando la Buona Notizia che i cristiani potranno costruire gradualmente la pace e la giustizia che il Vangelo promette.
La parte centrale della lettera (2, 12 - 3, 12) ha dato dunque l'avvio per la comprensione del mistero dell'amore di Cristo e della sua redenzione, ponendo un principio nuovo e dirompente in una società basata sulla sopraffazione, sulla vendetta, sulla violenza, sul potere del denaro e delle armi. Gli apostoli invitano alla mitezza, all'umiltà, alla povertà, all' accettazione anche dell'ingiustizia purché rifulga la carità e il perdono dei seguaci del Signore.
Tutto questo negli Esercizi spirituali viene posto alla base di ogni progetto di vita. Il non considerare l'umiltà e la povertà di Gesù porta a un progetto al massimo umano, o di successo, anche se magari onesto. Gesù invece tiene conto dell'ingiustizia, del male del mondo, e vi entra per risanarlo dall'interno, con un atto eroico di amore e di perdono.
Gesù Signore, Figlio di Dio, tu che hai detto: imparate da me che sono mite e umile di cuore, fammi comprendere il mistero di queste tue parole, fammi comprendere come la tua mitezza e umiltà non sono debolezza, pigrizia, fuga, cedimento di fronte all'ingiustizia, bensì sono forza, coraggio, seme di vita nuova, presa di posizione precisa, rigorosa e forte di fronte agli avvenimenti del mondo.
Donami di contemplare il tuo volto, di conoscerti e di amarti davvero con tutto me stesso, per fondare su di te ogni mia attesa e ogni mia scelta.


Ci proponiamo di approfondire ulteriormente la riflessione sul segreto della 1 Pt. Esso emerge non soltanto quasi occasionalmente, là dove si menzionano i castighi ingiusti degli schiavi, ma diviene anche un principio generale per interpretare il significato delle sofferenze di ogni cristiano, in particolare il significato delle persecuzioni che i seguaci di Gesù subiscono quando vogliono proclamare il Vangelo.
Vorrei perciò leggere con voi altri brani della lettera che si riferiscono al cristiano in quanto tale, a prescindere dalla sua condizione o situazione sociologica.
«E chi vi potrà fare del male, se sarete ferventi nel bene? E se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché nel momento stesso in cui si parla male di voi rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. È meglio infatti, se così vuole Dio, soffrire operando il bene che facendo il male» (3, 13-17).
Soffermiamoci sulle parole di Pietro.
- «E chi vi potrà fare del male, se sarete ferventi nel bene?». Il cristiano non deve avere paura di nessuno, non deve temere il male quando fa il bene.
- «E se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi!». È una beatitudine che si aggiunge a quella ben nota del Vangelo: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia» (Mt 5, 11).
- Segue poi un principio generale che ha la sua radice in un profeta coraggioso e ardente come Isaia: «Non vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori».
È infatti la parola rivolta al profeta quando si trovava di fronte a un popolo che non lo ascoltava e avrebbe potuto incutergli paura:
«Poiché così il Signore mi disse, quando mi aveva preso per mano e mi aveva proibito di incamminarmi nella via di questo popolo: / "Non chiamate congiura / ciò che questo popolo chiama congiura, / non temete ciò che esso teme e non abbiate paura". / Il Signore degli eserciti, lui solo ritenete santo. / Egli sia l'oggetto del vostro timore, della vostra paura» (Is 8, 11-13).
Isaia viene dunque esortato a parlare con la forza della sua profezia, senza lasciarsi trascinare dai modi di pensare del popolo e dalle mode, a non avere paura di chi lo osteggia e lo perseguita.
Questo principio Pietro lo applica a tutti i cristiani: ogni sofferenza per la giustizia, se è vera sofferenza per la giustizia, va considerata come beatitudine e non come disgrazia.
- I cristiani però devono sapersi spiegare, rimanendo miti e coraggiosi: «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi».
L'apostolo formula un'ipotesi che è attuale. Anche a noi può capitare che la gente ci chieda: come mai mostrate tanta gioia e tanta speranza, pur quando vi trovate in situazioni di difficoltà o di sofferenza? E noi, dando ragione della nostra speranza, proclamiamo il Signore Gesù.
- «Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché nel momento stesso in cui si parla male di voi rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo».
Pietro è dunque sicuro che la coscienza retta dei cristiani, nella misura in cui non si spaventano, non fuggono, non si nascondono, non dissimulano la loro fede, sarà prima o poi riconosciuta.
- E il testo si conclude riprendendo l'affermazione iniziale: «È meglio infatti, se così vuole Dio, soffrire operando il bene che facendo il male».
Questo principio è generale e riguarda l'intera vita cristiana.
Sembra che a Pietro non basti avere espresso questo segreto in maniera ampia, estendendolo a cristiani di ogni condizione. Egli ritorna sul tema nel capitolo seguente, là dove ancora una volta insiste sulla persecuzione dei cristiani, indicando che questa è una grazia, non una disgrazia, non maledizione di Dio.
«Carissimi, non siate sorpresi per l'incendio di persecuzione che si è acceso in mezzo a voi per provarvi, come se vi accadesse qualcosa di strano. Ma nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare. Beati voi, se venite insultati per il nome di Cristo, perché lo Spirito della gloria e lo Spirito di Dio riposa su di voi. Nessuno di voi abbia a soffrire come omicida o ladro o malfattore o delatore. Ma se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; glorifichi anzi Dio per questo nome. (...) Perciò anche quelli che soffrono secondo il volere di Dio si mettano nelle mani del loro Creatore fedele e continuino a fare il bene» (4, 12-19).
- «Carissimi»: è 1'apostrofe usata nella lettera per comunicare con grande affetto qualcosa di importante e che sta molto a cuore.
- «Non siate sorpresi per l'incendio di persecuzione che si è acceso in mezzo a voi per provarvi, come se vi accadesse qualcosa di strano». Il subire persecuzione non è quindi un fatto impensabile, inimmaginabile, è anzi piuttosto probabile e normale.
Gli esegeti si domandano se si parla della persecuzione avvenuta sotto Nerone o di quella avvenuta più tardi sotto Domiziano. Non abbiamo riferimenti precisi per rispondere, ma oggi gli stessi biblisti ritengono che non si tratta forse di una persecuzione politica, bensì della situazione di minorità, di emarginazione e quasi di disprezzo, in cui erano tenuti i cristiani nella società di quel tempo: considerati un gruppo poco influente, senza potere, un gruppo che si poteva tranquillamente deridere e disprezzare.
Le parole di Pietro valgono comunque in ogni persecuzione; è una grazia che fa partecipare da vicino alla sorte di Gesù. La scelta di essere totalmente per lui non è comoda, non porta in tasca del denaro, al contrario ci pone di fronte a difficoltà, anche a livello sociale.
- Continua il testo: «Ma nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi». È l'interpretazione cristologica delle sofferenze dei cristiani destinatari della lettera. Non sono soltanto sofferenze loro: come esprime con forza il verbo greco koinoneite (partecipate), sono una koinonia, una comunione con le sofferenze di Cristo. Essi vivono l'esperienza di Gesù, sono come Gesù.
- «Perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare». Si suppone nuovamente la speranza escatologica, il trionfo del Signore, nel quale chi sarà stato dalla sua parte pure nei momenti dolorosi, potrà finalmente godere ed esultare in Gesù.
- Interessante la beatitudine che segue: «Beati voi, se venite insultati per il nome di Cristo, perché lo Spirito della gloria e lo Spirito di Dio riposa su di voi». Siete addirittura come Gesù su cui riposa lo Spirito nel momento del Battesimo. È un versetto molto solenne e trinitario.
- Nell'intento che non si confondano le sofferenze subite a causa del Vangelo con quelle subite per colpe personali, la lettera aggiunge: «Nessuno di voi abbia a soffrire come omicida o ladro o malfattore o delatore». Non dovete essere persone che col loro comportamento danneggiano la società.
- «Ma se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; glorifichi anzi Dio per questo nome».
Ricordo che durante il mio servizio episcopale nella diocesi di Milano ho avuto tante volte modo, visitando le parrocchie, di richiamare queste parole, in particolare quando i giovani mi chiedevano: cosa dobbiamo fare quando veniamo derisi dai nostri coetanei perché frequentiamo l'oratorio? E rispondevo: ringraziate il Signore, dal momento che essere derisi per la vostra professione di fede in Gesù è una gloria. Non spaventatevi perciò, non turbatevi, non fate come Pietro che nel momento della Passione ha affermato di non conoscere il suo Maestro; date piuttosto ragione con fermezza della vostra scelta, glorificando il vostro nome cristiano.
