lunedì 31 dicembre 2012

MARIA SS. MADRE DI DIO


Cristo nasce dal seno della Vergine intemerata 
per opera di quello Spirito che fa 
nascere dall’utero della Santa Chiesa il 
cristiano, la cui vera pace consiste nel 
non separarsi dalla volontà di Dio.
S. Leone Magno, Sermone 29, I, 1

   
Oggi 1 GENNAIO 2013 celebriamo
MARIA SS. MADRE DI DIO 
Solennità



Il Verbo ha assunto da Maria la natura umana
Dalle «Lettere» di sant'Atanasio, vescovo (Ad Epitetto 5-9; PG 26,1058. 1062-1066)
Il Verbo di Dio, come dice l'Apostolo, «della stirpe di Abramo si prende cura. Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli» (Eb 2, 16. 17) e prendere un corpo simile al nostro. Per questo Maria ebbe la sua esistenza nel mondo, perché da lei Cristo prendesse questo corpo e lo offrisse, in quanto suo, per noi.
Perciò la Scrittura quando parla della nascita del Cristo dice: «Lo avvolse in fasce» (Lc 2, 7). Per questo fu detto beato il seno da cui prese il latte. Quando la madre diede alla luce il Salvatore, egli fu offerto in sacrificio.
Gabriele aveva dato l'annunzio a Maria con cautela e delicatezza. Però non le disse semplicemente colui che nascerà in te, perché non si pensasse a un corpo estraneo a lei, ma; da te (cfr. Lc 1, 35), perché si sapesse che colui che ella dava al mondo aveva origine proprio da lei.
Il Verbo, assunto in sé ciò che era nostro, lo offrì in sacrificio e lo distrusse con la morte. Poi rivestì noi della sua condizione, secondo quanto dice l'Apostolo: Bisogna che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e che questo corpo mortale si vesta di immortalità (cfr. 1 Cor 15, 53).
Tuttavia ciò non è certo un mito, come alcuni vanno dicendo. Lungi da noi un tale pensiero. Il nostro Salvatore fu veramente uomo e da ciò venne la salvezza di tutta l'umanità. In nessuna maniera la nostra salvezza si può dire fittizia. Egli salvò tutto l'uomo, corpo e anima. La salvezza si è realizzata nello stesso Verbo.
Veramente umana era la natura che nacque da Maria, secondo le Scritture, e reale, cioè umano, era il corpo del Signore; vero, perché del tutto
identico al nostro; infatti Maria è nostra è sorella poiché tutti abbiamo origine in Adamo.
Ciò che leggiamo in Giovanni «il Verbo si fece carne» (Gv 1, 14), ha dunque questo significato, poiché si interpreta come altre parole simili.
Sta scritto infatti in Paolo: Cristo per noi divenne lui stesso maledizione (cfr. Gal 3, 13). L'uomo in questa intima unione del Verbo ricevette una ricchezza enorme: dalla condizione di mortalità divenne immortale; mentre era legato alla vita fisica, divenne partecipe dello Spirito; anche se fatto di terra, è entrato nel regno del cielo.
Benché il Verbo abbia preso un corpo mortale da Maria, la Trinità è rimasta in se stessa qual era, senza sorta di aggiunte o sottrazioni. E' rimasta
assoluta perfezione: Trinità e unica divinità. E così nella Chiesa si proclama un solo Dio nel Padre e nel Verbo.
 
MESSALE
Antifona d'Ingresso  Sedulio
Salve, Madre santa:
tu hai dato alla luce il Re
che governa il cielo e la terra
per i secoli in eterno.


Oppure:   Cf Is 9,2.6; Lc 1,33
Oggi su di noi splenderà la luce, perché è nato per noi il Signore; Dio onnipotente sarà il suo nome, Principe della Pace, Padre dell'eternità: il suo regno non avrà fine.


Colletta

O Dio, che nella verginità feconda di Maria hai donato agli uomini i beni della salvezza eterna, f
a' che sperimentiamo la sua intercessione, poiché per mezzo di lei abbiamo ricevuto l'autore della vita, Cristo tuo Figlio. Egli è Dio e vive e regna con te, nell'unità dello Spirito Santo...

Oppure:

Padre buono, che in Maria, vergine e madre, benedetta fra tutte le donne, hai stabilito la dimora del tuo Verbo fatto uomo tra noi, donaci il tuo Spirito, perché tutta la nostra vita nel segno della tua benedizione si renda disponibile ad accogliere il tuo dono. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio ...


LITURGIA DELLA PAROLA


Prima Lettura  
Nm 6,22-27  
Essi invocheranno il mio Nome, e io li benedirò.
 
Dal libro dei Numeri
  
Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete gli Israeliti: direte loro:
Ti benedica il Signore
e ti custodisca.
Il Signore faccia risplendere per te il suo volto
e ti faccia grazia.
Il Signore rivolga a te il suo volto
e ti conceda pace”.
Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò».


Salmo Responsoriale
  Dal Salmo 66
Dio abbia pietà di noi e ci benedica.
Dio abbia pietà di noi e ci benedica,
su di noi faccia splendere il suo volto;
perché si conosca sulla terra la tua via,
la tua salvezza fra tutte le genti.

Gioiscano le nazioni e si rallegrino,
perché tu giudichi i popoli con rettitudine,
governi le nazioni sulla terra.

Ti lodino i popoli, o Dio,
ti lodino i popoli tutti.
Ci benedica Dio e lo temano
tutti i confini della terra.

Seconda Lettura   Gal 4,4-7
Dio mandò il suo Figlio, nato da donna.
 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati
Fratelli, quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli.
E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: Abbà! Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio.


Canto al Vangelo
    Cf Eb 1,1-2
Alleluia, alleluia.

Molte volte e in diversi modi nei tempi antichi
Dio ha parlato ai padri per mezzo dei profeti;
ultimamente, in questi giorni,
ha parlato a noi per mezzo del Figlio.

Alleluia.

  
  
Vangelo
  Lc 2,16-21
I pastori trovarono Maria e Giuseppe e il bambino. Dopo otto giorni gli fu messo nome Gesù.
 

Dal vangelo secondo Luca

In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro.
Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.
I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.
Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo. Parola del Signore.

