giovedì 31 gennaio 2013

Osare di nuovo con l'umiltà del piccolo granello

Di seguito il Vangelo di oggi, 1 febbraio, venerdi della III settimana del T.O., con un commento.


Nuova evangelizzazione non può voler dire: attirare subito 
con nuovi metodi più raffinati le grandi masse allontanatesi dalla Chiesa. 
No - non è questa la promessa della nuova evangelizzazione. 
Nuova evangelizzazione vuol dire: 
Non accontentarsi del fatto che dal grano di senape 
è cresciuto il grande albero della Chiesa universale, 
non pensare che basti il fatto che nei suoi rami 
diversissimi uccelli possono trovare posto, 
ma osare di nuovo con l'umiltà del piccolo granello lasciando a Dio, 
quando e come crescerà
Le grandi cose cominciano sempre dal granello piccolo 
ed i movimenti di massa sono sempre effimeri.

Benedetto XVI




Dal Vangelo secondo Marco 4,26-34.

Diceva: «Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga. Quando il frutto è pronto, subito si mette mano alla falce, perché è venuta la mietitura». Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? Esso è come un granellino di senapa che, quando viene seminato per terra, è il più piccolo di tutti semi che sono sulla terra; ma appena seminato cresce e diviene più grande di tutti gli ortaggi e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra». Con molte parabole di questo genere annunziava loro la parola secondo quello che potevano intendere. Senza parabole non parlava loro; ma in privato, ai suoi discepoli, spiegava ogni cosa. 


Il commento

Tutto il Vangelo è percorso da una linea rossa di follia, la stoltezza della Croce. La Scrittura ci trascina in un violento testacoda, e ci ritroviamo spaesati, stranieri in un mondo che non ci appartiene. E' il Regno di Dio descritto nelle parabole del Vangelo di oggi, che non sono zuccherini per consolare e invitare alla pazienza. Non sono solo questo. Occorre innanzi tutto orecchi e cuore aperti per lasciarsi trascinare fuori dalle proprie sicurezze e, attraverso fallimenti ed angosce, giungere ad assaporare qualcosa di completamente diverso, il vino nuovo del Regno. Occorre essere in cammino, in conversione. Chi è installato, seppur veda sbriciolarsi la vita tra le mani, non comprenderà nulla di queste parabole. Le prenderà come utopia o con sentimentalismo e moralismo, ma non sposteranno di un centimetro il suo sentire profondo. Si tratta delle confidenze di Gesù ai suoi amici, dei misteri del Regno riservate ai suoi eletti. Nel Vangelo, infatti, a proposito della mietitura, laddove leggiamo "porre mano alla falce", l'originale greco ha "apostellei" che significa inviare, da cui deriva la parola apostolo. Per comprendere il significato di questo termine occorre rifarsi all'ambiente ebraico nel quale è nato il Nuovo Testamento. Lo "schaliah", tradotto con "apostello", in ebraico rappresenta un procuratore nel quale è considerato presente colui che lo ha inviato. Il Talmud ripete più di venti volte che "lo schaliah di una persona è un altro se stesso". Così è, ad esempio, per Eleazaro, il servo-schaliah di Abramo, in occasione del matrimonio di Isacco, al punto che esso fu considerato definitivo allorchè Eleazaro scelse Rebecca ed ella acconsentì. Nel Nuovo Testamento la consapevolezza di uno schaliah di essere un altro se stesso di colui che lo inviava, dal piano della finzione giuridica passa a quello di una realtà mistica ed esistenziale. Per lo Spirito Santo, Cristo dimora negli Apostoli: essi non solo lo rappresentano giuridicamente, ma divengono essi stessi la sua presenza. L'Apostolo di Cristo è Cristo stesso, il suo potere si esprime attraverso di lui, quello che legherà in terra sarà legato in Cielo. Questa profonda intimità è la chiave delle Parabole del Vangelo di oggi. L'apostolo ha lo stesso sentire di Colui che lo ha inviato, ha il suo pensiero dirà San Paolo. Ma se c'è una perfetta identità tra l'apostolo e Gesù, vi è anche tra il Signore ed il Regno dei Cieli. E' Lui stesso il Regno della parabola, "l'uomo" che getta il seme che cade in terra, muore e risorge. Attraverso il Mistero Pasquale, il Regno di Dio è seminato irrevocabilmente nella storia, in ogni generazione. Esso segue il percorso di sviluppo proprio di un seme. E' la Grazia che lo feconda, che ne protegge gli inizi, che lo porta a maturazione. Per questo Gesù dice che la terra produce "spontaneamente", letteralmente "senza una causa spiegabile" - come è stato per Lui stesso nel grembo di Maria prima e nel sepolcro poi - "stelo, spiga e chicco pieno". Gli apostoli, gli altri se stessi del seminatore, che sono inviati a raccogliere, attraverso la predicazione, il grano ormai pronto. Nel Vangelo di Giovanni Gesù invita i discepoli a "guardare i campi che già biondeggiano per la mietitura", proprio nel momento in cui annuncia che "deve mangiare un pane" diverso, sconosciuto sino ad allora, l'opera di Colui che lo ha inviato, la volontà del Padre che si definisce nella Croce che lo consegna in riscatto per ogni uomo. Gesù vede profeticamente il suo mistero di Pasqua come un frutto maturo, ed invita i suoi discepoli ad alzare lo sguardo e ad avere il suo stesso pensiero, gli stessi occhi profetici sul mondo e sugli uomini. "Perchè si rallegri insieme chi semina e chi miete" (cfr. Gv. 4,14ss), nella completa identità tra Gesù e i suoi "inviati". Per questo Gesù nella sua predicazione dice che il Regno è vicino, mentre agli apostoli inviati in missione raccomanda di annunciare che il Regno di Dio viene con loro. Si tratta di Lui che è vicino, e di loro, che portano dentro il Signore, nella consapevolezza che ovunque vi sono chicchi pieni da mietere. 