Un simile modo di agire mostra la forza e la dignità del credente ed è capace di conquistare anche altri. Se al contrario ci si impaurisce, negando la nostra appartenenza, gli interlocutori diventano più audaci, così come, dopo il primo rinnegamento, tutti prendono coraggio di scagliarsi contro Pietro, che finisce col negare di nuovo Gesù.
- Tralascio i vv. 17 e 18 che riguardano il giudizio finale, e cito il versetto conclusivo: «Perciò anche quelli che soffrono secondo il volere di Dio, si mettano nelle mani del loro Creatore fedele e continuino a fare il bene». Dio è fedele, non permetterà che quanti si abbandonano a lui abbiano a soffrire in maniera eccessiva, in maniera da restarne travolti. Egli li sosterrà, li conforterà, li difenderà.
Vorrei affidare le pagine riguardanti il segreto centrale della lettera alla vostra meditazione e alla vostra preghiera, nella convinzione di essere di fronte al punto nodale dell' esistenza cristiana.
Questo messaggio fondamentale ci aiuta a comprendere ciò che veniva anticipato all'inizio della 1 Pt, su cui non ci siamo molto soffermati, e che ora possiamo comprendere meglio: «Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un po' afflitti da varie prove, perché il valore della vostra fede, molto più preziosa dell'oro, che, pur destinato a perire, tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo» (1, 6-7). Dunque da subito la prova è unita alla gioia.
Viene alla mente una pagina degli Atti degli Apostoli: «Essi (gli apostoli) se ne andarono dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per il nome di Gesù» (5, 41): battuti e svergognati nel sinedrio, uscivano pieni di gioia perché avevano reso testimonianza al Signore. È esattamente l'insegnamento dei brani della 1 Pt sulle sofferenze e le persecuzioni per il Vangelo.
In proposito ci sarebbero da ascoltare tante obiezioni moderne. Per esempio la cosiddetta teologia della liberazione ritiene necessario anzitutto liberare chi soffre ingiustamente e non invitarlo a soffrire con pazienza.
TI contesto sociologico è ovviamente cambiato rispetto al tempo della comunità primitiva. Abbiamo una visione più chiara e accettata della dignità della persona, di quanto la persona autonomamente deve fare per vivere nella libertà e nella giustizia. E tuttavia, pur tenuto conto di tale diversità di sfondo e di cultura, rimane vera la rivelazione fondamentale che soffrire ed essere umiliati per amore di Cristo è una grazia.
Una rivelazione tipicamente cristiana, che non può essere capita dal mondo e che corrisponde chiaramente alle beatitudini: beati coloro che piangono, perché saranno consolati; beati voi quando vi perseguiteranno (cfr. Mt 5, 3-12). La beatitudine nella sofferenza e nella persecuzione è parte del Vangelo purissimo di Gesù.
Di fronte a questo ci ribelliamo e ci tiriamo continuamente indietro; siamo infatti timorosi e pavidi, proprio come lo era Pietro che, di fronte ai soldati e alle serve del sommo sacerdote, non ha osato confessare pienamente la sua fede.
L'invito per noi è a pregare intensamente, nel desiderio che ci sia donato, anche nelle difficili condizioni odierne, il coraggio di vivere e di testimoniare le beatitudini.
Mi piace aggiungere un ultimo pensiero: l'umiltà e la mitezza di Gesù, che il cristiano è chiamato a imitare nella prova e nella persecuzione, è, potremmo dire con una immagine, la porta della Trinità. L'umiltà e la povertà del Figlio di Dio vengono scoperte, a mano a mano che procede l'approfondimento della fede lungo i secoli cristiani, non soltanto come realtà cristologica, ma pure come fatto trinitario.
Proviamo a chiederei perché Gesù si presenta fin dalla nascita a Betlemme come umile, povero, indifeso; non è capace neppure di difendersi da Erode e deve fuggire in Egitto. Non ha nessun potere mondano, nessun esercito che lo protegga, nessuna potenza politica che prenda le sue parti. E proprio la sua volontà di essere umile e indifeso lo condurrà alla morte: egli stesso dirà che avrebbe potuto chiedere al Padre dodici legioni di angeli, e però voleva affrontare coraggiosamente il suo destino (cfr. Mt 26, 53).
Certamente una risposta è che la sua scelta ha un motivo ascetico: vuole insegnarci a combattere l'orgoglio, radice di tutti i peccati; a difenderei dalla presunzione del potere, da tutte le passioni proprie del mondo, dalla voglia sfrenata di comandare, di possedere, di essere violenti, di farsi giustizia; vuole insegnarci a liberarci dai lacci di satana.
È però necessario aggiungere che il suo modo di essere ha pure un valore teologico, nel senso che ci permette di entrare in qualche modo nel mistero della Trinità. La teologia contemporanea legge infatti nell'umiltà di Gesù alcuni riflessi del Mistero trinitario.
Che cosa sappiamo noi di questo Mistero? Sappiamo che nessuna Persona divina è ripiegata su se stessa in difesa dei propri diritti, che ogni Persona è relativa all' altra: il Padre è relativo al Figlio, il Figlio al Padre, il Padre e il Piglio allo Spirito. Essere relativo all' altro significa totale dedizione: il Padre dà tutto se stesso al Figlio, il Figlio dà tutto se stesso al Padre, lo Spirito è l'amore del Padre e del Figlio.
Tali atteggiamenti si traducono, nel linguaggio umano, in «umiltà» e «amore» che sono perciò il segno della Trinità. E Gesù, insegnando ci a vivere con umiltà e amore, mette nel mondo il segno del Dio trinitario. Dio Amore è dunque rappresentato al meglio nel Piglio umiliato, povero, sofferente, crocifisso, che diventa per noi porta di intuizione della Trinità.
Ho letto recentemente un'opera del teologo tedesco Hoffman intitolata Kreuz und Trinität, nella quale egli svolge ampiamente questo tema. lo ho voluto accennarvi, pur se non emerge con evidenza nella 1 Pt, perché mi sembra che lo sviluppo della riflessione teologica abbia di fatto messo in luce un mistero profondo che, anche se non è esplicitato, si percepisce racchiuso e custodito nelle parole dell' apostolo.
Dopo aver considerato l'umiliazione di Cristo e le sue sofferenze come motivo teologico e trinitario, possiamo coglierne infine un riflesso antropologico. Lo ha espresso il Concilio Vaticano II con una formula che viene ripresa da Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica Redemptor hominis: l'uomo si realizza pienamente nel dono di sé. In altri termini, quando ci liberiamo dall' egoismo, dalla ricerca del successo, del potere, della gloria, e ci dedichiamo agli altri, siamo veramente uomini.
Di conseguenza l'umiltà, la mitezza, lo spirito di sacrificio costituiscono la strada per la vera pace. Non ci sarà pace finché non saranno in onore lo spirito di dedizione, la mitezza, l'umiltà e il perdono. È un dato che verifichiamo purtroppo ogni giorno nella vita sociale e politica. Il cristianesimo vuol essere appunto segno e fermento di riconciliazione in un mondo travagliato dalle passioni dell'ambizione, del potere, della violenza.
A questo punto comprendiamo che le parole di Pietro non sono certo espressione di assoggettamento al potere, di accettazione di fatti compiuti; l'esempio di Cristo che ci propone l'apostolo ci aiuta a capire il mistero stesso di Dio e dell'uomo.
Sgorga una preghiera:
Signore Gesù, tu ci chiami a seguirti e ci fai comprendere a poco a poco, soprattutto col crescere della nostra vita e delle nostre esperienze, che il seguirti è bello e però costa sacrificio. Esige l'uscita da se stessi e la dedizione agli altri, esige la forza del perdono e il coraggio della mitezza.
Ti chiediamo di imprimere in noi queste virtù, che sono tuo dono. Così tu vivrai in noi e noi vivremo in te, diventando sorgente di verità e di pace per tanti fratelli.
 
Ho pensato di fare una sorta di pausa nelle nostre meditazioni per riprendere un argomento che mi sta molto a cuore e di cui ho parlato nel nostro primo incontro: gli esercizi spirituali sono essenzialmente un ministero dello Spirito.