COMMENTI



CONGREGAZIONE PER IL CLERO

La Chiesa, nella sua grande sapienza, a pochi giorni dalla Solennità del Natale, dalla memoria viva del Verbo che si fa carne e viene ad abitare in mezzo a noi, ci invita a guardare alla Madre del Creatore, alla Madre delle madri, alla Vergine Maria.
Sin dai primi secoli, la Madonna è stata venerata dai suoi figli con questo titolo, confermato definitivamente dalla Chiesa nel Concilio Ecumenico di Efeso del 431. Tale titolo è conseguenza immediata del grande Mistero dell’Incarnazione, che vede il Logos eterno abbracciare la natura umana con una “stretta” tanto forte, da scegliere di farsi uomo – ci dice san Paolo –, nascendo «da donna», come ogni essere umano. Contemplando, perciò, il Bambino di Betlemme, non possiamo non ammirare la bellezza della Madre e non possiamo che ringraziare il coraggio di Maria, che ha acconsentito al meraviglioso disegno di Dio, diventandone, così, parte fondamentale.
In tale progetto, assistiamo, inoltre, ad una singolare priorità “cronologica” di Maria. Nel passo del Vangelo di Luca, infatti, ci viene descritto l’incontro dei pastori con Gesù e, stando a quanto è riportato dall’Evangelista, prima del Bambino, essi «trovarono Maria»: prima di riconoscere nel Bambino il segno preannunciato dagli angeli, i pastori guardarono alla bellezza della donna che lo aveva generato e, solo in seguito, adorarono il Santissimo Corpo del Salvatore infante.
La stessa priorità cronologica viene riconosciuta a Maria da san Paolo, il quale, nella Lettera ai Galati, descrivendo il Mistero dell’Incarnazione, afferma che il Figlio di Dio è «nato da donna» e, solo dopo, aggiunge: «nato sotto la Legge». Questa priorità “cronologica” della Madre è lo stesso criterio che anima la vita della Chiesa, la quale ha scelto, infatti, di affidare l’umanità intera, mentre inizia un nuovo anno, all’intercessione, alla guida e alla maternità di Maria di Nazaret, indicando così a tutti la “via maestra” per incontrare Cristo.
Non si può, infatti, arrivare a Gesù se non passando per Maria, Madre di Dio e Madre nostra! Non si può tentare di comprendere il Mistero dell’Incarnazione, se non si guarda alla reale somiglianza umana che il Figlio ha con la Madre! Non si può essere veramente cristiani se non si è autenticamente mariani!
Quale meraviglia la maternità di Maria! Afferma Sant’Atanasio: «Per questo Maria ebbe la sua esistenza nel mondo, perché da Lei Cristo prendesse questo corpo e lo offrisse, in quanto suo, per noi». Gesù prende da lei le fattezze fisiche, si nutre dal suo seno benedetto, si lascia coccolare dalla sua tenerezza materna e viene educato dalla sapiente Mamma. Amando l’umanità immacolata di sua Madre, amando quell’umanità concepita senza peccato originale, Cristo ama ancor più la nostra umanità e ne desidera la totale salvezza. Egli, infatti, guardando la Vergine Madre, ha sempre sotto gli occhi il primigenio progetto di Dio, antecedente la corruzione del peccato originale, quel progetto che, dopo averci creati e fatti liberi, ci ha voluti figli.
Proprio facendoci suoi fratelli e, perciò, figli di Dio, Cristo ci offre la possibilità di contare su di una Madre potente, che ben lo conosce, avendolo custodito nel Suo grembo verginale e seguito tutta la vita, e ben conosce anche noi uomini, perché essa stessa totalmente creatura di Dio.
Guardiamo, dunque, a Maria, a colei che, «da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore». Guardiamo a colei, che, per prima, ha contemplato quell’eterno Mistero, che, tramite il suo “sì” e la sua maternità, entrava nella storia. Guardiamo il grembo di Maria, che ha custodito in sé per nove mesi il Santissimo Corpo di Gesù, a quel grembo che è l’arca della nuova ed eterna Alleanza, la Porta del Cielo, attraverso la quale Dio è entrato nel mondo, divenendo l’Emmanuele, il Dio-con-noi. Guardiamo, ancora, agli occhi della Vergine, perché nessuno più di lei, avendo vissuto una tale ed irripetibile intimità con il Figlio, in quanto “ancorata” biologicamente, oltre che spiritualmente, a Lui, può insegnarci a riconoscere, a conoscere, ad adorare e ad amare Cristo Gesù.
Domandiamo, quindi, a lei il sostegno e l’intercessione, per iniziare sotto il suo manto materno questo nuovo anno e, così, come i pastori, trovare Gesù, Figlio di Dio, figlio di Maria.


CANTALAMESSA 


Il Concilio ci ha insegnato a guardare a Maria come alla "figura" della Chiesa, cioè suo esemplare perfetto e sua primizia. Ma può, Maria, essere modello alla Chiesa anche nel suo titolo di "Madre di Dio" con cui viene onorata oggi? Possiamo noi diventare madri di Cristo?
Non solo ciò è possibile, ma alcuni Padri della Chiesa sono arrivati a dire che, senza questa imitazione, il titolo di Maria sarebbe inutile per me. «Che giova a me», dicevano, «che Cristo sia nato una volta da Maria a Betlemme, se non nasce anche per fede nella mia anima?». Gesù stesso iniziò questa applicazione alla Chiesa del titolo di "Madre di Cristo ", quando dichiarò: «Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,21). La liturgia odierna ci presenta Maria come la prima di coloro che diventano madri di Cristo mediante l’ascolto attento della sua Parola. Ha scelto infatti, per questa festa, il brano evangelico dove è scritto che «Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore».
Come si diventa, in concreto, madre di Cristo ce lo spiega Gesù stesso: ascoltando la Parola e mettendola in pratica. Vi sono due maternità incomplete o due tipi di interruzione di maternità. Una è quella, antica e nota, dell’aborto. Essa ha luogo quando si concepisce una vita ma non si partorisce, perché, nel frattempo, o per cause naturali o per il peccato degli uomini, il feto è morto. Fino a poco fa, questo era l’unico caso che si conosceva di maternità incompleta. Oggi se ne conosce un altro che consiste, all’opposto, nel partorire un figlio senza averlo concepito. Così avviene nel caso di figli concepiti in provetta e immessi, in un secondo momento, nel seno di una donna, e nel caso desolante e squallido dell’utero dato in prestito per ospitare, magari a pagamento, vite umane concepite altrove. In questo caso, quello che la donna partorisce non viene da lei, non è concepito "prima nel cuore che nel corpo".
Purtroppo, anche sul piano spirituale ci sono queste due tristi possibilità. Concepisce Gesù senza partorirlo chi accoglie la Parola senza metterla in pratica, chi continua a fare un aborto spirituale dietro l’altro, formulando propositi di conversione che vengono poi sistematicamente dimenticati e abbandonati a metà strada; chi si comporta verso la Parola come l’osservatore frettoloso che guarda il suo volto nello specchio e poi se ne va dimenticando subito com’era (cfr. Gc 1,23-24). Insomma, chi ha la fede, ma non ha le opere.
Partorisce, al contrario, Cristo senza averlo concepito chi fa tante opere, magari anche buone, ma che non vengono dal cuore, da amore per Dio e da retta intenzione, ma piuttosto dall’abitudine, dall’ipocrisia, dalla ricerca della propria gloria e del proprio interesse, o semplicemente dalla soddisfazione che dà il fare, l’agire. Insomma, chi ha le opere, ma non ha la fede.
Questi i casi negativi, di una maternità incompleta. San Francesco d’Assisi ci descrive il caso positivo di una vera e completa maternità che ci fa somigliare a Maria: «Siamo madri di Cristo quando lo portiamo nel cuore e nel corpo nostro per mezzo del divino amore e della pura e sincera coscienza; lo generiamo attraverso le opere sante, che devono risplendere agli altri in esempio!». Noi, dice il santo, concepiamo Cristo quando lo amiamo in sincerità di cuore e con rettitudine di coscienza, e lo diamo alla luce quando compiamo opere sante che lo manifestano al mondo. 
   


Bianchi

È il primo giorno del nuovo anno e il vangelo ci conduce ancora una volta alla stalla di Betlemme, dove è deposto Gesù appena nato: i pastori, dopo aver contemplato la scena umanissima di quel bambino avvolto in fasce, subito diventano testimoni e «cominciano a glorificare e a lodare Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro». Ma la nostra attenzione oggi va in particolare all’ultimo versetto del brano evangelico: «Quando si compirono gli otto giorni prescritti per la circoncisione, al bambino fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima di essere concepito nel grembo della madre». È meditando su queste parole che possiamo approfondire la nostra contemplazione del mistero del Natale, il mistero dell’umanizzazione di Dio attraverso la venuta di Gesù nella carne in mezzo a noi.
Otto giorni dopo la sua nascita, Gesù vienecirconciso, con il gesto che lo rende appartenente al popolo dell’«alleanza santa» stipulata con Abramo (cf. Gen 17,10-11). Nella carne di Gesù quella ferita incancellabile indica il suo essere figlio di Abramo, in alleanza perenne con il suo Dio: potremmo dire che quel segno inciso nel corpo di Gesù narra il suo essere ebreo, ed ebreo per sempre. Luca ricorda questo evento per mostrare che la promessa fatta ai padri ora si è compiuta (cf. Lc 1,72-73); d’altra parte questo segno verrà trasceso dalla Nuova Alleanza, per la quale è necessaria la circoncisione del cuore, esigenza già predicata dai profeti (cf. Ger 4,4) e poi portata definitivamente a compimento da Gesù lungo tutta la sua vita (cf. Col 2,11)…
  