"Il Regno è come un uomo che getta il seme...", e quell'uomo è Cristo. Il Regno di Dio è tutta la parabola, non soltanto l'albero cresciuto a raccogliere tra le sue fronde "gli uccelli del cielo", immagine biblica che descrive i popoli pagani. Il Regno è l'uomo, è il seme, è la terra, è il processo di crescita, e, finalmente, l'albero compiuto. Gli apostoli sono inviati a raccogliere, per Lui ed in Lui, la sua vittoria. L'annuncio del Vangelo è già la mietitura! E' questo il testacoda delle parabole odierne. E' un cambio radicale di prospettiva. Non vi sono misure e parametri umani per il successo dell'evangelizzazione, come per qualunque aspetto, opera o parola della nostra vita . Per questo il Signore utilizza la metafora del "granello di senapa", il più piccolo tra i semi della terra. Ma come, per l'opera più importante, per la salvezza di ogni uomo, si parla di senapa? Certo, e non può essere diversamente! Il pensiero di Dio non è il pensiero dell'uomo, perché per Lui il successo è già, anche se non ancora. E' già perchè Cristo ha vinto la morte, ed il seme invincibile della sua vittoria è già all'opera, misteriosamente, nel mondo. Non ancora perchè la carne impedisce la pienezza, riservata al Cielo. Su questa certezza la Chiesa ha lasciato il Monte delle Beatitudini e si è lanciata sui sentieri del mondo, sino agli estremi confini della terra. Alla Chiesa, come a ciascuno di noi, è necessario un solo atteggiamento interiore: accettare di non sapere "come" Dio opera nella storia. Il demonio, invece, ci inganna spesso con un cortocircuito velenoso: quello che non si sa, non si comprende e non si vede non esisteSe non capisco come Dio sta operando in mio figlio, non significa che Egli non lo stia conducendo alla salvezza. La via di Dio, infatti, passa sul mare della morte e le sue orme restano invisibili. Accettare di non capire e non sapere è la più grande professione di fede, l'unica che ci apra le porte dell'autentico riposo: "dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa". Ma per chi ha la certezza del compimento della salvezza, per chi vive in Cristo, per i suoi apostoli, il non sapere non costituisce problema. Certo le tentazioni di sconforto sono quotidiane. L'evangelizzazione non è una passeggiatina: perchè l'annuncio risuoni e faccia apparire il chicco maturo occorre che riproduca lo stesso suono, la nota capace di liberare nei cuori la musica nascosta: la Passione del Signore. Per questo la storia dell'evangelizzazione è stata e sarà sempre storia di martirio, di solitudine, di umano fallimento. La pazienza nelle sofferenze e la perseveranza nelle tentazioni , provano l'elezione dell'apostolo. Ma la fede è un cammino, la certezza non è frutto di alchimie. Occorre sperimentare, a poco a poco, nella propria vita, la presenza di Cristo, e così lasciare il mondo e i suoi criteri per approdare al pensiero, al sentire di Cristo. E vivere come dentro una profezia compiuta ma non ancora visibile: imparare a vedere, nel deserto, i fiumi di acqua viva promessi. E' come un rivolo d'acqua sotto le rocce, invisibile a chi pretende di vedere, ancor prima della fonte, un fiume nel suo fluire maestoso. Ma il rivolo c'è, e si fa fonte, e poi ruscello e poi fiume, e poi mare. Così per un apostolo è ragionevole quanto per il mondo è irragionevole, anche la sua stessa vita, gettata come un seme su terra arida, la follia più sapiente. La vita nascosta con Cristo in Dio, il pensiero fisso nel Cielo, per ricondurvi ogni figlio disperso nel buio della solitudine. Così vive ogni istante la Chiesa, seme invisibile, calpestato, ma con dentro la forza e l'onnipotenza di Dio. La Chiesa che mostra al mondo il riposo e la Vita proprio nei rami distesi della Croce, i suoi figli perseguitati nel martirio della storia. La Chiesa è già un rifugio per le Nazioni, i pagani avvolti dalle tenebre della menzogna; ma non ancora, perchè il Vangelo deve essere annunciato ad ogni creatura. Solo allora sarà la fine, quando le braccia crocifisse di Cristo potranno, attirare tutti a sè per l'eternità. 