Noi li abbiamo vissuti in parte come ministero della Parola, perché ho spiegato il testo della 1 Pt per aiutarci a comprendere e meditare la parola di Dio. Questa tuttavia è soltanto la trama esteriore, in quanto negli esercizi è decisivo ciò che avviene nel cuore sotto le mozioni dello Spirito santo.
Tali mozioni acquistano figura concreta in due designazioni che Ignazio di Lojola propone attingendo alla Scrittura e alla Tradizione, e che sono diventate classiche: la consolazione e la desolazione.
È vero che il variare delle consolazioni e delle desolazioni avviene soprattutto quando si fanno gli esercizi per la prima volta, ma è altrettanto vero che la vita spirituale è sempre un' altalena tra questi due movimenti interiori.
È nell'Autobiografia che Ignazio descrive il momento in cui ha incominciato ad avere una prima coscienza riflessa delle mozioni che si agitavano in lui. Racconta, parlando in terza persona: «...pensando alle cose del mondo provava molto piacere, ma quando, per stanchezza, le abbandonava si sentiva vuoto e deluso. Invece andare a Gerusalemme a piedi, non cibarsi che di erbe, praticare tutte le austerità che aveva conosciute abituali ai santi, erano pensieri che non solo lo consolavano mentre vi si soffermava, ma anche dopo averli abbandonati lo lasciavano soddisfatto e pieno di gioia. (...) E a poco a poco imparò a conoscere la diversità degli spiriti che si agitavano in lui: uno dal demonio, l'altro da Dio» (n, 8).
È il primo germe, l'esperienza che sta all' origine storica degli Esercizi spirituali, soprattutto di quelle che poi saranno proposte come Regole per il discernimento degli spiriti. Su tali Regole vorrei che ci confrontassimo.
Preliminarmente osserviamo che già nelle Note introduttive al libro - che sono indicazioni date per chi guida gli esercizi - leggiamo: «Chi dà gli esercizi, quando avverte che non sorgono nell' anima dell'esercitante mozioni spirituali, quali consolazioni o desolazioni, né che sia agitato da vari spiriti, deve interrogarlo molto sugli esercizi, se cioè li fa nei tempi stabiliti e come; così pure sulle addizioni, se le fa con diligenza, chiedendo conto di ciascuna di queste cose particolareggiatamente» (n. 6). Ignazio dunque si stupisce che l'esercitante non sia agitato da qualche spirito, ritenendo che in ciò consista la concreta esperienza degli esercizi.
E anche più avanti, là dove dà istruzioni per la preghiera, insegna che occorre fermarsi quando si sperimenta maggiore consolazione e fa capire che essa può essere desiderata e chiesta (cfr. n, 254).
Notiamo tuttavia che, parlando delle circostanze in cui compiere una sana e buona elezione, ,afferma che si può vivere un tempo tranquillo, cioè non agitato da diversi spiriti: «La terza circostanza è di tranquillità: quando cioè una persona, tenendo presente perché l'uomo è nato, cioè per lodare Dio nostro Signore e per salvare la propria anima, e volendo ottenere ciò, sceglie come mezzo un genere o stato di vita nell' ambito della Chiesa per essere aiutata nel servizio del Signore e nella salvezza della propria anima». E aggiunge: «Ho parlato di tempo tranquillo, quando, cioè, l'anima non è agitata da vari spiriti e usa le proprie potenze naturali liberamente e tranquillamente» (n, 177).
Dunque ci può essere un tempo tranquillo; e normalmente, col procedere degli anni e del cammino spirituale, è più facile entrarvi e rimanervi. Occorre naturalmente stare attenti, perché talora il tempo tranquillo può significare tregua e armistizio con i propri difetti; si sono, cioè, emarginati i problemi realmente importanti, ci si accontenta di un certo ritmo mediocre di preghiera e non ci si lascia più disturbare dall' azione dello Spirito che ci spinge a fare la volontà di Dio.
Rimane in ogni caso vero che la nostra biografia spirituale, per tutta la nostra esistenza, sarà sempre un'alternanza tra consolazione, desolazione e tempi tranquilli; e i momenti della consolazione e della desolazione saranno di solito i più significativi.
Per questo leggiamo almeno due Regole degli Esercizi, dove si descrivono appunto la consolazione e la desolazione; successivamente altre tre Regole di comportamento e di discernimento, particolarmente importanti.
* «Chiamo consolazione spirituale il causarsi nell'anima di qualche movimento intimo con cui l'anima resti infiammata nell' amore del suo Creatore e Signore; come pure quando essa non riesce ad amare nessuna cosa creata sulla faccia della terra, ma solamente in relazione al Creatore di tutto.
Così pure, quando la persona versa lacrime che la spingono all' amore del suo Signore, o a causa del dolore dei propri peccati, o per la Passione di Cristo nostro Signore, o a causa di altre cose direttamente indirizzate al suo servizio e lode. Infine chiamo consolazione ogni aumento di speranza, di fede e di carità e ogni tipo di intima letizia che sollecita e attrae alle cose celesti e alla salvezza della propria anima, rasserenandola e pacificandola nel proprio Creatore e Signore» (n. 316).
Dapprima vengono descritte due situazioni particolari, quella dell' accrescimento di amore o di dolore, poi il discorso si fa più generale, ed è interessante che Ignazio ponga al primo posto la speranza: «ogni aumento di speranza, di fede e di carità».
Quindi speranza, fede e carità, pace interiore, gioia spirituale, tranquillità sono tutti moti dello Spirito.
Possiamo distinguere la consolazione, di cui Ignazio parla in termini generali, in tre tipi: la consolazione della mente, del cuore e della vita.
- Della prima, la consolazione della mente o intellettuale, ha avuto un' esperienza straordinaria lo stesso Ignazio e la racconta nell'Autobiografia: «Tutto assorbito nelle sue devozioni, si sedette un poco con la faccia rivolta al torrente che scorreva in basso. E mentre stava lì seduto, gli si aprirono gli occhi dell'intelletto: non ebbe una visione, ma conobbe e capì molti principi della vita interiore, e molte cose divine e umane; con tanta luce che tutto gli appariva come nuovo. Non è possibile riferire con chiarezza le pur numerose verità particolari che egli allora comprese; solo si può dire che ricevette una grande luce dell' intelletto.
Il rimanere con l'intelletto illuminato in tal modo fu così intenso che gli pareva di essere un altro uomo, o che il suo intelletto fosse diverso da quello di prima.
Tanto che se fa conto di tutte le cose apprese e di tutte le grazie ricevute da Dio, e le mette insieme, non gli sembra di avere imparato tanto, lungo tutto il corso della sua vita, fino a sessantadue anni compiuti, come in quella sola volta» (n. 30). E sappiamo che dopo decine di anni ricordava ancora perfettamente la sua illuminazione e affermava che, qualora si fosse persa la sacra Scrittura, sarebbe riuscito a ricostruirla partendo dall'intuizione ricevuta.
Di consolazioni della mente abbiamo tutti molto bisogno, specialmente quanti, avendo responsabilità di altri nella Chiesa, devono essere lungimiranti per collocare in un quadro organico più vasto il cammino delle persone loro affidate.
- Sperimentiamo la consolazione del cuore allorché sentiamo crescere in noi, anche senza una particolare illuminazione dell'intelletto, l'amore alla preghiera, l'amore a Gesù, la devozione, la pietà, e ci sentiamo accesi interiormente davanti all'Eucaristia o di fronte alle sofferenze degli altri. Il cuore si riscalda e si scioglie per la mozione dello Spirito santo.
La consolazione affettiva è molto importante perché, nella molteplicità degli impegni e degli incontri quotidiani, ci aiuta a non perdere il gusto della preghiera e del contatto personale, sincero, profondo, con le persone.
- Infine, la consolazione della vita è la situazione spirituale in cui lo Spirito santo opera dall'interno, facendo in modo che si compiano le opere del Vangelo con pazienza, con coraggio e con perseveranza. È una consolazione percepibile nei suoi effetti, non in se stessa. Quando incontriamo una persona che, malgrado le fatiche, le critiche, le difficoltà, le stanchezze, prosegue nel servizio di Dio e del prossimo con amore, umiltà, fedeltà, ci si rende evidente che è mossa e sostenuta dallo Spirito.