Insieme alla circoncisione, Gesù riceve anche il nome, che si rivela conforme all’annuncio dell’angelo (cf. Lc 1,31). Giuseppe e Maria lo chiamano, appunto, Gesù, Jeshu‘a, che significa “il Signore salva” e, quindi, Salvatore: questo nome – strettamente connesso all’impronunciabile Nome di Dio, JHWH – è dato da Dio stesso, non dagli uomini! Gesù è infatti un bambino che nasce per decisione e azione di Dio, e, di conseguenza, a Dio solo spetta di imporgli il nome che ne indica l’identità: invocazione di salvezza – «Salva, Signore!» – e, nello stesso tempo azione di salvezza – «il Signore salva», qui e ora. È nella forza di questo nome che Gesù vivrà tutta la sua vita a servizio degli uomini suoi fratelli, il suo «passare in mezzo a loro facendo il bene e guarendo, perché Dio era con lui» (cf. At 10,38); è questo il Nome santo in cui gli uomini saranno salvati (cf. At 2,21; 4,12), il Nome attraverso il quale saranno operati segni, il Nome grazie al quale il regno di Dio si estenderà e Satana sarà costretto ad arretrare (cf. Lc 10,17; At 3,6).
«Nato sotto la Legge», Gesù è però anche «nato da donna» (cf. Gal 4,4), e quella donna è Maria, la vergine di Nazaret scelta da Dio. È per opera dello Spirito santo che Maria è diventata gravida, è per volontà di Dio che ha partorito quel Figlio che solo Dio poteva donare all’umanità. L’Altissimo si è fatto bassissimo, l’infinito si è fatto finito, l’immortale si è fatto mortale, e questo nel grembo di Maria. Sì, lo Spirito ha assunto la capacità di Maria di essere madre e ha trasformato la sua maternità in maternità divina: il frutto benedetto del ventre di questa donna è Gesù, la benedizione promessa ad Abramo e ora fatta carne, affinché tutte le genti siano benedette (cf. Gen 12,3). In Maria, «la terra ha dato il suo frutto e ci ha benedetto Dio, il nostro Dio» (Sal 67,7): quella benedizione più volte invocata da Israele – «il Signore mostri il suo volto e conceda la pace» (cf. Nm 6,26) – è ormai finalmente compiuta in Gesù, appartenente a Israele, figlio di Maria!
Ascoltando questa pagina del vangelo all’inizio dell’anno, possiamo cogliere un messaggio fondamentale e di grande consolazione: la benedizione di Dio sull’umanità – cioè Gesù, nato da Maria simbolo dell’umanità intera – è su di noi ogni giorno, fino alla fine della storia (cf. Mt 28,20), fino alla Venuta del Signore Gesù nella gloria. E il modo più semplice che abbiamo per rendere grazie a Dio di questo dono meraviglioso consiste nel fare di ogni giorno della nostra vita una benedizione per tutti gli uomini, nostri fratelli.

Manicardi

Gesù, “nato da donna, nato sotto la Legge” (II lettura), circonciso l’ottavo giorno e chiamato con il nome “Gesù” (vangelo), è il compimento della benedizione di Dio all’umanità (I lettura), è la benedizione fatta persona. La pienezza della benedizione si manifesta nel frutto benedetto del seno di Maria, colei che è la benedetta tra tutte le donne. La protezione, la grazia e la pace in cui consiste la benedizione (I lettura) trovano il volto e ilnome di Gesù di Nazaret. Nome che indica la volontà di salvezza di Dio: “Il Signore salva”. Lo sciogliersi dei lineamenti del volto nel sorriso pieno di benevolenza (questo il senso dell’espressione “far brillare il proprio volto su qualcuno”: cf. Nm 6,25) si manifesta nel volto di Gesù Cristo su cui rifulge la gloria di Dio. Gesù è il sorriso di Dio all’umanità.
Se oggi questa festa celebra la divina maternità di Maria e l’imposizione del Nome santo al suo figlio, essa è anche memoria della circoncisione di Gesù (e così era nella chiesa cattolica fino al 1970). Memoria importante non solo perché ricorda la perenne ebraicità di Gesù, ma per la valenza spirituale della circoncisione stessa. La circoncisione incide il segno dell’appartenenza al popolo d’Israele e dell’ingresso nell’alleanza nello spazio corporeo, nella carne dell’uomo, anzi proprio nella carne del membro.
Così lo strumento della generazione, grazie a cui l’uomo obbedisce al comando creazionale di riprodursi e di trasmettere la benedizione (cf. Gen 1,28), proprio l’organo dell’incontro sessuale con la donna,viene segnato da una ferita, che è anche un’apertura e un’appartenenza. Apertura perché con la circoncisione l’uomo si pone in ascolto della donna ponendo un limite alla sua “onnipotenza virile” e accetta di vivere la sessualità come incontra faccia a faccia; appartenenza perché la circoncisione rende il corpo umano una superficie scritta, una sorta di libro su cui è incisa l’irrevocabile decisione divina di legarsi in alleanza con i figli d’Israele. Il passaggio di Dio e del suo Spirito nell’uomo lascia come traccia una ferita. La circoncisione è una ferita, uno spogliamento che rivela una mancanza più profonda e vitale che è connessa costitutivamente alla nostra umanità e che è la condizione dell’incontro con l’altro e dell’accesso di Dio nella nostra vita. Per questo la Bibbia simbolizza la circoncisione e la estende a tutto l’uomo parlando di circoncisione degli orecchi e del cuore (cf. Ger 4,4). La nostra carenza, la nostra mancanza è il luogo dell’incontro e della relazione.

Del resto, se il cristianesimo non ha assunto la circoncisione, ma ha fatto del battesimo il segno dell’iniziazione alla vita cristiana e dell’appartenenza alla comunità cristiana (e il luogo in cui il nome del nuovo nato viene pronunciato davanti a Dio e alla comunità cristiana), questo può essere chiamato dal Nuovo Testamento comecirconcisione di Cristo: “In Cristo voi siete stati circoncisi, di una circoncisione però non fatta da mano di uomo, mediante la spogliazione del vostro corpo di carne, ma della vera circoncisione di Cristo. Con lui infatti siete stati sepolti insieme nel battesimo…” (Col 2,11-12).
Esperienza originaria di Gesù, come di ogni umano, è quella di essere preceduto. Il nome “Gesù” era il nome con cui era stato chiamato dall’angelo “prima di essere concepito nel ventre materno” (Lc 2,21). Preceduto da genitori, preceduto dalla storia di un popolo, preceduto da Dio. L’accoglienza amorosa che i genitori faranno del figlio, così come l’accoglienza che gli predisporrà il popolo con le sue istituzioni religiose e i suoi riti, i suoi gesti e le sue parole, sarà essenziale al nuovo venuto per giungere all’accoglienza della propria storia di precedenza. L’accoglienza è la condizione per pacificarsi con la propria origine e con la storia che ci ha preceduti. L’accoglienza che conosciamo nel nostro venire al mondo e nel nostro vivere è fondamentale perché noi, a nostra volta, possiamo accoglierci nella storia di precedenza che ci ha segnati. E che, quale che essa sia, risale in ultima istanza a Dio Padre.