Apprendisti alla scuola dello Spirito




Anticipo di seguito stralci del testo che il cardinale prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica pronuncia il 31 gennaio a Bangalore, in India, in apertura del convegno internazionale «Rivisitare il concilio Vaticano II: cinquant’anni di rinnovamento» che si svolge fino al 3 febbraio nel Pontificio Ateneo Dharmaram Vidya Kshetram.
(Zenon Grocholewski) Il concilio Vaticano II ha suscitato l’interesse sia dei credenti, sia dei non credenti; di coloro le cui preoccupazioni erano legate alla vita e alla missione della Chiesa, come anche di coloro i cui interessi riguardavano la sfera secolare. Ognuno aveva le proprie speranze e i propri timori, nonché le proprie attese. Dopo venticinque anni, molte cose erano cambiate, e questo valeva anche per le speranze, i timori e le attese di tutta l’umanità. 
Dopo cinquant’anni sono mutate pure le preoccupazioni e le situazioni della società. Anche il presente ha le proprie speranze, i propri timori e le proprie attese.
È facile comprendere che queste aspettative, queste speranze e questi timori mutevoli e soggettivi, basati su fenomeni sociali a breve termine, non possono essere la chiave per interpretare gli insegnamenti del Vaticano II. Discernere i “segni dei tempi” e agire in base ai desideri, alle speranze e ai timori soggettivi non può servire da bussola per comprendere gli insegnamenti del concilio.
Ogni volta che la Chiesa si deve confrontare con nuove situazioni che hanno un forte impatto sulla società umana e comportano nuovi interrogativi, essa riunisce i suoi pastori per trovare strumenti efficaci per dare testimonianza di Cristo, Salvatore dell’umanità. Di fatto, «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini» (Gaudium et spes, 1).
Dunque, per quanto possano essere grandi le sfide che i “segni dei tempi” pongono ai credenti, essi non devono sentirsi sopraffatti e non devono abbandonare la barca di Cristo. Come testimoni della provvidenza divina e della speranza, i credenti devono, innanzitutto, discernere i segni della presenza di Cristo nel mondo e negli eventi mondiali. E, come gregge, devono ascoltare le parole del vero Pastore.
Papa Giovanni XXIII sottolineò che l’umanità deve sempre confrontarsi con situazioni difficili e problemi. E in questa realtà costante, che offusca le speranze e i sogni dell’uomo, la Chiesa non ha mai smesso di offrire la luce di Cristo. 
Questo ci ricorda le parole che il Signore ha rivolto ai Dodici durante la tempesta sul lago di Genezaret: «Coraggio, sono io, non abbiate paura» (Matteo, 14, 27). Sì, non dobbiamo avere paura, non dobbiamo avere paura di aggrapparci a Cristo e di essere testimoni di speranza per la società umana.
Per questa ragione il beato Giovanni XXIII disse che, ogni volta che viene convocato un concilio ecumenico, i Padri proclamano in forma solenne questa corrispondenza con Cristo e con la sua Chiesa, e indicano a tutti dove trovare la luce di Cristo, al fine di sostenere e rafforzare le energie spirituali di ognuno e d’innalzare stabilmente gli animi ai beni veri e autentici.
Per meglio comprendere lo spirito e gli insegnamenti del concilio Vaticano II è importante riconsiderare lo scopo principale per il quale fu convocato. Riunendo i vescovi provenienti da ogni parte del mondo, Giovanni XXIII disse chiaramente che era interesse del concilio che «il sacro deposito della dottrina cristiana fosse custodito e insegnato in forma più efficace» (cfr. Messaggio per la solenne apertura del concilio Vaticano II, 11 ottobre 1962, n. 2. 6). Paolo VI lo ribadì nel suo discorso durante l’ultima sessione generale di quello stesso concilio.
Questa dottrina abbraccia l’intero uomo, fatto di corpo e di anima. E a noi, che viviamo qui in terra, impone di puntare, come pellegrini, verso la nostra patria celeste. Indica il modo in cui dobbiamo ordinare questa vita mortale affinché, adempiendo ai nostri doveri, ai quali siamo tenuti verso la città terrena e quella celeste, possiamo raggiungere il fine che Dio ha prestabilito per noi. Indicando tali orientamenti, Giovanni XXIII sottolineò le parole del Signore: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Matteo, 6, 33). Questo “prima”, disse il Papa, esprime dove devono essere dirette anzitutto le nostre forze e le nostre preoccupazioni. Tuttavia, non bisogna trascurare le altre parole che seguono in tale comando del Signore: «e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta».
Nel sottolineare questi importanti principi sui quali i padri conciliari dovevano riflettere, il Papa disse anche che, poiché tale dottrina tocca i vari campi dell’attività umana che riguardano le persone singole, le famiglie e la vita sociale, è necessario, prima di tutto, che la Chiesa non distolga mai gli occhi dal sacro patrimonio della verità ricevuto dagli antichi. Allo stesso tempo, la Chiesa deve guardare anche al presente, che ha comportato nuove situazioni e nuovi modi di vivere, e ha aperto nuove vie all’apostolato cattolico.
In altri termini, il fine del concilio Vaticano II, e di qualsiasi altro concilio generale della Chiesa, è d’introdurre in contesti e situazioni storiche concrete il seguente mandato di Cristo: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Matteo, 28, 19-20). Possiamo ricordare che nei precedenti concili generali della Chiesa il compito di custodire e insegnare il sacro deposito della dottrina cristiana è sempre stato svolto con solenne gravità dai padri dei diversi concili, che si sono dovuti confrontare con nuove situazioni e nuovi modi di vivere. Certamente tutti conoscono il monito di san Paolo nella sua Lettera ai Galati, indirizzato a quanti potrebbero desiderare di modificare gli insegnamenti di Cristo: «Mi meraviglio che così in fretta da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo passiate ad un altro vangelo. In realtà, però, non ce n’è un altro; solo che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il vangelo di Cristo. Orbene, se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anatema! L’abbiamo già detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi predica un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anatema!» (1, 6-9).
Papa Benedetto XVI, che da giovane sacerdote fu tra gli esperti dell’ultimo concilio generale, ha osservato nella premessa alla raccolta dei suoi scritti conciliari: «I singoli episcopati indubbiamente si avvicinarono al grande avvenimento con idee diverse. Alcuni vi giunsero più con un atteggiamento d’attesa verso il programma che doveva essere sviluppato (...) durante le fasi conciliari il raggio del lavoro e della responsabilità comuni si è allargato sempre più. I vescovi si riconoscevano apprendisti alla scuola dello Spirito Santo e alla scuola della collaborazione reciproca, ma proprio in questo modo si riconoscevano come servitori della Parola di Dio che vivono e operano nella fede. I Padri conciliari non potevano e non volevano creare una Chiesa nuova, diversa. Non avevano né il mandato né l’incarico di farlo. Erano Padri del concilio con una voce e un diritto di decisione solo in quanto vescovi, vale a dire in virtù del sacramento e nella Chiesa sacramentale. Per questo non potevano e non volevano creare una fede diversa o una Chiesa nuova, bensì comprenderle ambedue in modo più profondo e quindi davvero “rinnovarle”».
Per tale ragione, il Papa ha sempre affermato chiaramente che «un’ermeneutica di rottura è assurda, contraria allo spirito e alla volontà dei Padri conciliari»; e tutti sappiamo che ciò vale anche per quella di tutti i concili generali.
La fede è il fondamento degli insegnamenti del concilio. Senza fede, la Chiesa sarebbe come il sale che ha perso sapore, come la luce nascosta sotto un grande moggio. «Ma se anche il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si salerà?», dice il Vangelo, «non serve né per la terra né per il concime e così lo buttano via». Allo stesso modo, se l’ermeneutica di rottura viene utilizzata per interpretare il concilio Vaticano II, l’interpretazione non riuscirà a dare testimonianza della vera fede, che la Chiesa ha ricevuto da Cristo, e che è stata trasmessa fedelmente alla generazione presente attraverso il magistero della Chiesa, mediante secoli di ricchi depositi di sapienza contenuti nella tradizione cristiana. 
Il beato Giovanni XXIII ci aveva messo in guardia contro l’imprudenza nell’interpretare lo spirito del concilio. In particolare, ci aveva messo in guardia dall’essere sopraffatti da nuove situazioni e dal trascurare ciò che si può imparare dalla storia. Il non vedere altro che il proprio imprudente entusiasmo per ogni novità, tende a portare a riformulare molte cose, spesso in modo eclettico, come se quelle insegnate dai concili precedenti potessero essere allegramente eliminate, che si tratti di dottrina cristiana, di morale o della giusta libertà della Chiesa.
Dopo duemila anni di cammino percorso insieme con l’umanità, l’esperienza della Chiesa — come ha osservato Papa Roncalli — ci dice che quanti aderiscono a Cristo e alla sua Chiesa godono della luce, della bontà, del giusto ordine e della benedizione della pace. Al contrario, tra quanti vivono senza di lui o combattono contro di lui e restano deliberatamente fuori della Chiesa c’è confusione.
L'Osservatore Romano, 1° febbraio 2013.

Lei lo chiamava "l'uomo perfetto"




Articolo di Krishna Pokharel per "The Wall Street Journal" pubblicato da "il Foglio" per gentile concessione di MF/Milano Finanza (traduzione di Marion Sarah Tuggey)


Lei lo chiamava "l'uomo perfetto".
Lui ha ancora il suo numero memorizzato sul cellulare, sotto il nome di Jewi, che deriva da una parola in sanscrito che significa vita. "Era la persona più vicina al mio cuore," dice il giovane che presto dovrà dire davanti a un giudice che cosa è accaduto quella notte in cui la ragazza è stata violentata a bordo di un autobus, un attacco che ha lasciato il mondo sconvolto - e la sua amica morta.


"Mi ritrovo annichilito dalle immagini dell'incidente di quella notte sull'autobus, immagini che si accavallano nella mia mente," dice il ventottenne specialista informatico, rimasto gravemente ferito la notte del 16 dicembre. Possente e diretto, ora deve camminare col bastone. Parlando con il Wall Street Journal, ha fornito nuovi dettagli sull'assalto e ha descritto la sua relazione complessa e intima con l'amica ventitreenne, una piccola ragazza appena laureata. I nomi di entrambi non sono stati resi noti, in ottemperanza alla legge indiana sull'identificazione di una donna vittima di stupro.
Ci sono state tante proteste di piazza e molte richieste di giustizia, in India e non, dopo quella notte. Cinque uomini sono stati arrestati: sono accusati di violenza, rapimento e omicidio. I loro avvocati li dichiarano innocenti - anche una sesta persona è accusata, ma essendo minorenne è a processo presso il tribunale dei Minori. Non si è riusciti a trovare un avvocato che lo rappresenti.
UNA COPPIA MODERNA
Il giovane e la sua amica erano una coppia moderna, che si frequentava pur essendo legati alle caste e alla tradizione. Vivevano lontani da casa, e si stavano facendo strada nella sempre più ampia classe dei professionisti - lei era una fisioterapista che cercava il suo primo lavoro, lui guida un team specializzato in "voice technology" per le grandi aziende.
Parlavano dei problemi, facevano le vacanze assieme e si consultavano anche per comprare un paio di scarpe. Una volta lei lo dissuase dall'investire in una compagnia che si rivelò poi essere una frode. Lui le diede i dettagli del suo login per accedere a Facebook. Le loro famiglie erano consapevoli della loro vicinanza, e non interferivano, dicono il giovane e la famiglia di lei. Ma i due amici pensavano che la loro sarebbe rimasta sempre un'amicizia e non un matrimonio, ci dice.