* Passiamo alla Regola riguardante la desolazione spirituale: «Chiamo desolazione tutto ciò che si oppone alla terza regola, per esempio l'oscurità dell'anima, il suo turbamento, l'inclinazione alle cose basse e terrene, l'inquietudine dovuta a vari tipi di agitazioni e tentazioni, quando l'anima è sfiduciata, senza speranza, senza amore e si trova tutta pigra, tiepida, triste e come separata dal suo Creatore e Signore». È un elenco di stati d'animo terribili. E continua: «Infatti, come la consolazione è contraria alla desolazione, così i pensieri che nascono dalla consolazione sono opposti ai pensieri che nascono dalla desolazione» (n. 317).
Osserviamo che vengono descritti con maggior facilità gli stati d'animo della desolazione, perché sono molteplici e più percepibili. Ed è utile ricordare che fanno parte del cammino di ogni persona, soprattutto di chi ha una vita spirituale profonda. È una fenomenologia che si verifica di frequente; vi sfuggono coloro che - come ho già accennato -, non lottando più con i propri difetti e accontentandosi della propria tiepidezza, non vengono assaliti da satana.
Al riguardo gli autori spirituali hanno parlato a lungo e in maniera sistematica nei loro testi di ascetica e di mistica. Anche tanti santi hanno descritto le loro esperienze; ricordo soprattutto san Giovanni della Croce nelle sue straordinarie opere Salita del Monte Carmelo e Notte oscura.
Ed è impressionante costatare come anime semplici sono entrate e sono rimaste per lungo tempo in questa terribile sofferenza.
Abbiamo già menzionato le prove di santa Teresa di Gesù Bambino. E pure Madre Teresa di Calcutta, dopo aver goduto per anni delle consolazioni dello Spirito, è precipitata in uno stato di oscurità e di desolazione spirituale, durato fino alla morte, di tentazione contro la fede, che superava attraverso l'esercizio eroico della carità.
* Consideriamo ora due Regole degli Esercizi che esprimono il comportamento da tenere durante la desolazione.
- «In tempo di desolazione non si facciano mai mutamenti, ma si resti saldi e costanti nei propositi e nelle decisioni che si avevano il giorno precedente a tale desolazione o nella decisione che si aveva nella precedente consolazione. Perché, mentre nella consolazione ci guida e ci consiglia di più lo spirito buono, nella desolazione ci guida quello cattivo con i consigli del quale non possiamo imbroccare nessuna strada giusta» (n. 318).
N ella desolazione ci salva dunque la perseveranza. Quando fu chiesto a santa Teresa di Gesù Bambino come poteva cantare «la felicità del cielo», pur se non sentiva più la fede, lei rispose: «Canto ciò che voglio credere» (MA 280).
- Anche la seconda Regola è estremamente significativa: «Chi si trova nella desolazione, consideri come il Signore lo lascia nella prova affidato alle sue forze naturali, perché resista alle molte agitazioni e tentazioni del nemico; infatti può fare ciò con l'aiuto divino che gli resta sempre, sebbene non lo senta chiaramente perché il Signore gli ha sottratto il suo grande fervore, l'intensità dell' amore e della grazia, pur lasciandogli la grazia sufficiente per la salvezza eterna» (n. 320).
Conosco persone che sono state fortemente aiutate nella desolazione dal ripetere questa parola: con l'aiuto di Dio posso resistere, sono certo della sua grazia. Tale certezza ha permesso loro di superare quei momenti di prove durissime.
* Mi sembra bello infine citare la prima delle Regole della Seconda settimana, la cosiddetta «Regola della gioia», fondamentale per la vita personale e per la vita della Chiesa, per riconoscere la presenza delle mozioni dello Spirito, che si trova ovunque vi sia vera letizia interiore: «È proprio di Dio e dei suoi angeli dare con le loro mozioni vera letizia e godimento spirituale, togliendo qualsiasi tristezza e turbamento inoculati dal nemico; per questi è connaturale combattere contro tale letizia spirituale, adducendo ragioni speciose, sofismi e continue falsità» (n. 329).
Mentre lo Spirito ispira letizia e gioia, l'avversario cerca di combatterle in tutti i modi, anche nei modi più nascosti, intricati e misteriosi.
La «Regola della gioia» è dunque essenziale per il discernimento personale e per quello pastorale.
L'esperienza della consolazione è infatti particolarmente necessaria per chi esercita oggi un ministero pastorale, che spesso è un ministero di consolazione: la gente è stanca, disturbata mentalmente, psicologicamente, affettivamente, e chiede di essere confortata e aiutata.
Domandiamo in preghiera la consolazione dello Spirito per ciascuno di noi, per ogni cristiano che voglia vivere con profondità e testimoniare con coerenza la propria fede. Domandiamola per ogni situazione in cui si fa lavoro di frontiera, dove si fa opera missionaria in senso lato, dove ci si occupa di realtà difficili, per ogni situazione in cui ci sia bisogno di discernimento.
Signore, noi abbiamo bisogno di te, abbiamo bisogno del tuo conforto come del pane quotidiano.
Donaci la consolazione dello Spirito, donaci quel tocco di letizia, di serenità, di pace e di gioia che ci permette di fare unità nella nostra vita, di resistere alle tentazioni, di perseverare nella nostra vocazione
.

Concedici, Signore Gesù, per intercessione di Maria tua Madre, di entrare nel tuo cuore, di amarti sempre più e di poterti seguire senza alcun riserva. Fa' che conosciamo le azioni, le parole, le sofferenze della tua vita, per comunicare anche ai tuoi dolori ed essere uniti a te nella pienezza della gioia. Tu che sei Dio e vivi e regni con il Padre nell'unità dello Spirito santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.
Rileggendo per l'ennesima volta ieri sera la lettera di Pietro, ho notato la frequenza dei riferimenti alla Passione di Gesù; ed è giusto che sia così da parte di colui che si presenta come testimone delle sofferenze di Cristo:
«Esorto gli anziani che sono tra voi, quale anziano come loro, testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi» (5, 1).
Del resto fin dall'inizio la lettera insiste sulle sofferenze di Cristo, là dove si rivolge ai fedeli «eletti (...) grazie all' obbedienza di Gesù e all' aspersione del suo sangue» (1,2). E menziono altri versetti che ritornano sullo stesso tema:
Dio Padre «ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva» (1,3);
lo Spirito santo «prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che dovevano seguirle» (v. 11);
«voi foste liberati (...) con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia» (v. 19);
«Anche Cristo patì per voi, / lasciandovi un esempio, / perché ne seguiate le orme» (2,21), espressione che fa parte della lunga pericope su cui ci siamo soffermati parlando del segreto della 1 Pt;
«Anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti» (3, 18);
«Poiché dunque Cristo soffrì nella carne, anche voi armatevi degli stessi sentimenti» (4, 1);
«Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi» (v. 12).
Possiamo concludere che l'epistola e il suo segreto - la gioia di comunicare alle sofferenze di Cristo nasce da una prolungata, profonda e amorosa meditazione sulla Passione del Signore. Non dobbiamo perciò stupirci se questo grande segreto della gioia nella partecipazione ai dolori di Cristo ci rimane un po' esteriore, non ci penetra dentro.
È necessario farlo nostro attraverso una ripetuta meditazione e contemplazione sulla vita, Passione, morte ,e risurrezione di Gesù.
È pure la convinzione sottesa allo svolgimento delle Settimane ignaziane.
Abbiamo già visto come la figura del Cristo povero e dolente è posta davanti al nostro sguardo già nella Seconda settimana in alcune meditazioni chiave - la chiamata del re temporale e del re eterno, le due bandiere di Cristo e di satana -. Mi preme qui sottolineare che esse sono come incastonate nel tessuto di una serie di ripetute contemplazioni sulla vita del Signore - l'incarnazione, la nascita, la vita a Nazareth, il Battesimo, la chiamata dei discepoli, i miracoli, fino alla domenica delle Palme -. La Terza settimana ci farà poi contemplare a lungo i misteri della Passione, dall'ultima cena alla cattura, al processo, alla croce.
Non è sufficiente, infatti, per seguire Gesù, assimilare i suoi insegnamenti. Occorre guardarlo nei misteri di tutta la sua esistenza, così da renderei meno duro e incomprensibile il linguaggio della croce. Bisogna lasciarsi attirare da lui, identificarsi con lui, per giungere ad avere «gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fi12, 5).