COMMENTO PATRISTICO 

S. MASSIMO DI TORINO 
 (Dal Sermone 61b, 2-3) 
Nasce dunque Cristo, salvezza per tutti, che i profeti dichiarano re delle genti; nasce da una
vergine, come afferma Isaia con queste parole: Ecco, una vergine concepirà nel grembo e
partorirà un figlio, e lo chiameranno col nome di Emanuele, che significa Dio con noi (Is
7, 14). Il modo in cui nacque dimostra la verità del Signore: concepì una vergine ignara di
rapporti con l’uomo, il grembo si riempie senza essere stato sfiorato da amplesso di sorta e
il ventre casto accoglie lo Spirito Santo che le pure membra custodirono e il corpo senza
macchia portò con sé. Vedete il prodigio  della Madre del Signore: è vergine quando
concepisce, vergine quando partorisce, vergine dopo il parto. Gloriosa verginità ed eccelsa
fecondità! Nasce la potenza del mondo, e la partoriente non geme; si svuota l’utero, è
raccolto il bimbo, e tuttavia la verginità non è violata. Era giusto, infatti, che per la nascita
di un Dio crescesse il pregio della castità e non ne fosse violata l’integrità dalla nascita di
Colui che dà la verginità del battesimo ai corrotti. Il bimbo nato è posto in una mangiatoia,


e  questa  è  la  prima  culla  di  Dio;  né  si  offende per queste ristrettezze il Re del cielo, che
aveva abitato un ventre verginale. Maria fu certamente un’abitazione degna per Cristo, non
per la condizione del corpo, ma per la grazia verginale. Dunque, sgravata del felice peso,
Maria lieta si riconosce madre, mentre non si sa moglie; ed è gloriosa della prole, mentre è
ignara del marito; e si meraviglia di aver generato un bimbo, quando attesta di aver accolto
lo Spirito Santo; e non è atterrita di aver partorito prima delle nozze, perché ha la
testimonianza della verginità e della prole. La prole, infatti, indica Dio come padre, la
verginità scusa il sospetto di chi si stupiva: da un lato la Divinità rende testimonianza alla
verginità, dall’altro il segreto alla natura. La Divinità, ripeto, rende testimonianza al parto
verginale; infatti, affinché Cristo sia concepito, Maria, secondo il preannuncio del Vangelo,
è riempita della grazia dello Spirito Santo, è adombrata dalla potenza di Dio Padre, come le
fu detto: Lo  Spirito  Santo  scenderà  su  di  te  e  la potenza dell’Altissimo ti adombrerà, e
perciò ciò che nascerà da te sarà chiamato santo, Figlio di Dio.
Nella nascita del Salvatore, dunque, si è compiuta quella disposizione divina che dice: Ogni
affermazione si fonderà su due o tre testimoni (Dt 19, 15). Ecco infatti il Verbo di Dio
nasce secondo la testimonianza della Trinità. Certamente nel grembo della santa Maria,
quando scende lo Spirito Santo, quando l’Altissimo stende la sua ombra, quando Cristo è
generato, è contenuta la professione di fede. Era conveniente, infatti, che la Madre, che
avrebbe partorito la salvezza per le genti, prima confermasse nelle sue viscere il mistero
della Trinità, e noi comprendiamo che il mistero della fede era stato confermato prima
della nascita del Salvatore. Maria, per così  dire, nel sacrario del suo ventre portò col
mistero il sacerdote. Infatti tutto ciò che doveva giovare al mondo uscì interamente dal suo
ventre, Dio, il sacerdote e la vittima: il Dio della risurrezione, il sacerdote dell’offerta, la
vittima della passione. E tutto questo riconosciamo in Cristo. È Dio, infatti, perché ritornò
al Padre, pontefice perché offrì se stesso, vittima perché fu ucciso  per noi. Direi che il
grembo di Maria non fu un grembo, ma un tempio. È certo un tempio quello in cui abita
tutto ciò che di santo si trova in cielo, se non che deve essere ritenuto superiore ai cieli ...
Superiore ai cieli certamente deve essere ritenuto il grembo di Maria, perché rinviò al cielo
il Figlio di Dio più glorioso di quanto fosse quando discese dal cielo. Dal cielo, infatti,
venne per patire, dalla terra tornò per regnare; dal cielo discese umiliato nell’uomo, dalla
terra salì glorificato al Padre. Senza dubbio è migliore il tempio del corpo che quello del
cielo. Infatti in questo assiso Cristo è terribile, in quello è mansueto; in questo è invisibile,
in quello è visibile e palpabile; in questo punisce i peccati, in quello li perdona; in questo
esercita il potere di giudice, in quello esorta con l’amore di un fratello. E perciò è bene per
noi adorarlo quando ci invita, perché possiamo non temerlo quando ci giudica.

Intervista a Kiko Argüello: "Annunciare il Kerigma salva l'uomo" (Esp.)



Pubblicato in data 30/dic/2012
Entrevista a Kiko Argüello, Iniciador del camino Neocatecumenal ( ha predicado en los cinco continentes), con motivo de su estancia en Madrid para el Día de las Familias.

Femminicidio e familicidio

Hopper? x testo

Di Tommaso Scandroglio.
Tiene banco sui media il tema della violenza sulle donne: una donna viene uccisa ogni tre giorni dal proprio marito o ex marito, fidanzato o ex fidanzato, o dall’ammiratore rifiutato. Da più parti viene avanzata la proposta di istituire un reato ad hoc: quello di femminicidio. L’intento è sicuramente lodevole, vale a dire prestare particolare tutela alle donne, ma forse gli strumenti giuridici per assicurare questa tutela esistono già nel nostro ordinamento e ci pare siano più efficaci rispetto alla creazione di un nuovo reato specifico di omicidio. 

Se fosse introdotta questa figura di illecito non ci stracceremmo certo le vesti: sempre meglio uno strumento in più per difendere le donne che uno in meno. Solo che, l’omicidio di una donna per mano di un uomo che non accetta di essere rifiutato può essere già ora disciplinato con efficacia da alcune norme del Codice Penale. 

Ci riferiamo in specie allo strumento delle aggravanti. Sia quelle comuni previste dall’art. 61 cp: in particolare il n. 4 di questo articolo che fa riferimento alla crudeltà del delitto e il n. 11 che fa riferimento all’aver commesso il fatto nell’ambito di relazioni domestiche. Sia quelle specifiche: l’art. 576 cp indica alcune aggravanti particolari per l’omicidio tra cui il fatto che previamente all’omicidio si siano verificati atti persecutori (612 bis cp, il cosidetto stalking). Insomma su questa materia il Codice non presenta lacune.

Perché è da privilegiare questa normativa già vigente rispetto alla proposta di istituire un nuovo reato? Almeno per due motivi. In primo luogo in materia penale è assolutamente fondamentale prevedere condotte illecite sì tassative – cioè ben definite e non generiche – ma ad ampio spettro: in tal modo nessuna condotta illecita può sfuggire dall’ambito sanzionatorio previsto dalla norma penale. Es. l’art. 575 cp recita: “Chiunque cagiona la morte di un uomo…” e correttamente l’articolo non sta a specificare tutti i mezzi possibili e immaginabili per provocare la morte di una persona: con una pistola, con un coltello, annegandola, ecc. È quindi più agevole ed efficace tutelare la donna con uno strumento flessibile come quello delle circostanze aggravanti che meglio si adatta alle più disparate circostanze rispetto ad uno strumento creato ad hoc che però potrebbe peccare di rigidità. Detto in altri termini: più specifichiamo le fattispecie normative più si allargano le uscite di sicurezza per i malviventi. All’opposto più l’ombrello di tutela penale è ampio maggiori saranno le fattispecie concrete che potranno essere ricondotte sotto la protezione del Codice, seppur non previste in modo analitico da questo.

C’è un secondo motivo per guardare con una certa diffidenza all’istituzione del reato di femminicidio. Se apriamo alla specificazione sanzionatoria si innesca un processo infinito. Dovremmo varare anche norme penali che sanzionano l’omicidio di tutte le categorie deboli: del minorenne, dell’handicappato, del paziente in ospedale, del disoccupato, del lavoratore dipendente per mano del suo datore di lavoro, (del cattolico?), ecc. Chi rimarrebbe fuori si sentirebbe escluso e discriminato. Il Codice Penale tutela la persona umana nella sua interezza, sicuramente prestando attenzione anche alle particolari qualifiche e ruoli che questa eventualmente assume, ma il suo sguardo è – potremmo dire – il più possibile globale sull’uomo.

Inoltre ci permettiamo una sottolineatura di carattere più antropologico e culturale. Ci viene il sospetto che l’istituzione del reato di femmicidio sia l’esito perverso di un atteggiamento negativo verso l’istituto della famiglia. Sta passando l’idea che la famiglia sia luogo in cui si ingenera violenza e non ambito privilegiato dove fiorisce l’amore. E dunque il reato di femminicidio sarebbe lo strumento adatto per difendere il singolo dagli altri, quasi che per sua natura la famiglia fosse una giungla irta di pericoli. Invece l’ordinamento attualmente, almeno sulla carta, tutela la famiglia perché riconosce che in quel particolarissimo luogo il singolo trova protezione. Tutelando il matrimonio tutela indirettamente tutte le persone che vivono all’interno di quella relazione. Dietro invece il femmincidio pare che occhieggi un’ideologia individualista e anti-familista, dove il marito, il padre e i fratelli di loro – perché maschi – sono potenziali nemici da cui difendersi. In breve: il femminicidio potrebbe rivelarsi alla lunga una sofistica arma per il familicidio. 