Lui proviene dalla casta bramina, suo padre è un noto avvocato. La sua famiglia vive in una casa di tre piani con l'ala riservata alla servitù. La sua amica proveniva dalla casta agricola kurmi, più bassa nella gerarchia hindu. La sua famiglia vive in una piccola casa di cemento e mattoni vicina all'aeroporto di Delhi, dove suo padre lavora come operaio. Differenze come queste erano decisamente d'ostacolo all'unione dei due, e il giovane afferma di non aver mai voluto andare contro la volontà della sua famiglia di vederlo assieme a una compagna tradizionale all'interno della comunità bramina.
"Non ne parlavamo perché avrebbe solo inasprito la nostra relazione", dice della sua amica. "Come amici, avevamo lo stesso status". In un'intervista, la madre della giovane donna rispose così a una domanda su un possibile matrimonio: "Non sappiamo cosa sarebbe potuto accadere in futuro". Il padre del giovane dice che l'argomento del matrimonio non era mai emerso, ma se il figlio li avesse davvero pregati, "ci avrebbero pensato su".
"BEVO IL LATTE OGNI GIORNO"
I due si incontrarono la prima volta nel dicembre 2010. Non fu esattamente un successo. Un amico comune aveva detto che il ragazzo avrebbe potuto aiutarla con gli studi Krishna Pokharel di, e le diede il suo numero. "Ciao, come stai?", scrisse lei in un sms. "Come va?". Lui pensò che fosse il loro amico in comune che lo prendeva in giro. "Lo so che sei tu, amico", rispose. "E' il tuo nuovo numero?".


"Non sono un ragazzo, sono una ragazza", rispose lei. L'amico comune intervenne per bloccare la confusione. Due mesi dopo, quando la ragazza si recò a Nuova Delhi dal suo college a Dehradun, a cinque ore di auto, lui andò a incontrarla per la prima volta alla stazione degli autobus. Si avvicinò alla persona che lui pensava di aver riconosciuto. Lei indossava un top rosso, una gonna blu e tacchi alti, ci racconta. Per rompere il ghiaccio, si avvicinò e disse: "Dove prendo l'autobus per Dehradun?".
Senza nemmeno alzare gli occhi, lei indicò un punto da qualche parte. Quindi lui dovette presentarsi. Dopo un pranzo da McDonald's e un tour pomeridiano all'antico Red Fort di Delhi, iniziavano un po' a conoscersi. "Le dissi che sono di Gorakhpur", una città nel nord dell'India, ci dice, ricordando quel giorno. "Che sono di una famiglia bramina. Ho due fratelli e tre sorelle. Sono molto vicino a mia madre. Mio padre è un avvocato. Prego Dio ogni giorno. Amo il buon cibo e mi piace andare al cinema. Bevo latte ogni giorno, e sono appassionato di orologi ne ho una bella collezione".
Sarebbe divenuta una bella amicizia, mentre lui trovava la sua strada a Nuova Delhi, dove si era trasferito nel 2006 dopo aver studiato ingegneria in un college tecnico. Tornato a casa a Gorakhpur, aveva fondato un gruppo che voleva concentrarsi sull'empowerment femminile e sui bambini. Ma la sua famiglia lo consigliò di "testare se stesso, prima di lavorare per gli altri," dice. Arrivò all'Hcl Infosystems, il suo attuale datore di lavoro, nel 2008.
"E' una persona professionalmente molto efficiente, tranquilla, molto responsabile e un gran lavoratore", dice il suo capo. L'amicizia cresceva, lui e la ragazza parlavano spesso al telefono. "Era per me l'amica con cui parlare tranquillamente del mio status finanziario e dei miei problemi famigliari", ci racconta. Lei lo chiamava "l'uomo perfetto". Iniziarono a viaggiare assieme per visitare i luoghi sacri. Il 10 maggio 2011, giorno del compleanno di lei, si incontrarono a Haridwar, un centro di pellegrinaggio hindu sul fiume Gange, a circa un'ora di strada da dove lei studiava.
Viaggiarono in tram fino ai templi sulle colline prima di vedere i devoti fare le loro abluzioni serali e pregare il fiume. A quel tempo, la sua famiglia aveva imparato a conoscere il ragazzo e ad apprezzarlo. Era l'amico con cui lei parlava più spesso, racconta la madre della ragazza. "Noi lo ritenevamo un gentiluomo", dice. "Era affidabile". Cinque mesi dopo, la coppia visitò Vaishno Devi, un altro luogo di pellegrinaggio sull'Himalaya.