Seguendo dunque il cammino propostoci dalla 1 Pt e da Ignazio, ci fermeremo ora a guardare il Signore nella sua Passione. Per introdurci vi leggo un punto nodale della Seconda settimana, dove si parla del terzo grado di umiltà, che consiste nello scegliere la via della croce per essere come e con Gesù: «La terza umiltà è perfettissima e si ha quando, includendo la prima e la seconda e consentendolo un'uguale lode e gloria della divina maestà, desidero e scelgo, per imitare e rassomigliare più effettivamente a Cristo nostro Signore, la povertà con Cristo povero piuttosto che la ricchezza, le ingiurie con Cristo, che ne è ricolmo, piuttosto che gli onori, e preferisco di essere stimato stupido e pazzo per Cristo, che per primo fu ritenuto tale, anziché saggio e prudente in questo mondo»(n. 167).
È stato il desiderio dei santi ed è la domanda che, se vogliamo, possiamo fare nostra nel corso di questi esercizi. Sarà il cammino di tutta la vita.
Ci aiuti il Signore a entrare con tali disposizioni nella contemplazione delle ultime tremende vicende della sua esistenza.
Mi propongo di riflettere con voi sulla Passione di Gesù, così da parlargli da amico, contemplando con affetto e tenerezza ciò che ha sofferto per noi.
Segnalerò alcuni brani del vangelo secondo Marco a cui fare riferimento, perché è il più semplice. Da parte vostra, potete approfondire la meditazione anche leggendo gli altri vangeli.
Spesso si considera la Passione delle sofferenze fisiche, che certamente sono grandi. Un canto religioso natalizio molto noto in Italia, composto da sant'Alfonso Maria de' Liguori, dottore della Chiesa e fondatore della Congregazione del SS. Redentore, inizia così: «Tu scendi dalle stelle, o Re del cielo, e vieni in una grotta al freddo e al gelo. O Dio beato! Ah, quanto ti costò l'avermi amato!». Dunque si considerano soprattutto la povertà e i patimenti fisici di Gesù. E anche un recente film - The Passion offre una rappresentazione molto cruda dei dolori fisici.
Tuttavia la Passione comporta pure delle profonde sofferenze morali e umiliazioni. Gesù infatti ha messo in gioco per noi il suo onore, lo ha perduto volentieri: onore di uomo, di fedele ebreo, di suddito leale dell' autorità romana, il suo onore di Messia, di re d'Israele, di Figlio di Dio.
Tenendo presenti in particolare le umiliazioni, rileggo i testi della Passione, cominciando dalle predizioni.
- «E incominciò a insegnar loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi» (Mc 8,31).
Questa prima predizione è semplice e insieme sconvolgente. Gli anziani costituivano il potere politico, amministrativo; i sommi sacerdoti l'autorità religiosa; gli scribi il potere intellettuale, la teologia, la cultura.
Ora Gesù prevede che sarà respinto da tutte queste autorità, che perderà ogni stima da parte di coloro che sono rappresentanti ufficiali di Dio presso il popolo, persone che contano presso la gente, ritenute depositarie della verità e della giustizia. Gesù gioca dunque la sua stima per noi.
- Colpisce pure la seconda predizione: «Istruiva i suoi discepoli e diceva loro: "Il Figlio dell'uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, dopo tre giorni, risusciterà"» (9, 31). .
Non vengono più elencate le tre grandi categorie del potere. Sono gli uomini che lo prendono nelle loro mani e lo eliminano dalla faccia della terra. Gesù si sente respinto e sa che faranno di lui quello che vorranno; si è fatto uno di loro e proprio da loro è rifiutato. Non sarà più in possesso del suo corpo, della sua vita, che saranno in potere di altri.
- C'è una terza predizione: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell'uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno» (10, 33-34).
Tutte le forme di disprezzo della società religiosa e dell'autorità romana sono rovesciate su Gesù. Non solo è umiliato davanti al suo popolo, lo è anche di fronte ai goim, a coloro che Israele disprezzava.
Egli dunque ha previsto con assoluta chiarezza il suo destino è l'ha accettato per obbedienza al Padre e per amore nostro, entrando con piena consapevolezza nella Passione che lo attende.
Dei capitoli 14 e 15 di Marco sottolineo come Gesù viene provato nella sua rispettabilità e onorabilità, e non soltanto con sofferenze fisiche.
- «In verità vi dico, uno di voi colui che mangia con me, mi tradirà» (14,18). È una umiliazione durissima. È una grande vergogna il sapere di essere tradito da uno a cui hai dato fiducia, da uno degli intimi, una sofferenza morale lancinante; anche perché sembra uno scacco educativo per Gesù il fatto di non essere riuscito neppure a tirarsi dietro tutti i Dodici che gli erano più vicini, quasi avesse sbagliato a scegliere i collaboratori. È tradito e umiliato nella fiducia che aveva dato ai suoi.
- Gesù inoltre sa che non solo Giuda lo tradirà, ma che tutti i discepoli rimarranno scandalizzati e lo abbandoneranno: «E dopo aver cantato l'inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. Gesù disse loro: "Tutti rimarrete scandalizzati, poiché sta scritto: Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse"» (14, 26-27). A dire: nessuno di voi che mi siete stati vicini in questo tempo saprà restarmi accanto e prendere le mie difese, ma tutti vi vergognerete di me. È il fallimento completo della sua missione.
- Forse l'umiliazione più grave che Gesù ha subito è il rinnegamento di Pietro, di colui che sembrava il più entusiasta di tutti e prometteva di seguirlo fino alla morte: «In verità ti dico: proprio tu oggi, in questa stessa notte, prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte» (14, 30).
Proprio Pietro che Gesù ha tanto amato e su cui contava di più, al quale ha rivelato il suo segreto messianico e di figliolanza divina, lo abbandona lasciandolo in totale solitudine.
- Un' altra prova estremamente umiliante avviene nel Getsemani quando Gesù, presi con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, comincia a provare paura e angoscia: «La mia anima è triste fino alla morte» (14, 34).
Non so se ci è mai capitato di dire su di noi una parola così pesante. Bisogna arrivare al limite massimo di debolezza, di sofferenza, di prostrazione. il Signore è talmente accasciato e schiacciato dal dolore, che vive l'umiliazione di una tale tristezza.
- Molto umiliante è pure il modo usato dal traditore, l'antico amico, per consegnarlo ai suoi nemici: «Chi lo tradiva aveva dato loro questo segno: "Quello che bacerò è lui; arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta". Allora gli si accostò dicendo: "Rabbi" e lo baciò» (14, 44-45).
Gesù sperimenta la terribile umiliazione di una forma di tradimento così ripugnante, vergognosa e ipocrita: viene venduto con un gesto di amicizia.
- Fino alla cattura nel Getsemani tutte le umiliazioni avevano toccato Gesù senza togliergli la sua autonomia. Invece subito dopo l'indicazione di Giuda, 1'evangelista annota: «Essi gli misero le mani addosso e lo arrestarono» (14, 46).
È un versetto che mi ha sempre impressionato: dal momento in cui Gesù si vede messe addosso le mani degli altri, perde ogni libertà e ogni diritto alla dignità umana. Si rende conto che ormai è in balia della crudeltà, della meschinità, della vendetta degli uomini.
- Di fronte alle tante accuse che gli venivano fatte, «taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: "Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?"» (14, 61). È la domanda decisiva.
Gesù avrebbe potuto continuare a tacere, oppure rispondere in maniera vaga, e forse si sarebbe salvato. Invece risponde, per nostro amore, in maniera sincera: «lo lo sono! / E vedrete il Figlio dell’uomo / seduto alla destra della Potenza / e venire con le nubi del cielo» (v. 62).
Ha così firmato la sua condanna, dichiarando con assoluta limpidezza la propria identità, e il sommo sacerdote lo accusa di bestemmia. Certamente si sarà sentito colpito in ciò che più gli sta a cuore: la sua unità col Padre.
- Subito dopo è deriso in tutte le sue prerogative, iniziando da quella profetica: «Allora alcuni cominciarono a sputargli addosso, a coprirgli il volto, a schiaffeggiarlo e a dirgli: "Indovina". I servi intanto lo percuotevano» (v. 65).