I fatti però ci dicono altro: non sono i legami matrimoniali o familiari a generare violenza. Questa nasce quando tali legami vengono spezzati: “dal gennaio del 1994 all’aprile 2003, si sono registrati in Italia 854 omicidi maturati in seguito a divorzi, separazioni e cessazione di convivenze. Su un campione di 46.094 casi [di questo tipo] 39.919 (l’86,6%) hanno avuto implicazioni penali come calunnia, minacce, sottrazione di minore, percosse, maltrattamenti lesioni, sequestro di persona, violenza privata, violenza sessuale” (F. Agnoli – M. Luscia, Chiesa, sesso e morale, Sugarco). Infatti se il lettore presta attenzione, i Tg e i giornali qualificano l’omicida quasi sempre come ex: ex marito, ex fidanzato, ex convivente.

Infine se vogliamo parlare di prevenzione della violenza sulle donne, questa non deve essere individuata solo nel rispetto della donna in quanto donna, bensì e prima di tutto nella donna in quanto moglie e madre. Cioè in quei due ruoli grazie ai quali per natura l’essere femminile diventa sempre più donna, sempre più se stessa. Valorizzare la figura di madre e moglie potrà così contribuire a fermare la mano assassina dell’uomo.

La Chiesa educa ai criteri, non indica i partiti

Monsignor Luigi Negri

Di Luigi Negri *


L’esigenza fondamentale in un momento come questo della nostra vita sociale è quello di avere delle proposte culturalmente forti, dalle quali poi trarre le conseguenze di carattere sociale e politico.

Il mondo cattolico ha a disposizione secoli, una serie di proposte forti che si sintetizzano nel senso del termine stesso della Dottrina sociale della Chiesa. Dottrina di libertà per la persona, per la famiglia, per la società e di autentica dialettica positiva nei confronti delle istituzioni affinché le istituzioni si pongano a servizio della società e non cerchino di imporsi alla società, come spesse volte ha richiamato il beato Giovanni Paolo II.

Ora il magistero di Benedetto XVI ha avuto a questo livello il merito di sintetizzare ancora più radicalmente la questione formulando quel valori non negoziabili che - come ha detto il Papa più di una volta - trovano la loro fondazione, la loro adeguata esplicitazione nell’ambito della tradizione ecclesiale; ma sono come tali princìpi di ragione, e quindi utilizzabili, fruibili da parte anche di coloro che non hanno una esplicita professione di fede. In questo senso sono valori perfettamente laici sui quali si può costruire una realtà sociale piena, e di profonda laicità. Laicità intesa come apertura al problema del senso della vita, della verità, della bellezza, del bene, della giustizia, non quella laicità che qualcuno ha addirittura chiamato in questi ultimi tempi «sano laicismo di Stato».

Il mondo cattolico ha bisogno di essere richiamato a questi valori. E questi valori devono essere formulati in modo sempre più chiaro, stringente, esemplificando la loro pertinenza, in modo che diventino i criteri per la scelta di persone, di formazioni, di strutture, le quali poi possono essere fatte tenendo presenti anche degli aspetti più analitici. Ma si arriva alle necessarie analisi, che possono essere anche articolate e variegate, soltanto se esiste una forte adesione a questi princìpi.

Questo è lo spazio della vita ecclesiale che deve essere riempito: quello di una autentica formazione a una cultura della fede, e quindi a una cultura della Dottrina sociale.

Mi sembra che concentrare immediatamente l’attenzione da parte dei vari ambiti della vita ecclesiale su analisi di carattere “politico” o valutazioni di carattere personale, finisca per ridurre il peso e la portata della presenza cattolica in Italia.
Sia a livello della vita del popolo, sia a livello delle strutture sociali, sia a livello delle strutture istituzionali, quella cattolica in Italia è una presenza di forti motivazioni ideali, che poi diventano criteri per valutare condizioni, proposte, progetti di carattere politico. Se si inverte il processo, ciò che è analitico e conseguenziale rischia di diventare iniziale e fondante. E questo non serve, non è positivo né per la presenza cattolica né per la realtà sociale.

Si deve poi ricordare – e non sarà cosa secondaria – il principio fondamentale con cui la Dottrina sociale della Chiesa ha sempre valutato persone e istituzioni, ovvero il concetto di libertas ecclesiae (libertà della Chiesa). Certamente anche libertà dai condizionamenti, dai tentativi di ridurre istituzionalmente la libertà, ma soprattutto libertà di presenza, libertà di missione, libertà di svolgere dentro il mondo tutta la potenza dell’annunzio evangelico dalla fede alle opere. E’ proprio questa chiarezza, questo recupero del valore della libertà, libertas ecclesiae, come libertà di missione ad essere particolarmente significativo in un momento grave di passaggio della nostra vita sociale.
*Arcivescovo eletto di Ferrara-Comacchio

Benedetto XVI: "L'incontro con Cristo è la sorgente della vera vita"