"Faceva davvero freddo. Prendemmo lo Shalimar Express da Dehradun", racconta. Si arrampicarono per circa sette miglia fino al santuario, pregarono lì quella sera, e ridiscesero all'hotel la mattina seguente. "Comprammo delle medicine per le gambe, che ci facevano male", ci racconta, sorridendo teneramente a quel pensiero.
"Mi fece anche un trattamento fisioterapico alle gambe", dice, mimando un massaggio alla gamba. A marzo, andarono assieme a un santuario dedicato al guru spirituale indiano Sai Baba, nello stato del Maharashtra. Dopo pochi mesi, le diede alcuni libri motivazionali quando andarono a Rishikesh, un altro sito sacro hindu famoso anche per essere stato visitato dai Beatles nel 1968. L'ultimo regalo per lui fu una cravatta grigia. E' ancora impacchettata nel suo appartamento di Nuova Delhi. "Cercavo di fare cose che la facessero felice", racconta. "Perché così anche io ero felice".
Durante i loro viaggi, condividevano la stanza dell'hotel. Si tenevano per mano e si abbracciavano, racconta, ma non andarono mai oltre. "Per quanto riguardava la relazione uomo-donna, ho una visione conservatrice", afferma. Cantavano, scherzavano e giocavano a carte e scacchi. Pensava molto spesso a lei quando erano separati.
"DIDI, DOVE DEVI ANDARE?"
Quando si incontrarono il 16 dicembre, il giorno dell'aggressione, i due non si vedevano da molte settimane. "Era stato un giorno strano e noioso", dice. Quella sera, dopo aver visto il film "La Vita di Pi" in un centro commerciale, camminarono nei pressi di una fontana e fecero qualche foto. Lui voleva restare ancora un po', ma lei aveva fretta di andare a casa. Chiamarono un risciò fino a una fermata dove lei potesse prendere un autobus per andare a casa. C'era un autobus in attesa, e qualcuno dall'autobus esclamò: "Didi, dove devi andare?".
Didi significa sorella maggiore. Quello era l'imputato minorenne poi accusato del crimine, ci racconta il giovane. Prosegue dicendo che salirono sull'autobus e si sedettero nella seconda fila di sedili. La fila di fronte era occupata da due uomini che sembravano passeggeri, così come altri due seduti dall'altra parte del corridoio, dice. Le cose restarono tranquille per circa cinque minuti, disse, e iniziò a rilassarsi.
"Per oggi ok, ma non salire su questi autobus in futuro", ci racconta di aver raccomandato alla sua amica. Poco dopo tre uomini chiesero alla coppia cosa facessero l'uno all'altra di notte. E fu a quel punto, dice il giovane, che capì che erano in guai seri. Lui e la sua amica iniziarono a urlare. Lei tentò di chiamare la polizia, ma uno degli uomini agguantò il telefono, ci racconta. Iniziò a lottare con uno degli uomini, e sentì che qualcuno urlava: "Porta la spranga, porta la spranga!".
Lo colpirono più e più volte alla testa e alle gambe, ci racconta. Stordito e sanguinante, cadde a terra. La polizia ha accusato gli assalitori di aver usato una delle sbarre metalliche del portabagagli dell'autobus durante l'assalto. La trascinarono sul retro dell'autobus, dice. Le luci erano spente, e lui la udiva urlare e chiedere aiuto, ma era inchiodato a terra da uno o più uomini. La polizia sostiene che la ragazza subì uno stupro di gruppo e fu anche brutalizzata con una sbarra metallica. "Ripenso a quei momenti, ancora e ancora e ancora", afferma. "Solo un'ora prima tutto andava bene, e d'improvviso tutto era andato così tragicamente male". Alla fine sentì che dicevano: ‘E' morta, è morta'".
LA DIFESA DEGLI AVVOCATI
La coppia fu scaraventata fuori dall'autobus a lato di una superstrada, secondo quel che dicono il giovane e la polizia. I due erano stati denudati. La sua amica era ancora viva, e furono portati in ospedale. Un avvocato, che rappresenta l'autista dell'autobus, ha dichiarato che il suo cliente ha ammesso che è avvenuto uno stupro sul suo autobus, ma che rifiuta ogni accusa e si dichiara innocente.
Un avvocato di due degli accusati dichiara che i suoi clienti non erano nemmeno sull'autobus al momento dell'incidente. Un avvocato di un altro degli accusati dice che il suo cliente è stato torturato per fargli firmare una falsa confessione; la polizia ha rifiutato di commentare tali accuse. L'avvocato ha richiesto lo spostamento del processo fuori Nuova Delhi, sostenendo che il suo cliente non riceverà un processo equo in loco.
La Corte suprema ha rifiutato la richiesta giovedì. Anche l'avvocato del quinto accusato ha asserito che il suo cliente è innocente. Il padre della ragazza morta, parlando dei tentativi del giovane amico nella notte dell'aggressione, ha dichiarato: "Gli saremo eternamente grati". Se lui non fosse stato lì, dice, sua figlia sarebbe potuta sparire senza lasciare traccia.
"FECE IL GESTO DI ABBRACCIARMI"
Cinque giorni dopo, il giovane visitò la sua amica nell'unità di terapia intensiva dell'Ospedale Safdarjung di Delhi. Era stata picchiata e violentata in modo così selvaggio che gran parte del suo intestino era stato rimosso chirurgicamente. Racconta di averle chiesto scusa per aver permesso che la trascinassero via. Lei rispose che se solo fossero rimasti un po' di più alla fontana come lui desiderava, probabilmente avrebbero perso l'autobus.
Gli ricordò che erano passati esattamente due anni dal loro primo sms, e cercò di abbracciarlo, ma non poteva sollevarsi a causa di tutte le macchine che erano attaccate al suo corpo. "Fece il gesto di abbracciarmi", dice. Più tardi, fu trasferita a Singapore per essere curata. Il giovane racconta di aver appreso della sua morte dalla televisione. Oggi pensa a quel che avrebbe potuto essere fra loro due. "Avrei voluto stare con lei tutta la vita", ha detto recentemente in un'intervista. "Anche se questo avrebbe significato fare l'estremo passo di andare contro i desideri della mia famiglia".

In Family We Trust




«Il matrimonio, inteso come unione tra un uomo e una donna, non è un retaggio del passato, ma un’istituzione fondante e vitale della società civile attuale»: lo ricorda l’episcopato cattolico negli Stati Uniti in un documento presentato alla Corte Suprema.L’organo di giustizia di massima istanza nel Paese ha avviato, a seguito di una serie di ricorsi, l’esame del Defense of Marriage Act (Doma), la legge federale promulgata nel 1996 che tutela il matrimonio naturale. Oltre a questa, la Corte si pronuncerà sulla legge in vigore nello Stato della California, che non consente di legalizzare le unioni tra persone dello stesso sesso, sulla base di un referendum popolare (la cosiddetta Proposition 8) svoltosi nel novembre 2008. Il verdetto della Corte Suprema degli Stati Uniti è atteso entro giugno 2013. 
Il documento è presentato dall’organismo episcopale in qualità di amicus curiae. Offre una serie di considerazioni di valore religioso e morale per auspicare un pronunciamento dei giudici che ribadisca la tradizionale definizione di matrimonio, arginando in tal modo i tentativi in atto in vari Stati della federazione di legittimare unioni alternative a quella fra un uomo e una donna. Il Governo degli Stati Uniti ha da tempo deciso di non difendere più la costituzionalità del Doma di fronte ai tribunali e, di conseguenza, i ricorsi stanno aumentando. A muovere contestazione contro il Doma di fronte alla Corte Suprema è stata, fra gli altri, un’anziana donna dichiaratamente omosessuale, Edith Windsor, secondo la quale la legge federale sarebbe discriminatoria, non contemplando per esempio tutele giuridiche in materia di diritto ereditario a favore di persone non sposate.
Nel documento — a firma del consigliere generale Antonhy Picarello e del consigliere generale associato, Michael Moses, della Conferenza episcopale — si osserva che il caso in questione dell’anziana donna, che per anni è stata unita a una persona dello stesso sesso poi deceduta, riguarda «una scelta personale» che non comporta un pronunciamento della Corte che possa assumere una valore generale per tutta la popolazione. La questione, si sottolinea, «non può ragionevolmente essere definita come rientrante in un generale “diritto di sposarsi”». I consiglieri aggiungono che «il riconoscimento civile delle unioni tra persone dello stesso sesso non è profondamente radicato nella storia della e nella tradizione del Paese, ma piuttosto è vero il contrario». A tale riguardo, l’episcopato fa riferimento a sentenze della Corte Suprema nelle quali si descrive «il matrimonio come un diritto fondamentale considerato chiaramente come unione tra un uomo e una donna».
I vescovi degli Stati Uniti Uniti da lungo tempo mostrano preoccupazione per i tentativi di ridefinire il matrimonio. La questione dei “matrimoni” omosessuali è diventata terreno di accesi dibattiti nella società che spesso sfociano in referendum popolari: il Maine e il Maryland sono gli ultimi due Stati che si sono aggiunti a quelli favorevoli alla legittimazione delle unioni omosessuali, mentre sono, per ora, un quarantina quelli che ancora si oppongono. Su una questione fondamentale come quella del matrimonio, ha affermato in un intervento il cardinale arcivescovo di New York, Timothy Michael Dolan, i vescovi «non possono restare in silenzio». L’episcopato, pur ribadendo in varie occasioni il pieno rispetto per tutte le persone, aggiunge tuttavia che «nessun’altra unione è in grado di provvedere al bene comune come lo è, invece, il matrimonio tra un uomo e una donna».
Nel documento presentato alla Corte Suprema — nella parte relativa al referendum svoltosi in California che ha bloccato le unioni omosessuali — si fa anche riferimento alle conseguenze legali che comporterebbe la ridefinizione del matrimonio naturale. In sostanza, notano i consiglieri della Conferenza episcopale, «la ridefinizione del matrimonio, a livello costituzionale, non solo minaccia i principi del federalismo e della separazione dei poteri, ma avrebbe un impatto negativo diffuso su altri diritti costituzionali, come ad esempio, la libertà religiosa, di coscienza, di parola e di associazione». E aggiungono che per tale motivo «si accenderebbe un motore di conflitto che coinvolgerebbe i tribunali in una serie di controversie altrimenti evitabili».
La Corte di appello di San Francisco si era espressa in maniera contraria al divieto delle unioni omosessuali nello Stato della California nel febbraio 2012. La sentenza ha ribaltato di conseguenza la volontà espressa dalla maggioranza della popolazione della California con il referendum svoltosi nel 2008, attraverso il quale è stato introdotto nella Costituzione dello Stato il divieto dei “matrimoni” tra persone dello stesso sesso e ribadito il principio che essi costituiscono solo l’unione tra un uomo e una donna. Nell’occasione, il cardinale Dolan aveva affermato che «la sentenza del tribunale è una grave ingiustizia, che ignora la realtà che il matrimonio è l’unione fra un uomo e una donna». La Costituzione, ha puntualizzato il porporato, «non proibisce la protezione del significato perenne del matrimonio, uno dei fondamenti della società. La popolazione della California merita di meglio. La nazione merita di meglio. Il matrimonio merita di meglio».
L'Osservatore Romano, 1° febbraio 2013.