La sua missione profetica è offesa e sbeffeggiata. Ed è appunto in tale contesto che il racconto evangelico descrive la negazione di Pietro: «Non conosco quell'uomo che voi dite» (v. 71). La sua risposta non è dettata semplicemente dalla paura, ma nasconde una qualche verità: egli sente che il suo Rabbi lo ha deluso, conducendolo a una situazione che non avrebbe mai immaginato, e per questo può dire di non conoscerlo. Dunque Pietro, che poteva essergli vicino, si ritira e lo lascia nelle mani dei nemici, dei persecutori.
- A questo punto interviene a umiliare Gesù anche la folla, che chiede la sua morte. Fino a quel momento si era inimicato i capi del popolo e tuttavia la gente era dalla sua parte, stava con lui. Ora invece si ritrae: «I sommi sacerdoti sobillarono la folla perché Pilato rilasciasse loro piuttosto Barabba. Pilato replicò: "Che farò dunque di quello che voi chiamate il re dei Giudei?". Ed essi di nuovo gridarono: "Crocifiggilo!"» (15, 11-13).
È respinto dalle persone alle quali aveva fatto appello diretto, suscitandone il consenso, l'entusiasmo e l'affetto, è umiliato come benefattore della folla.
- Così viene consegnato ai soldati per essere crocifisso. E i soldati offendono nella sua regalità proprio lui che era re d'Israele, destinato a diventare Re dell'universo. Lo rivestono di porpora, gli mettono una corona di spine, lo salutano «Salve, re dei Giudei!», gli percuotono il capo con una canna, gli sputano addosso, gli si prostrano davanti e lo scherniscono (cfr. 15, 16-20).
La sua stessa prerogativa regale, che era il suo diritto nativo, in forza del quale era venuto a salvarci, è calpestata e dileggiata.
- La massima umiliazione gli è rovesciata addosso sulla croce: «I passanti lo insultavano e, scuotendo il capo, esclamavano: "Ehi, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!". Ugualmente anche i sommi sacerdoti con gli scribi, facendosi beffa di lui, dicevano: "Ha salvato altri, non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d'Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo"? E anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano» (15, 29-31).
La folla, i sacerdoti, perfino i malfattori crocifissi con lui, lo irridono perché non è capace di scendere dalla croce.
Gesù vive il momento più drammatico della sua vita. La provocazione dei sacerdoti - gli crederemo se scenderà dalla croce - è pesantissima, tremenda. Se scende dalla croce crederanno, e però non in quel Dio che lui è venuto a rivelare, bensì in un Dio che cerca il proprio tornaconto, il proprio vantaggio; se non scende, continueranno a insultarlo, ma lui affermerà il Dio misericordioso e umile che ha sempre proclamato nella sua vita, potrà presentare il vero volto di Dio. Gesù sa bene che potrebbe con un solo gesto convertire tutti i presenti e che così verrebbe meno alla sua testimonianza del mistero del Padre. Per questo non scende dalla croce e gli resta fedele fino alla fine.
- Alle tre del pomeriggio, mentre si faceva buio su tutta la terra, «gridò con voce forte: "Eloì~ Eloì~ lema sabactàni" che significa: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?"». (v. 34).
Sono parole di Gesù enigmatiche per noi. Secondo alcuni importanti teologi contemporanei, come Hans Urs von Balthasar e altri, indicherebbero che si è sentito umanamente abbandonato dal Padre, che, pur essendo senza alcuna colpa, ha sperimentato in se stesso quella lontananza e separazione da Dio che è il peccato, ha vissuto la situazione di peccato. Ha giocato, per così dire, in qualche modo la sua figliolanza divina, come uomo, sentendosi abbandonato da quel Padre a cui aveva offerto se stesso senza riserve.
È un mistero insondabile, e possiamo solo intuire l'abisso in cui Gesù è precipitato, annichilendosi per riscattarci dal nostro male.
- Ed ecco che da questo momento inizia la glorificazione di Gesù, con le parole semplici del centurione che, «vistolo spirare in quel modo, disse: "Veramente quest'uomo era Figlio di Dio!"» (v. 39).
Proprio là dove tutto era perduto, dove aveva perso anche la dignità di Figlio, la sua gloria comincia a manifestarsi e mostra la fecondità inaudita della croce, fecondità che fermenta il mondo intero ancora oggi.
Comprendiamo allora quanto profondamente i testimoni della croce, come Pietro, hanno vissuto il trauma della Passione di Gesù e ne sono stati toccati e coinvolti. E Pietro, che ha meditato a lungo su questi eventi, è giunto a esprimere nella sua lettera il segreto della gioia nella comunione con Cristo sofferente; ha intuito gradualmente che la koinonia, cioè la partecipazione alle sofferenze di Gesù, è la vera fonte di salvezza.
Donaci, Signore, la grazia di vivere quel segreto, di coinvolgerci con gioia nelle tue umiliazioni, che hai vissuto per noi. Donaci il coraggio di giocarci nella nostra vita come ti sei giocato tu. Rimettici ogni giorno nella via della fede, nella tua via della croce. Fa’ che possiamo lasciarci invadere dall’amore per te e contemplare la tua bellezza di Crocifisso risorto.

ESORTAZIONI AI PRESBITERI
Anche per la Quarta settimana degli Esercizi sant'Ignazio raccomanda all'esercitante di continuare le meditazioni sulla vita del Signore, dalla Risurrezione all' Ascensione.
A me preme considerare quella «Contemplazione per raggiungere l'amore» che conclude l'itinerario ignaziano e fa da cerniera tra l'esperienza degli esercizi e la vita quotidiana. Anzitutto si chiede di ricordare che «l'amore si deve dimostrare più nelle opere che nelle parole» (n. 230); quindi che «l'amore consiste nella comunicazione tra le due parti, cioè nel fatto che l'amante dà e comunica all'amato quello che ha (...) e allo stesso modo fa l'amato verso l'amante» (n. 23).
E dopo l'invito a ringraziare per i benefici ricevuti da Dio (cfr. n. 234), si riflette su «ciò che da parte mia devo offrire e dare alla sua divina Maestà», pronunciando quello splendido atto di offerta che vorrei facessimo nostro:
«Prendi, Signore, e accetta tutta la mia libertà, la mia memoria, il mio intelletto e tutta la mia volontà, tutto ciò che ho e possiedo: tu me lo hai dato, a te, Signore, lo ridono, tutto è tuo, disponine a tuo pieno piacimento, dammi il tuo amore e la tua grazia, ché questa mi basta» (ivi).
È nel quadro di tale offerta che possiamo, dopo questo tempo di esercizi, ritornare nella vita di ogni giorno. È nella gioia della Pasqua che, come i due di Emmaus (cfr. Lc 24, 13-35), vogliamo testimoniare la familiarità vissuta con Gesù nell' ascolto della Parola e nella frazione del pane. E alla luce dell' amore ci impegniamo nel servizio del nostro ministero, custodendo nel cuore la speranza che, più pura e più viva, ci ha riscaldato il cuore.
Ritengo quindi importante per i nostri doveri di pastori leggere con voi l'ultima delle esortazioni della 1 Pt, l'esortazione, molto breve ma molto densa, di 5, 1-4.
«Esorto gli anziani che sono tra voi, quale anziano come loro, testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi: pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge. E quando apparirà il pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce».
Sono parole rivolte ai presbiteri, gli anziani, a tutti coloro che sono responsabili di comunità. Le rileggiamo cercando di rispondere a tre domande: chi fa l'esortazione? a che cosa esorta? che cosa promette?
Chi esorta è lo stesso Pietro che all'inizio della lettera si era definito apostolo, il suo titolo di gloria. Si mette tuttavia al livello dei presbiteri; è sympresbyteros, anziano come loro, uno di loro, come a dire: le mie parole esprimono l'esperienza che ho vissuto, un' esperienza simile alla vostra, affinché vi aiutino nel vostro servizio.
Aggiunge due qualifiche.
«Testimone delle sofferenze di Cristo», una designazione che abbiamo già menzionato. Ora però si comprende che anche l'arte di essere responsabile di comunità, il modo di presiedere è generato in Pietro da una lunga familiarità con le sofferenze di Cristo, e che sempre da qui nasce la sua esortazione.
«Partecipe della gloria che deve manifestarsi». «Partecipe» (nel greco koinonos) è un termine forte: comunicante, in comunione.