Alle ore 17 di oggi, nella Basilica Vaticana, il Santo Padre Benedetto XVI ha presieduto i primi Vespri della Solennità di Maria Santissima Madre di DioDopo l’esposizione del Santissimo Sacramento, del canto dell'inno Te Deum di ringraziamento a conclusione dell’anno civile, e la benedizione eucaristica, il Papa ha pronunciato la sua allocuzione. Ecco il testo dell’omelia del Papa:
Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato,
distinte Autorità,
cari fratelli e sorelle!
Ringrazio voi tutti che avete voluto partecipare a questa liturgia dell’ultima ora dell’anno del Signore 2012. Quest’«ora» porta in sé una particolare intensità e diventa, in certo qual modo, una sintesi di tutte le ore dell’anno che sta per tramontare. Saluto cordialmente i Signori Cardinali, i Vescovi, i Presbiteri, le persone consacrate e i fedeli laici, specialmente quanti rappresentano la comunità ecclesiale di Roma. In modo speciale saluto tutte le Autorità presenti, ad iniziare dal Sindaco della Città, e le ringrazio per aver voluto condividere con noi questo momento di preghiera e di rendimento di grazie a Dio.
Il Te Deum che innalziamo al Signore questa sera, al termine di un anno solare, è un inno di ringraziamento che si apre con la lode - «Noi ti lodiamo, Dio, ti proclamiamo Signore» - e termina con una professione di fiducia - «Tu sei la nostra speranza, non saremo confusi in eterno». Quale che sia stato l’andamento dell’anno, facile o difficile, sterile o ricco di frutti, noi rendiamo grazie a Dio. Nel Te Deum, infatti, è contenuta una saggezza profonda, quella saggezza che ci fa dire che, nonostante tutto, c’è del bene nel mondo, e questo bene è destinato a vincere grazie a Dio, il Dio di Gesù Cristo, incarnato, morto e risorto. Certo, a volte è difficile cogliere questa profonda realtà, poiché il male fa più rumore del bene; un omicidio efferato, delle violenze diffuse, delle gravi ingiustizie fanno notizia; al contrario i gesti di amore e di servizio, la fatica quotidiana sopportata con fedeltà e pazienza rimangono spesso in ombra, non emergono. Anche per questo motivo non possiamo fermarci solo alle notizie se vogliamo capire il mondo e la vita; dobbiamo essere capaci di sostare nel silenzio, nella meditazione, nella riflessione calma e prolungata; dobbiamo saperci fermare per pensare. In questo modo il nostro animo può trovare guarigione dalle inevitabili ferite del quotidiano, può scendere in profondità nei fatti che accadono nella nostra vita e nel mondo, e giungere a quella sapienza che permette di valutare le cose con occhi nuovi. Soprattutto nel raccoglimento della coscienza, dove ci parla Dio, si impara a guardare con verità le proprie azioni, anche il male presente in noi e intorno a noi, per iniziare un cammino di conversione che renda più saggi e più buoni, più capaci di generare solidarietà e comunione, di vincere il male con il bene. Il cristiano è un uomo di speranza, anche e soprattutto di fronte al buio che spesso c’è nel mondo e che non dipende dal progetto di Dio ma dalle scelte sbagliate dell’uomo, perché sa che la forza della fede può spostare le montagne (cfr Mt 17,20): il Signore può illuminare anche la tenebra più profonda.
L’Anno della fede, che la Chiesa sta vivendo, vuole suscitare nel cuore di ciascun credente una maggiore consapevolezza che l’incontro con Cristo è la sorgente della vera vita e di una solida speranza. La fede in Gesù permette un costante rinnovamento nel bene e la capacità di uscire dalle sabbie mobili del peccato e di ricominciare di nuovo. Nel Verbo fatto carne è possibile, sempre nuovamente, trovare la vera identità dell’uomo, che si scopre destinatario dell’infinito amore di Dio e chiamato alla comunione personale con Lui. Questa verità, che Gesù Cristo è venuto a rivelare, è la certezza che ci spinge a guardare con fiducia all’anno che stiamo per iniziare.
La Chiesa, che ha ricevuto dal suo Signore la missione di evangelizzare, sa bene che il Vangelo è destinato a tutti gli uomini, in particolare alle nuove generazioni, per saziare quella sete di verità che ognuno porta nel cuore e che spesso è offuscata dalle tante cose che occupano la vita. Questo impegno apostolico è tanto più necessario quando la fede rischia di oscurarsi in contesti culturali che ne ostacolano il radicamento personale e la presenza sociale. Anche Roma è una città dove la fede cristiana deve essere annunciata sempre di nuovo e testimoniata in maniera credibile. Da una parte, il numero crescente di credenti di altre religioni, la difficoltà delle comunità parrocchiali ad avvicinare i giovani, il diffondersi di stili di vita improntati all’individualismo e al relativismo etico; dall’altra parte, la ricerca in tante persone di un senso per la propria esistenza e di una speranza che non deluda, non possono lasciarci indifferenti. Come l’Apostolo Paolo (cfr Rm 1,14-15) ogni fedele di questa Città deve sentirsi debitore del Vangelo verso gli altri abitanti!
Proprio per questo, ormai da diversi anni, la nostra Diocesi è impegnata ad accentuare la dimensione missionaria della pastorale ordinaria, affinché i credenti, sostenuti specialmente dall’Eucaristia domenicale, possano diventare discepoli e testimoni coerenti di Gesù Cristo. A questa coerenza di vita sono chiamati in modo del tutto particolare i genitori cristiani, che sono per i loro figli i primi educatori della fede. La complessità della vita in una grande città come Roma e una cultura che appare spesso indifferente nei confronti di Dio, impongono di non lasciare soli i padri e le madri in questo compito così decisivo, anzi, di sostenerli e accompagnarli nella loro vita spirituale. A tale proposito, incoraggio quanti operano nella pastorale familiare a mettere in pratica gli indirizzi pastorali emersi dallo scorso Convegno diocesano, dedicato alla pastorale battesimale e post-battesimale. E’ necessario un impegno generoso per sviluppare gli itinerari di formazione spirituale che dopo il Battesimo dei bambini accompagnino i genitori a tenere viva la fiamma della fede, offrendo loro suggerimenti concreti affinché, fin dalla più tenera età, sia annunciato il Vangelo di Gesù. La nascita di gruppi di famiglie, nei quali si ascolta la Parola di Dio e si condividono le esperienze di vita cristiana, aiuta a rafforzare il senso di appartenenza alla comunità ecclesiale e a crescere nell’amicizia con il Signore. È altresì importante costruire un rapporto di cordiale amicizia anche con quei fedeli che, dopo aver battezzato il proprio bambino, distolti dalle urgenze della vita quotidiana, non mostrano grande interesse a vivere questa esperienza: essi potranno così sperimentare l’affetto della Chiesa che, come madre premurosa, si pone loro accanto per favorirne la vita spirituale.
Per poter annunciare il Vangelo e permettere a quanti ancora non conoscono Gesù, o lo hanno abbandonato, di varcare nuovamente la porta della fede e vivere la comunione con Dio, è indispensabile conoscere in maniera approfondita il significato delle verità contenute nella Professione di fede. L’impegno allora per una formazione sistematica degli operatori pastorali, che ormai da alcuni anni avviene nelle diverse Prefetture della Diocesi di Roma, è una preziosa via che richiede di essere perseguita con impegno anche in futuro, per formare laici che sappiano farsi eco del Vangelo in ogni casa e in ogni ambiente, anche attraverso i centri di ascolto che tanto frutto hanno portato al tempo della Missione cittadina. A tale riguardo, i «Dialoghi in Cattedrale», che da anni si tengono nella Basilica di San Giovanni in Laterano, costituiscono un’esperienza quanto mai opportuna per incontrare la Città e dialogare con quanti, cercatori di Dio e della verità, si interrogano sulle grandi domande dell’esistenza umana.
Come già nei secoli passati, anche oggi la Chiesa di Roma è chiamata ad annunciare e testimoniare instancabilmente la ricchezza del Vangelo di Cristo. Questo anche sostenendo quanti vivono situazioni di povertà e di emarginazione, come pure le famiglie in difficoltà, specialmente quando devono assistere persone malate e disabili. Confido vivamente che le Istituzioni ai vari livelli non faranno mancare la loro azione affinché tutti i cittadini abbiano accesso a quanto è essenziale per vivere dignitosamente.
Cari amici, nell’ultima sera dell’anno che volge al termine e davanti alla soglia del nuovo, lodiamo il Signore! Manifestiamo a «Colui che è, che era e che viene» (Ap 1,8) il pentimento e la richiesta di perdono per le mancanze commesse, come pure il grazie sincero per gli innumerevoli benefici accordati dalla divina Bontà. In particolare, ringraziamo per la grazia e la verità che sono venute a noi per mezzo di Gesù Cristo. In Lui è riposta la pienezza di ogni tempo umano. In Lui è custodito il futuro di ogni uomo. In Lui si avvera il compimento delle speranze della Chiesa e del mondo. Amen.

Ritorno alla Fede



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Di seguito una intervista di Pietro Invernizzi a Costanza Miriano.
* * *