Culture giovanili emergenti 2


Alle ore 11.30 di questa mattina, nell’Aula Giovanni Paolo II della Sala Stampa della Santa Sede, ha avuto luogo la conferenza stampa di presentazione dell’Assemblea Plenaria annuale del Pontificio Consiglio della Cultura, che si svolgerà dal 6 al 9 febbraio sul tema Culture giovanili emergenti. Sono intervenuti il Card. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura; S.E. Mons. Carlos Alberto de Pinho Moreira Azevedo, Delegato del medesimo Pontificio Consiglio; Alessio Antonielli, un giovane di Firenze e Farasoa Mihaja Bemahazaka, studentessa originaria del Madagascar



Testo dell’intervento del cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura. Parto da un passo delle Fonti Francescane che ci fa capire quanto Francesco avesse a cuore i giovani e desiderava che i frati, oltre alla credibilità della propria persona, fossero in grado di proferire parole capaci di penetrare il cuore di molti uditori, e soprattutto dei giovani... Devo confessare che da ragazzo invidiavo i giornalai perché avevano a disposizione una gamma così vasta di fogli da leggere senza pagare nulla. Ebbene, tra i tanti indizi possibili di una metamorfosi generazionale ce n’è uno che riguarda proprio il rapporto con la carta stampata e che mi ha colpito già anni fa, quand’ero ancora a Milano, direttore della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana. Il Corriere della Sera patrocinava una grande mostra del Codice Atlantico di Leonardo da noi custodito e quindi ogni mattina lasciava in offerta gratuita una pigna di giornali. Giungevano i visitatori adulti e tutti si affrettavano a prenderne una copia. Giungevano anche gruppi di ragazzi delle medie superiori: ebbene, nessuno di loro si sognava di raccogliere quel quotidiano. A tutti è facile avere una controprova: basta salire al mattino su una metropolitana e verificare quanti studenti abbiano coi libri scolastici un giornale… Tempo fa un mio lettore mi ha scritto: «In un’intervista una volta Lei si è dichiarato culturalmente un eclettico. Ma ci sarà pure un campo di interessi che in questa fase storica considera fondamentale». La risposta è per me facile: la cultura giovanile (e lasciamo perdere le discussioni su questa formula che non vuole essere né censoria né da apartheid). Che sia avvenuto un salto generazionale lo si registra subito a livello di comunicazione. Già in partenza, infatti, mi accorgo che il loro udito è diverso dal mio: mi sono persino esposto all’ascolto di un CD di Amy Winehouse per averne la prova immediata. Eppure in quei testi così lacerati musicalmente e tematicamente emerge una domanda di senso comune a tutti. La loro lingua è diversa dalla mia, e non solo perché usano un decimo del mio vocabolario. I nostri ragazzi sono nativi digitali e la loro comunicazione ha adottato la semplificazione del twitter, la pittografia dei segni grafici del cellulare; al dialogo fatto di contatti diretti visivi, olfattivi e così via hanno sostituito il freddo “chattare” virtuale attraverso lo schermo. La logica informatica binaria del save o delete regola anche la loro morale che è sbrigativa: l’emozione immediata domina la volontà, l’impressione determina la regola, l’individualismo pragmatico è condizionato solo da eventuali mode di massa (si pensi al tatuaggio, alla movida notturna, alle gang, ai giochi estremi, all’estetica del “trasandato”, del trash e del graffito…). Il loro passeggiare per le strade con l’orecchio otturato dalla cuffia delle loro musiche segnala che sono “sconnessi” dall’insopportabile complessità sociale, politica, religiosa che abbiamo creato noi adulti. In un certo senso calano una visiera per autoescludersi anche perché noi li abbiamo esclusi con la nostra corruzione e incoerenza, col precariato, la disoccupazione, la marginalità. E qui dovrebbe affiorare un esame di coscienza nei genitori, nei maestri, nei preti, nella classe dirigente. La “diversità” dei giovani, infatti, non è solo negativa ma contiene semi sorprendenti di fecondità e autenticità. Pensiamo alla scelta per il volontariato da parte di un largo orizzonte di giovani, pensiamo alla loro passione per la musica, per lo sport, per l’amicizia, che è un modo per dirci che l’uomo non vive di solo pane; pensiamo alla loro originale spiritualità, sincerità, libertà nascosta sotto una coltre di apparente indifferenza. Per questi e tanti altri motivi mi interesso dei giovani che sono il presente (e non solo il futuro) dell’umanità; dei cinque miliardi di persone che vivono nei paesi in via di sviluppo più della metà sono minori di 25 anni (l’85% dei giovani di tutto il mondo). Ed è per questo che, abbandonando le pur necessarie analisi oggettive socio-psicologiche sulla fede nei giovani, ossia sul senso della presenza religiosa in essi, preferirei puntare sulla fede nei giovani, cioè sulla fiducia nelle loro potenzialità, pur sepolte sotto quelle differenze che a prima vista mi impressionano. «Tutti – scriveva Henri Duvernois – dobbiamo avere una gioventù; poco importa l’età nella quale si decide di essere giovani”.