Ancora una volta Pietro appare uomo aperto alla speranza; vive infatti la responsabilità di altri, non guardando semplicemente al presente bensì tenendo viva l'attesa della manifestazione gloriosa di Cristo. Ci insegna così che ogni presbitero e ogni responsabile di comunità deve assumere come orizzonte quello eterno; in caso contrario resterà prigioniero dei problemi e delle ansie proprie della quotidianità. È un insegnamento per noi assai importante, dal momento che spesso ci lasciamo travolgere o schiacciare dalle responsabilità e non fissiamo lo sguardo sulla gloria di Dio che si rivelerà.
L'esortazione fondamentale di Pietro è: «Pascete il gregge che vi è stato affidato», e la specificherà con tre caratteristiche.
La parola chiave è «pascete», siate pastori.
È la stessa che era stata rivolta a lui dal Risorto sul lago di Tiberiade, quando, dopo la triplice interrogazione: «Mi ami tu?», Gesù gli aveva per tre volte ripetuto: «Pasci i miei agnelli. Pasci le mie pecorelle. Pasci le mie pecorelle» (cfr. Gv 21,15 ss). Pietro trasmette ai presbiteri il mandato che ha ricevuto.
Ed è pure la parola usata da Paolo nel Discorso di Mileto agli anziani di Efeso: «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue» (At 20, 28).
Notiamo che Gesù dice: «Pasci le mie pecorelle»; Paolo: «Pascete la Chiesa di Dio»; e Pietro: «Pascete il gregge di Dio che vi è affidato».
La Chiesa perciò è di Dio, il gregge è di Cristo. Risulta chiaro che lui è il vero pastore, il pastore supremo (v. 4: archipoìmen). Il gregge è suo e di nessun altro, è lui che lo possiede e lo conduce; noi siamo vicari, collaboratori, aiutanti, delegati.
È fondamentale, per conservare la pace del cuore e liberarci dall' ansietà, sapere che, pur sacrificandoci per il gregge, non ne siamo i responsabili ultimi. Siamo certamente responsabili davanti a Dio, ma ricordando che non potremo mai aver cura della nostra gente più di quanto ne abbia il Signore. È lui il padrone unico. Noi abbiamo il compito di pascere «sorvegliando» (epi-skopountes), come chi vede dall'alto e non si lascia condizionare dalle situazioni, perché vede e giudica l'insieme, senza affannarsi o preoccuparsi per i particolari, ma valutando tutto in un ambito generale più vasto.
Un grande filosofo francese che ho conosciuto personalmente, Jean Guitton, diceva di sé: «Je suis le spécialiste des ensembles». È un'affermazione paradossale, in quanto chi è specialista si cura dei particolari. Tuttavia il filosofo, e pure il Vescovo, il parroco, il responsabile di comunità deve essere uno specialista dell'insieme, per non rischiare di lasciarsi risucchiare dall'una o dall' altra faccenda.
Seguono le tre caratteristiche del pascere: «non per forza ma volentieri, secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle pecore a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge».
- «Non per forza», non dando l'impressione di portare un peso. Conosco presbiteri e anche Vescovi che vivono molto il loro ministero come fatica e quasi fanno sentire alla gente il rimprovero per il peso che devono portare. Sovente raccomandavo ai parroci: guardate che il buon umore della gente dipende dal vostro buon umore. Se voi siete tristi, affaticati e di cattivo umore, i fedeli si accorgono immediatamente e non sanno in che modo aiutarvi. Se invece sorridete, siete contenti, vi seguono volentieri. E lo stesso vale per un Vescovo.
Dunque «non per forza», ma «volentieri», come ministero bello e gioioso. Se si vive il proprio servizio con un certo gusto, volentieri, tutto va meglio e, malgrado le fatiche, le stanchezze, le delusioni, si può distribuire gioia attorno a sé.
In proposito sant'Agostino, nel De catechizandis rudibus ha un' espressione assai efficace, là dove esorta il catechista a catechizzare con gioia: gaudens catechizet. E c'è un passo della lettera agli Ebrei che recita: «Obbedite ai vostri capi e state loro sottomessi, perché essi vegliano su di voi, come chi ha da renderne conto; obbedite, perché facciano questo con gioia e non gemendo: ciò non sarebbe vantaggioso per voi» (13, 17).
Prosegue Pietro: «secondo Dio». L'espressione, molto pregnante, probabilmente va interpretata: «secondo la volontà di Dio», secondo ciò che lui vuole. Chi è responsabile deve essere sempre conscio di non compiere la propria volontà, ma quella del Signore e quindi la vive con pace, serenità, tranquillità. È il Signore che lo guida e si rende in qualche maniera responsabile delle sue azioni.
- Seconda caratteristica: «non per vile interesse». Dobbiamo essere liberi da ogni interesse, sia di beni e di denaro, come pure di prestigio.
Cito a chiarimento due passi della Scrittura.
Il primo si trova nel Discorso di Paolo a Mileto:
«Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani» (At 20, 33-34).
Ha vissuto in povertà il suo ministero, ha provveduto lui stesso a ciò che avrebbe potuto legittimamente chiedere. Di fatto fin dall' antichità era uso provvedere ai bisogni dei responsabili di comunità, al loro sostentamento. Il rischio però di passare da questo al desiderio di guadagno è forte; e 1'avarizia del responsabile che cerca di trarre vantaggio dalla propria posizione distrugge la fiducia nella gente.
Un altro esempio di disinteresse lo leggiamo nel discorso che Samuele rivolge al popolo al termine della sua missione:
«"lo ho vissuto dalla mia giovinezza fino ad oggi sotto i vostri occhi. Eccomi, pronunciatevi a mio riguardo alla presenza del Signore e del suo consacrato. A chi ho portato via il bue? A chi ha portato via 1'asino? Chi ho trattato con prepotenza? A chi ho fatto offesa? Da chi ho accettato un regalo per chiudere gli occhi a suo riguardo? Sono qui a restituire!". Risposero: "Non ci hai trattato con prepotenza, né ci hai fatto offesa, né hai preso nulla da nessuno". Egli soggiunse loro: "È testimonio il Signore contro di voi ed è testimonio oggi il suo consacrato, che non trovate niente in mano mia?" . Risposero: "Sì, è testimonio"» (1 Sam 12,2-5).
È decisiva la testimonianza di disinteresse e la gente è molto sensibile nel cogliere qualunque segnale di avarizia nel prete o nel Vescovo.
All' espressione «non per vile interesse» si contrappone l'affermazione positiva: «ma di buon animo». «Di buon animo», in greco prothymos, significa quel senso di spontaneità, per cui non si calcola a chi tocca questo o quel servizio. È la buona volontà, la dedizione gratuita con la quale si svolge il ministero per amore di Dio e per amore del gregge.
Non si nega ovviamente che si possa ricevere il giusto compenso per il proprio sostentamento, e però la gratuità è la caratteristica evangelica di fondo. Ed è appunto la proprietà del responsabile che si spende nel servizio alla gente, senza calcolare troppo gli orari e le prestazioni. È certamente giusto fissare un orario, avere una regolarità, e però c'è differenza tra il darsi un orario e il ritirarsi in casa, facendo capire alla gente che non vogliamo essere disturbati.
Sono convinto che il ministero cattolico sta o cade con la gratuità, che è la risposta alla parola di Gesù: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10, 8).
Viene alla mente la lettera di un Vescovo svizzero che fu pubblicata sulla rivista ufficiale della sua diocesi: vedo con sofferenza il crescere della professionalità e il diminuire della gratuità. Cresce la professionalità perché gli assistenti laici tengono molto alla loro professione e anche alloro stipendio; diminuisce la gratuità in quanto sono sempre meno le persone che si mettono liberamente a disposizione. E concludeva con saggezza: colgo in questo un segno preoccupante per il futuro della Chiesa.
Uno dei motivi che mi hanno deciso a promuovere nella diocesi di Milano - pure con molte cautele e precisazioni - il ministero del Diaconato permanente è il fatto che esso testimonia la gratuità del servizio in mezzo al popolo di Dio, soprattutto quando il diacono è sposato e ha famiglia.
- Anche la terza caratteristica è psicologicamente incisiva: «non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge».