“Le detrazioni fiscali per i figli a carico sono certamente utili, ma all’origine del crollo drammatico della natalità cui assistiamo nel nostro Paese ci sono una mancanza di speranza e una forma di superbia. Tanto per la crisi demografica quanto per quella economica le ricette finanziarie non sono sufficienti, occorre ritornare ai fondamenti della fede”.
Lo afferma Costanza Miriano, giornalista del Tg3 nazionale, autrice dei libri “Sposati e sii sottomessa” e “Sposala e muori per lei”, nonché madre di quattro figli.
Per quale motivo le detrazioni fiscali sono utili, ma non bastano?
Perché il motivo principale del calo della natalità in Italia non è di tipo economico. Lo documenta il fatto che i nostri genitori, nati in tempo di guerra o subito dopo e con speranze di benessere economico molto basse, facevano molti più figli rispetto alle giovani coppie di oggi. Come dice papa Benedetto XVI, sia la crisi demografica sia quella economica nascono innanzitutto da una mancanza di fede, che si riflette in una forma di superbia il cui contraltare è un’assenza di speranza.
In che senso la superbia avrebbe a che fare con il calo della natalità?
La superbia ci spinge a pensare di essere Dio e quindi di sapere noi qual è il numero giusto di figli e il momento migliore per metterli al mondo. Il controllo della fertilità che ci è stato messo in mano dalla scienza è un potere che non sappiamo gestire, perché noi uomini non siamo gli arbitri della realtà. E quando ci mettiamo in mente di esserlo spesso sbagliamo. Quest’ansia di iper-controllo che la tecnologia e la medicina ci trasmettono, in realtà ci inducono in errore e ci rendono infelici.
Dove sta l’errore?
Nel pensare di poter decidere tutto sulla base dei nostri criteri, di poter progettare la nostra vita. In quanto essere umano, io non sono Dio e quindi non so qual è il mio vero bene. Poniamo una donna che prende la pillola, perché ha deciso che fino a 38 anni vuole dedicarsi alla carriera e non avere figli: il suo non è solo un peccato contro la vita, ma è anche una forma di superbia. Bisogna lasciare spazio all’azione di Dio nella nostra vita, e se noi mettiamo un muro chiaramente Lui ci lascia liberi.
In che cosa consiste questo muro?
Conosco un’infinità di persone che hanno commesso l’errore di pensare di poter programmare le loro vite, per poi rimanere senza nulla in mano e con una grande infelicità. Penso a tante donne che rimandano il primo figlio, convinte di avere tutto il tempo per realizzarsi e di poter aspettare il momento buono, e poi il momento buono non arriva mai.
Che cosa c’entra invece la mancanza di speranza di cui parlava prima?
Tutti prospettano un futuro economico difficile, ma è anche perché le pretese di vita sono molto alte. Quando i miei genitori si affacciavano alla vita, il primo obiettivo era riuscire a mantenere la famiglia, senza la pretesa di mandare i figli a tutti i costi a studiare a Oxford, Stanford o Yale.  La mancanza di fede significa anche non avere il coraggio di affidare la propria vita e quella della propria famiglia nelle mani di Dio, rendendosi disponibili, con prudenza e attenzione, ma lasciando un margine di iniziativa al Creatore.
E’ soltanto la pillola ad avere cambiato le abitudini, o sono le relazioni in quanto tali a essere più fragili?
Oggi si vivono con estrema libertà tutti gli aspetti della relazione fin da subito, quindi questo rende meno urgente una maggiore stabilità. Si consuma tutta la bellezza del rapporto senza bisogno di vincoli, e alla fine nella logica di questo mondo conviene non sposarsi, perché così ci si mantiene liberi, prendendosi tutti i vantaggi. Anche in questo caso pensare di non avere bisogno dell’intervento del sacramento del matrimonio è una questione di mancanza di fede. Ricordo che con Adamo ed Eva il matrimonio è stato il primo dei sacramenti.
E quindi?
La narrazione biblica ci ricorda in questo modo che sposarsi è ciò che corrisponde più profondamente all’uomo e alla donna fatti a immagine e somiglianza di Dio. Scegliere di non sposarsi significa non sentire il bisogno di fare entrare Dio nella propria relazione. E’ questa la radice di tutto, e infatti l’anno della fede proclamato dal Papa è veramente l’unica risposta possibile a tutti i problemi sociali ed economici che ci affliggono. Le ricette degli economisti, le iniezioni di liquidità e le ricette finanziarie non bastano, occorre ritornare ai fondamenti della fede.
 Fonte: Sussidiario.net

Il nuovo anno ci è dato perché possa essere valorizzato


BOLOGNA, Monday, 31 December 2012.
Oggi 31 dicembre, alle ore 18, nella Basilica di S. Petronio, S.E. Card. Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, ha presieduto il Solenne Te Deum di fine anno, nei Primi Vespri della Solennità di Maria Santissima Madre di Dio. Pubblico di seguito il testo dell’omelia del Cardinale Caffarra.
***
1. «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da una donna». Cari amici, l’ultima sera dell’anno ci dona una consapevolezza particolarmente acuta del trascorrere dei nostri giorni, della misura sempre più abbreviata della nostra esistenza.
La Parola di Dio appena ascoltata illumina profondamente la coscienza della nostra temporalità: di ciascuno di noi e della storia umana nel suo insieme. L’apostolo infatti parla di una “pienezza del tempo”.
Per comprendere questa singolare espressione, dobbiamo – e questa sera non ci è difficile farlo - riformulare esplicitamente quella domanda fondamentale circa lo scorrere del tempo, che consapevolmente o inconsapevolmente ciascuno ha nel cuore. Che è la seguente: lo scorrere del tempo è orientato verso un fine ultimo e quindi ha inscritto in se stesso un senso? Oppure lo scorrere del tempo è semplicemente l’eterno ritorno dell’identico, privo di una direzione e di un senso? In breve: il tempo è una linea retta che ha una direzione o è una circonferenza che gira sempre su se stessa?
Cari amici, l’Apostolo – lo abbiamo sentito – parla di una “pienezza del tempo”. Egli, dunque, ci svela che il tempo è orientato verso una meta che ne orienta lo scorrere, raggiunta la quale è compiuto; ha raggiunto la sua misura piena. E’ quella meta la pienezza del tempo.
L’Apostolo individua anche il momento, l’attimo che, pur essendo nel tempo, è di esso la fine ed il fine. E’ il momento, l’attimo in cui una donna concepì nel e dal suo grembo Dio stesso nella nostra natura e condizione umana. In quel grembo, nel momento del concepimento, il tempo è finito; ha raggiunto la sua pienezza: l’eternità è entrata nel tempo.
Alla domanda dunque che ci siamo fatti riguardo al significato dello scorrere del tempo, coloro che credono vere le parole dell’Apostolo perché parole di Dio, rispondono che il tempo ha un senso, una direzione, perché ha una meta finale che lo orienta dal di dentro: il concepimento di Dio nella nostra natura e condizione umana.
Ma se così stanno le cose, lo scorrere del tempo dopo quell’evento è una pura illusione a cui siamo condannati, ed il suo computo una semplice anche se necessaria convenzione sociale? oppure ci ritroviamo prigionieri del tempo, che avrebbe ripreso a scorrere senza più alcuna direzione?    
Cari amici, l’ingresso di Colui che è eterno dentro al tempo, ha cambiato la qualità del tempo stesso, poiché esso è diventato il luogo della salvezza. L’apostolo Pietro scrivendo ai suoi fedeli, dice che ora lo scorrere del tempo è dovuto al fatto che Dio «usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» [2Pt 3,9]. «Perché ricevessimo l’adozione a figli», ci ha detto l’apostolo Paolo.
Dentro alla nostra vicenda temporale Dio attua il suo disegno di salvezza. E la libertà dell’uomo non è più schiava di leggi impersonali che governano la realtà, ma è confrontata continuamente con una proposta di salvezza che cambia la condizione umana.
Lo scorrere del tempo, ora, ha il senso di un confronto fra due libertà: quella di Dio entrato nella nostra storia e quella dell’uomo chiamato a realizzare già ora il progetto di Dio.
2. «Poiché l’uomo rimane sempre libero e poiché la sua libertà è sempre anche fragile, non esisterà mai in questo mondo il regno del bene definitivamente consolidato» [Benedetto XVI,Lett. Enc. Spe Salvi, 24.b]. Chi pensa che lo scorrere del tempo coincida necessariamente col progresso, è un grande illuso, tragicamente illuso. Lo sentiamo soprattutto questa sera, alla fine del 2012 e sulla soglia del 2013.
Il futuro, l’anno nuovo è sentito per tanti aspetti più come una minaccia che una speranza, ed anche per la nostra città non mancano ragioni di gravi preoccupazioni. Non ci sono allora ragioni vere, consistenti, di augurarci un “buon anno”? Di pensare ed augurarci un “buon anno” per la nostra città?
Ciò che la fede ci ha detto circa il vero significato dello scorrere del tempo, ha generato nell’uomo la consapevolezza della sua responsabilità. Non assicureremo un “buon anno” alla nostra città, se pensiamo che esso sia frutto di forze automatiche ed impersonali, siano esse quelle del mercato o quelle della finanza.
La bontà della nostra convivenza civile è dovuta prima di tutto ad operatori economici e responsabili politici che sentano profondamente l’appello del bene comune. Che abbiano cioè una robusta coscienza morale. La bontà della nostra convivenza civile è generata prima di tutto da decisioni che siano frutto di responsabilità morale.
Fra le principali responsabilità morali che abbiamo nei confronti della nostra città, vi è l’accesso al lavoro o il suo mantenimento, per tutti. Ho detto responsabilità morale. Il lavoro infatti non è semplicemente una variabile dipendente dai meccanismi economici e finanziari. E’ un bene fondamentale per la persona, le famiglie, la nostra città.
La de-responsabilizzazione delle persone è l’insidia più pericolosa alla nostra convivenza; crea la rivolta o l’indifferenza. Due forme di stare nella società che creano quel vuoto di politica, cioè di appassionato e ragionevole impegno per il bene comune, riempito inevitabilmente dalla burocrazia. E si oscura anche il giusto senso dello Stato, di cui l’uomo non può fare senza.
La parola di Dio questa sera ci assicura che nel tempo abita e si attua un disegno. Chi fa propria questa visione e questa certezza, diventa consapevole che la sua vita non si dissipa nello scorrere del tempo, ma è l’esercizio di responsabili scelte per l’eternità.
Tramontata la fiducia in ideologie utopistiche, falsi surrogati alla concezione cristiana del tempo, stiamo rischiando la rassegnazione; sembra ormai essere questa la malattia oscura della nostra città. E una città rassegnata ha già imboccato la via del tramonto.
Ma sono anche certo che in essa esiste ancora un potenziale enorme. Il nuovo anno ci è dato perché possa essere valorizzato. C’è bisogno per questo di operosa coesione sociale; di assunzione da parte di ciascuno della propria responsabilità nella promozione del bene comune della città. E’ questa consapevolezza il frutto civile più prezioso della concezione cristiana del tempo, che questa sera la parola di Dio ci dona.
Mi piace allora concludere con un testo poetico di K. Wojtyla:
«Debole è il popolo, quando acconsente alla sconfitta, quando dimentica la sua missione di vegliare fino a che giunga l’ora. Le ore tornano sempre sul grande quadrante della storia … Le ore diventano salmo di incessanti conversioni».
[Pensando Patria, in Tutte le opere letterarie, Bompiani, Milano 2005, 235]
E’ per questo che in tutta verità possiamo cantare il Te Deum.