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INTERVENTO DI ALESSIO ANTONIELLI

Innanzitutto grazie al Cardinal Ravasi e agli amici del Pontificio Consiglio per la Cultura e a voi tutti per questa opportunità che mi avete dato e che offrite ai giovani di poter parlare in questa sede importante. La sento come una grande responsabilità che mi viene affidata. Quando mi è stato chiesto di partecipare a questo tavolo mi sono subito domandato cosa potessi volere io, in qualità giovane, dalla Chiesa. Volendo essere onesto con me stesso e con i miei coetanei ho pensato che i giovani, o buona parte di essi, probabilmente non vogliono niente dalla Chiesa, ma chiedono qualcosa alla vita, sta poi alla Chiesa intercettare le esigenze dei giovani, i bisogni esistenziali più profondi, cercando di tradurre il proprio messaggio per renderlo comprensibile alle nuove generazioni e divulgandolo attraverso le piazze multimediali con una massiccia presenza.
Nei prossimi giorni il Pontificio Consiglio con i suoi membri discuterà della Fede nei giovani, o meglio nelle culture giovanili, al plurale. Già questa mi è sembrata una scelta saggia dove i giovani non sono bollati o etichettati come tali e quindi messi tutti dentro un grande calderone.
E non avrò di certo io la pretesa di parlare a nome di tutti, in particolare di ragazzi che si trovano a migliaia di chilometri da dove sono sempre vissuto, con una cultura, esigenze, esperienze totalmente differenti dalle mie. Penso ad esempio ai ragazzi che sono in Africa, nei paesi in via di sviluppo, o in Asia dove vivono in metropoli con decine di milioni di abitanti. Tuttavia, se questo mi allontana da loro, sono certo che una cosa ci unisce tutti e lega ogni cultura ed ogni generazione: è la domanda fondamentale sull’esistenza.
Tutti quanti ci troviamo o ci siamo trovati a tu per tu con la vita e con la morte. L’ "essere per la morte", per utilizzare un’espressione di un filosofo a me caro come Martin Heidegger, è un orizzonte imprescindibile della nostra esistenza, è un esistenziale, e prima o poi tutti ci facciamo i conti. A questo problema la Chiesa da una risposta da duemila anni.
Cosa è cambiato? Sicuramente in occidente è cambiato il rapporto che abbiamo con il mondo, è subentrata la tecnica e, in particolare nel mondo dei giovani, è entrata la tecnologia, la smartTV in 3D, internet, gli smartphone, il peer to peer, la realtà aumentata, i navigatori, la Wi-Fi, Bluetooth, i social network ecc… Si sta vivendo il momento più frenetico che l’umanità abbia mai conosciuto. Siamo in quello scenario che i futuristi avevano solo ipotizzato. Miliardi di informazioni raggiungono costantemente ogni individuo in qualunque parte del mondo si trovi. Ogni ragazzo ha a disposizione in uno schermo di 4 pollici la più grande enciclopedia mai realizzata. Parlare e vedere un amico che si trova dall’altra parte del mondo, mentre si cerca il nome di un film su internet e si commenta insieme la foto di un altro, è diventato tanto facile quanto gratuito. Siamo diventati si direbbe oggi multitasking. In un mondo come questo le immagini passano in un flusso costante di fronte agli occhi di chi vuole o non vuole vederle. La velocità e il "PRESSAPPOCHISMO" sono diventate la cifra fondamentale della cultura che ci circonda.
In uno scenario del genere, che ruolo ha la Chiesa? Nella società liquida, nel fiume in piena di informazioni che arrivano, o la chiesa impara a nuotare oppure affoga.
Chiunque e in particolare i giovani che vivono da nativi questo "ecosistema digitale" - seppur immersi in un habitat - non sono esenti dalla domanda fondamentale sull’esistenza: sono probabilmente solo più distratti, più INDIFFERENTI a quelle che sono le questioni che la Chiesa pone. E proprio l’INDIFFERENZA credo sia il problema più cogente che oggi ha la Chiesa, spostare lo sguardo dal fugace, dall’effimero a ciò che è sostanziale e fondamentale per l’uomo. Il Cardinal Gianfranco Ravasi ed il Pontificio Consiglio per la Cultura con il Cortile dei Gentili stanno facendo sicuramente un ottimo lavoro da questo punto di vista e so che hanno intrapreso e stanno battendo proprio questa strada, come hanno poi sottolineato, oramai due anni fa, a Bologna all’apertura del ciclo di decine di conferenze che si sono succedute in tutto il mondo in questi anni. Sicuramente questa è una strada da percorrere, ma non basta. Per poter combattere l’indifferenza c’è bisogno di INTERCETTARE le esigenze che i giovani hanno. Come si diceva pocanzi ognuno, nella propria vita, ha bisogno di fermarsi un attimo, di riflettere sul senso delle proprie azioni per non arrivare in apnea fino all’altro bordo della vasca senza mai tirare fuori la testa dall’acqua. In questi momenti, essenziali e inevitabili della vita dell’uomo, i ragazzi si orientano. Io, ad esempio, ho scelto dopo un anno di architettura di studiare filosofia per il bisogno esistenziale di risposte a domande di senso che, probabilmente, non ho trovato. Mio padre mi avvertiva, anche lui incauto studente di filosofia, che non avrei trovato risposte ma solo altre domande. Forse è vero, è quello che è successo, ma questa è la nostra natura, la natura dell’uomo. Quello che voglio dirvi è questo: io in quel momento non sono stato intercettato dal messaggio della Chiesa.
E per quale motivo? Io credo che il linguaggio della Chiesa debba essere da un lato moltiplicato esponenzialmente, dall’altro debba essere TRADOTTO. E se è vero che il modo e il mezzo con cui una cosa viene detta ne cambia il contenuto, mai come adesso c’è bisogno di mettere mano al vocabolario.
Non dovete fare l’errore di stare su twitter per scrivere in 140 caratteri solo per il fatto che i giovani lo fanno, perché Cristo: "ama il tuo prossimo come te stesso", lo avrebbe scritto in molti meno caratteri e lo ha detto più di duemila anni fa. Quello che penso dobbiate fare è di usare questi 140 caratteri per fare quello che avete sempre fatto, per moltiplicare questo messaggio in milioni di modi diversi, per essere presenti, per comunicare in modo massiccio il messaggio della Chiesa; una cosa, tra l’altro, che vi è sempre riuscita: non a caso la bibbia è il libro più venduto al mondo. Fino a 50 anni fa la Chiesa era presente in modo considerevole nella comunità e quindi tra i giovani. La socialità si sviluppava intorno alla chiesa, la parrocchia era ancora la parà oikìa - dove appunto la vita della comunità si svolgeva per buona parte intorno alla casa del Signore - c’erano le feste paesane, l’azione cattolica, si andava in colonia con il prete, c’era il cineforum, il catechismo e le chiese si trovavano tutte nella piazza principale dove potevano far sentire il suono delle campane. Oggi il luogo della presenza, la piazza, si è spostato.
Si dice sempre che c’è bisogno di qualità e non di quantità, questo forse una volta, oggi invece è necessaria la QUANTITÀ, di qualità la Chiesa è piena, sono duemila anni che ragiona sempre sulle stesse cose… Sono stati scritti migliaia e migliaia di libri, il problema è che nessuno li legge. Se oggi non si è presenti in certi canali è come se non si esistesse. Se è vero che il cervello è una spugna che assorbe impulsi e informazioni e, di questi centinaia di migliaia che oggi ci vengono proposti la religione ne occupa solo una minima parte, anche se portatrice di un importante messaggio non verrà ascoltata, la parola rimarrà muta.
Ancora più urgente credo sia tradurre questo messaggio, attraverso la coerenza, mediante la testimonianza di vita, con un ragionamento razionale che possa arrivare alle persone in modo semplice e veloce da una parte, profondo e COMPRENSIBILE dall’altra. Io per cercare di rendermi intellegibili alcuni dei principi fondamentali della Chiesa mi sono dovuto leggere sant’Agostino e san Tommaso, leggere Platone e Aristotele, Hegel e Gadamer… ma quanti come me lo faranno? L’indifferenza come abbiamo detto sta alla base del problema se non si vuole arrivare a toccare l’altro lato della vasca in un sol fiato. Dall’altra, la TRADUZIONE diventa un momento imprescindibile, complementare, se si vuole intercettare le esigenze dei giovani. Io, come tanti miei amici e coetanei, se non vado a messa tutte le domeniche è perché il "predicozzo" del prete non mi dice niente, non mi si addice, non parla il mio linguaggio.
Un’etichetta che non mi è mai piaciuta è quella di "credente o non credente", come diceva Norberto Bobbio: "la differenza rilevante per me non passa tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti". E lavorando con i francescani mi sono imbattuto diverse volte in chi me lo chiedeva. In quei momenti ti sembra quasi di stare allo stadio: per chi tifi? Credo che una domanda così profonda abbia bisogno di una risposta altrettanto complessa se viene posta veramente, tanto complessa quanto lo è la vita. Gli ermeneuti, nel Novecento, avevano questo modo di scrivere trattando di argomenti fondamentali, parlavano e riparlavano per pagine e pagine sempre della stessa cosa, girando intorno al problema, con continue definizioni che mettevano sistematicamente di nuovo in discussione, percorrendo ogni volta strade diverse e allargando di volta in volta l’orizzonte e la consapevolezza che si poteva avere del problema. Quando approdai al Sacro Convento e iniziai a lavorare alla comunicazione dei francescani nessuno, e sottolineo nessuno, mi chiese se fossi credente o non credente. Sono sicuro che mi posi prima io il problema che loro. Avevo più pregiudizi io su me stesso che i frati. Solo dopo un po’ di tempo ho capito che il fatto di venire da un mondo laico che si pone delle domande e pone delle questioni alla Chiesa, avrebbe solo potuto arricchire il punto di vista della loro comunicazione, andando a creare quell’osmosi che intercettava le esigenze di coloro che sono fuori dai soliti canali ai quali finora si erano rivolti.
Il mio compito è stato quello di provare ad esprimere le esigenze dettate dal mondo in cui una generazione come la mia sta crescendo, quella dei nativi digitali. Quando avevo 8 anni mia madre mi comprò uno dei primi computer e una delle prime consolle e, a 15 anni, avevo già internet a casa, da allora sono passati quasi 15 anni e in questi 15 anni è cambiato il mondo in modo incredibilmente veloce. Con questo non voglio dire che quello che è stato fatto debba esser accantonato, ma sicuramente ripensato e integrato nel loro naturale sviluppo.
La Chiesa oggi rischia sicuramente di incidere poco perché i giovani non si fanno più le domande, ma vogliono comunque le risposte in un click. Non so quale sia la soluzione, questa dovete trovarla voi, questo è lo scopo della plenaria… In bocca al lupo…