Se Pietro ha scritto queste parole 2000 anni fa significa che il difetto di spadroneggiare sulle persone affidate è molto antico. La tentazione dell'autorità è quella che porta a non rispettare la dignità degli altri, a non fame dei veri collaboratori capaci di assumere una parte di responsabilità. «Ma facendovi modelli del gregge». L'autorità nella Chiesa è anzitutto l'autorità dell' esempio, come ci insegna Gesù:
«Chiamati a sé i Dodici, disse: "I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell'uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti"» (Mt 20, 24-28).
E in una circostanza simile Gesù ha detto ancora:
«Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22, 27).
È questo l'ideale per un presbitero, per un Vescovo, per un responsabile di comunità: dare l'esempio, fare per primi ciò che chiediamo agli altri; insegnare, comandare col nostro modo di vivere. Allora le nostre parole saranno credibili.
Ritengo utile sottolineare che esiste un pericolo contrario allo spadroneggiare; è il caso del prete, del responsabile che non comanda affatto, facendosi anzi guidare dalla gente.
Eppure l'esperienza dimostra che la gente ha bisogno di una guida, non autoritaria, non imperiosa, non autocratica. Ha molto bisogno di riferirsi e anche di obbedire a persone che fanno crescere e danno fiducia di volere il vero bene, in modo da essere accompagnata soprattutto nelle scelte decisive della vita. E allora si fa disponibile ad ascoltare più di quanto non si pensi, pur se dobbiamo riconoscere che l'obbedienza è oggi qualcosa di estremamente difficile.
Le caratteristiche del pascere hanno uno sbocco, un orizzonte di premio, altrimenti sarebbero un puro dover essere. Così Pietro conclude: «Quando apparirà il pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce».
Guarda dunque alla parusia, all'apparire del pastore supremo, colui che è il responsabile di tutti; e quando apparirà riceveremo «la corona della gloria che non appassisce», cioè l'eredità di cui l'apostolo ha parlato fin dal primo capitolo della lettera: un' eredità che «non si corrompe, non si macchia e non marcisce.., conservata nei cieli per voi» (l, 4).
L'orizzonte del presbitero, del responsabile non è necessariamente la gratificazione umana, che può esserci o meno. È la gratificazione che viene da Dio, il solo giudice del cuore umano, che sa se abbiamo lavorato davvero di buon animo, non per vile interesse, con spirito di servizio, con spirito di umiltà. Non sono gli uomini che danno il giudizio su di noi, pur se spesso ci giudicano e ci criticano.
Al termine dei nostri esercizi, siamo invitati a pregare molto per noi e per tutti i responsabili, affinché compiano il loro dovere con gioia e non gemendo, ricordandosi di questa massima: quanto più grande è la responsabilità, tanto più abbiamo bisogno di silenzio contemplativo. Non si può vivere una responsabilità senza compensare l'attivismo pur necessario con lunghi tempi di silenzio, onde evitare di essere mangiati dalle urgenze. Nei tempi lunghi di silenzio e di preghiera il cuore ha la possibilità di riorientarsi, la nostra psicologia si riorganizza e riaffrontiamo con gioia e buona volontà le asprezze della vita quotidiana.
Signore, infondi in noi lo spirito di preghiera! Noi non sappiamo pregare, non sappiamo che cosa chiedere né come passare utilmente il tempo dell’ orazione.
Insegnaci a pregare e prega tu in noi. Suggeriscici le parole, i pensieri, gli affetti dovuti alla maestà di Dio, perché possiamo vivere bene il momento della preghiera e diventare maestri di orazione per altri.
Ti ringraziamo perché, malgrado la nostra indegnità, ci hai voluto tuoi collaboratori, partecipi del tuo ministero di pastore. Illumina la nostra mente, così che conosciamo momento per momento la tua volontà. Donaci la grazia di compiere con gioia il nostro servizio, perché possiamo un giorno contemplarti in pienezza e conseguire il premio da te promesso ai servi fedeli. Amen.

Terminiamo gli esercizi celebrando insieme l'ultima Eucaristia.
Nelle nostre riflessioni non abbiamo parlato in modo specifico del mistero eucaristico, quel mistero che è sorgente della Chiesa e la forma, la nutre, la fa crescere. Tuttavia sappiamo che quanto siamo venuti dicendo trovava compimento giorno dopo giorno nell'Eucaristia e nella sua forza trasformante. Essa è una sintesi della Trinità e del mondo, è il luogo di convergenza tra il cielo e la terra.
Noi oggi viviamo questa Messa adorando ancora una volta la presenza del Signore crocifisso e risorto, nel desiderio di configurarci a lui, in una vita totalmente donata e dedicata ai fratelli.
In chiave eucaristica mi piace anche accennare brevemente ai testi della liturgia odierna.
È infatti unendo ci a Gesù nell'Eucaristia che possiamo leggere pure le nostre sconfitte - ce le richiama la lettura del primo libro di Samuele (4, 4-11) come una tappa verso la vittoria della fede. Ed è ancora nell'Eucaristia che Gesù ci «tocca», come ha fatto col lebbroso del vangelo secondo Marco (1, 40-45), e ci libera da ogni male, da ogni malattia e debolezza.
Senza però attardarmi sui due brani, benché importanti ed evocativi, preferisco affidarvi tre ricordi tratti dalla nostra riflessione sulla 1 Pt.
«Vi ho scritto, come io ritengo, brevemente per mezzo di Silvano, fratello fedele, per esortarvi e attestarvi che questa è la vera grazia di Dio» (5, 12).
Sono praticamente le parole conclusive della lettera e ne costituiscono in certo senso il compendio.
È l'invito a ricordare che le situazioni in cui il Signore ci pone, le prove che abbiamo affrontato e ancora affronteremo, le prospettive che ci stanno davanti, sono pura grazia di Dio. Essa è dunque qui, non lontana da noi, e non dobbiamo cercarla chissà dove. È grazia perché è gratuita; è grazia in quanto aspetta gratitudine.
Esprimiamo dunque la nostra riconoscenza dal momento che ciascuno durante gli esercizi ha avuto modo di cogliere la gratuita manifestazione d'amore della Trinità, la volontà del Signore su di sé. E impegniamoci a fare della riconoscenza il tessuto dei giorni che la grazia divina vorrà donarci.
Il secondo ricordo che vi consegno è a proposito di un tema che abbiamo meditato a lungo, ma su cui non si insiste mai a sufficienza.
Ritorniamo ai versetti dove Pietro sottolinea che siamo stati rigenerati «non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna». E aggiunge citando Isaia: «Poiché / tutti i mortali sono come l'erba / e ogni loro splendore è come fiore d’ erba. / L’ erba inaridisce, i fiori cadono, ma la parola del Signore rimane in eterno» (1, 23-24).
Noi siamo rimasti stupiti scoprendo come la parola di Dio è sempre sorprendente, sempre nuova e sempre ci spalanca nuovi orizzonti. Siamo rimasti consolati, pensando che ci può riaprire il cuore e ridonare speranza ogni volta che, sentendoci stanchi, turbati, depressi, scettici, afflitti, desolati, aridi, ci accostiamo a essa con fede.
Possa questa fede nella forza rigeneratrice della Parola esserci guida nel cammino che ci attende.
Vi lascio un terzo ricordo, ispirato ad alcune parole della 1 Pt, forse le più belle che leggiamo nel Nuovo Testamento sull' amore personale per Gesù: «Questo Gesù voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui» (1, 8).
Gesù, che è il centro della nostra vita, va amato con un amore appassionato, incomparabile rispetto a tutte le altre amicizie umane, con una tenerezza che ci riempie il cuore e sostiene il nostro sacrificio e il nostro apostolato.
E la relazione con Gesù fa esultare «di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la mèta della vostra fede, cioè la salvezza delle vostre anime» (vv. 8-9): è l'innamorarsi del Signore che ci apre gli orizzonti della salvezza e pone in noi la larghezza di cuore e di mente necessaria per poter vivere con spirito di sacrificio anche in situazioni sociali e politiche pesanti. Un innamorarsi - ricordiamolo sempre - che non è frutto di ragione, bensì nasce dalla grazia di Dio e dalla contemplazione amorosa di quanto Cristo ha fatto per noi.
Preghiamo la Madonna affinché ci ottenga di vivere questa Eucaristia come il segno efficace del rendimento di grazie per ciò che abbiamo ricevuto negli esercizi, e chiediamo che i doni di cui siamo stati colmati diventino fecondi per il bene di molti.