Un segno di speranza sul treno della vita



Di don Antonello Iapicca
TOKYO, Monday, 31 December 2012.
Siamo agli sgoccioli di questo 2012, e li passiamo in treno, attraversando la dorsale del Giappone, in viaggio tra Tokyo e Takamatsu, nel giorno dell’anno in cui i treni si trasformano in metropolitane nell’ora di punta. È come se in tutti vi fosse il desiderio segreto di saltare su questo tramonto d'anno, cercando di acciuffare la storia che si accinge a voltar pagina.
Protagonisti della fine per non trovarsi impreparati al nuovo inizio. Si fondono in questo treno tradizione e futuro, religione e business, affetti e doveri. Siamo tutti incapsulati in questi vagoni come dentro l'ennesimo giro dell'eterno ritorno della storia, in questo si crede in Giappone, e visto che non si riesce a cambiare nulla, che resti almeno la sensazione di non aver perso il turno sulla giostra, nell'illusione di non subire sino in fondo il destino.
C'è chi dorme, chi legge, chi, dopo essersi chiuso qui dentro, si isola ancor di più divenendo l'estensione di uno smartphone, o chi si inabissa come un sommozzatore tra le pagine di un manga. È così che si scivola sulla risacca della vita, non guidi tu, di nulla sei realmente contemporaneo, persone e cose sono solo un flash che appare e altrettanto improvvisamente sparisce.
I compagni di viaggio, matrioske dove si celano identità sconosciute, ti sono accanto segnando il trionfo del fato. Volti disegnati da giorni e anni di storie uniche che, in questa corsa verso il compimento dell'unica storia, non hanno nulla da dirti. Un treno ci unisce, lamiere e motore, ed è tutto. Ci ha fatti incontrare questo giorno magnetico, ma non ci guardiamo neanche, è morta tua moglie? Tuo padre è rimasto a casa? Lavori, studi, sei pensionato? Per caso oggi sei felice? Nulla.
Silenzio spettrale, fa caldo ma sembra d'essere sulla banchina ghiacciata del Polo. Storie che si sfiorano senza incontrarsi, corpi intrecciati nel tentativo di guadagnare l'uscita tra borse, pacchi e bambini sguscianti tra le gambe dei genitori. Ma in fondo va bene così, è meglio così, la salvezza è dentro questo flacone di anestetico che attutisce e smorza i colpi, come una sciarpa che ti ripara dal freddo.
Questo treno sfreccia a quasi 400 all'ora e non senti un sibilo, prodigio d'un progresso che riesce a spegnere l'anima, e andiamo tutti, velocemente e silenziosamente, verso una qualche stazione, ma non abbiamo occhi per guardare, e orecchie per ascoltare, e testa per pensare, e cuore per amare. Arriveremo, abbracceremo genitori, nonne e zii, mangeremo e berremo, e torneremo da dove siamo venuti, identici nello stesso treno, accanto a facce nuove eppure uguali e indifferenti, impermeabili ogni istante di più a quanto ci accade intorno, perché incapaci di comprendere quello che ci succede dentro.
Eppure qualcosa ci dice che non è solo questo la nostra vita, in Giappone dove lo "shogatsu", il capodanno, è l'unico giorno in cui si fermano molte attività, non troppe per carità, e in ogni altra parte del mondo, dove treni diversi caricano le stesse esistenze per depositarle, stordite, in qualche destino.
Un lampo sfuggito ai più, e questo viaggio, e ogni viaggio, si illumina inaspettatamente; un ragazzo, che sembra esserci nato sul suo sedile, ipnotizzato dal gioco del suo smartphone, sono due ore che non dà segni di vita, unico movimento, quello delle due dita che bussano compulsive sul display. Un impercettibile colpo di freno scuote il suo corpo, e, misteriosamente contemporaneo, sibila un vagito, proprio lì a venti centimetri da lui, un suono così straniero da insinuarsi tra le note sparate nel cervello, così potente da sollevare per un istante il suo sguardo.
Che cosa sia successo nel cuore di quel ragazzo in quella frazione di secondo lo sa solo Dio, ma il fatto è che i suoi occhi intercettano un abbozzo di bimbo tra le braccia di una minuscola mamma, aggrappata improbabilmente alla sua valigia, sospesa come una bolla di sapone. Un pensiero e un gesto coagulati in un istante benedetto dal Cielo, e questo treno si fa Betlemme, e un ragazzo e la sua "grotta" dischiusa e donata a una madre e al suo bambino.
L'amore, parola grossa, si fa strada nell'indifferenza, e un sorriso spontaneo risponde alla gratuità sbocciata per l'incanto di un miracolo. Sappiamo bene che si tratta di un gesto previsto dalla civica educazione, e che appositi cartelli invitano a questa gentilezza. Ma bisogna esserci in questa calca, e riconoscerla identica a quella di ogni giorno che scivola via inerte inghiottendo inesorabilmente i vagiti divini dell' "immagine e somiglianza" seminata nel cuore di ciascuno.
Bisogna respirare sino in fondo la solitudine di un Paese schiacciato sulle formalità e oppresso da regole e doveri che umiliano la persona e la sua libertà, sottraendole la speranza di una vita nuova e diversa. Per questo, oggi, questo ragazzo che si alza risplende come una profezia e una buona notizia, la primizia di ogni giapponese, e di ogni uomo, raggiunto dalla Grazia capace di risuscitarlo e liberarlo; un segno, piccolo e fragile, come un diamante incastonato nell'agonia di un anno e nelle doglie del nuovo che sta per nascere.
Passa il tempo, e con esso tutto quanto non sia stato pensato, detto e fatto con amore. Scorre veloce la vita, come questo treno, ma la speranza è intatta, incarnata in un atto d'amore, l'unica memoria viva del viaggio a cui tutti siamo chiamati. Un ragazzo, "cinque pani e due pesci tra le mani", un semplice sguardo destato per un attimo, fattosi attento a chi bussava al suo cuore.
Il bimbo che piangeva accanto a quel ragazzo era Cristo tra le braccia di sua madre, la Chiesa; si è imbarcato con noi sul treno della vita, e la sua voce chiama ancora tra la folla, mentre la sua Carità ci spinge ad essere qui per annunciare il suo Nome, piccoli suoi apostoli a destare in ogni passeggero lo sguardo che accolga la sua vittoria sulla morte, le deboli braccia della Chiesa sua madre, ad offrire il suo amore che riscatta e santifica ogni vita.