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INTERVENTO DI FARASOA MIHAJA BEMAHAZAKA

Forme di partecipazione, creatività e volontariato

Sono Fara Bemahazaka, vengo dal Madagascar e sono studentessa presso la Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Firenze.
La popolazione del mio Paese è composta in prevalenza da giovani, i quali non riescono a trovare facilmente la loro identità e ad essere protagonisti della propria vita e di quella del Paese.
L’Africa, anche se in questo momento è ferita e divisa, avrebbe tanto da dare al mondo: una forte accoglienza, l’apertura al trascendente che accomuna le varie culture del Continente, il desiderio di appartenenza ad un gruppo attivo pronto a servire e non ad essere servito.
Come tanti giovani vorrei realizzare qualcosa di grande nella mia vita. In particolare, desidero tradurre la spiritualità ed i valori della Fede cristiana in azioni per il bene della mia gente, pronta ad offrire la mia vita per salvare altri giovani che si stanno perdendo.
La frequentazione del Centro Studenti Diocesano Internazionale "Giorgio La Pira", dove ho svolto un anno di servizio civile volontario, mi ha permesso di incontrare giovani studenti di diversi Paesi e culture, molti dei quali segnati dal peso dell’emigrazione forzata. Ho capito che l’Accoglienza, espressione della cultura africana, è anche tratto tipico dell’umanità.
Come studentessa, insieme ad altri giovani africani, mi sono sentita spinta a unire le forze migliori dell’Africa. Per questo abbiamo promosso l’Associazione degli Studenti Africani a Firenze, andando oltre le divisioni tribali o nazionali, facendo emergere la bellezza e l’unità culturale africana. Il nostro impegno di partecipazione alla vita studentesca è per noi una esperienza di volontariato, di dono gratuito.
Noi giovani non possiamo impegnarci per portare solo dei rimedi provvisori, ma per riuscire a risolvere i problemi possibilmente alla radice. Bisogna entrare nel vivo della società, pronti ad intervenire là dove si manifestano le sofferenze più acute.
Con i "Giovani per un Mondo Unito" di tutto il mondo mi sforzo di realizzare progetti di fraternità e mi impegno a dare visibilità al Bene che avanza: ci aspettiamo che il mondo si convinca che è chiamato all’unità, come Gesù ha annunciato.

6 lezioni dalla morte






Di Michael Cook.
Ti guardano con lieve distacco,
 non aggressivo, non amichevole, non felice, non triste. Solo distaccato. Due belgi di mezza età con la testa rasata, la barba incolta e occhiali ovali bordati di scuro. L’orecchio sinistro dell’uomo sulla destra sporge di un angolo più acuto. Ma per il resto le due facce sono una stessa faccia. Erano i volti dei due gemelli identici quarantacinquenni, Marc e Eddy Verbessem.

Due settimane prima di Natale un medico li ha eutanasizzati all’Ospedale dell’Università di Bruxelles. È stata una procedura perfettamente legale. Tutti i riquadri erano stati compilati e tutti i documenti firmati. I due uomini erano sordi e stavano lentamente diventando ciechi. Non avevano nulla per cui vivere. Dicevano.
Ma quasi tutti hanno pensato che ci fosse qualcosa di disumano e freddo in una società che ha tradito questi uomini semplici quando potevano vedere, e li ha uccisi quando non potevano.
Come caso paradigmatico di eutanasia belga, vale la pena esaminare com’è avvenuto e che cosa rivela di un diritto legalizzato a morire.
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Marc e Eddy Verbessem sono nati sordi. Non si sono mai sposati e vivevano insieme, lavoravano come calzolai. Quando hanno scoperto che avevano un’altra malattia congenita, una forma di glaucoma, hanno chiesto l’eutanasia. Non potevano sopportare l’idea di non vedersi più.
Secondo il loro medico di famiglia, David Dufour, avevano anche altri problemi di salute, incluso un debilitante mal di schiena. “Tutto quanto insieme rendeva la vita insopportabile” ha detto al London Telegraph.
La loro famiglia si è opposta alla loro decisione. E così ha fatto l’ospedale locale. Ci sono voluti quasi due anni per trovare un medico disposto a somministrare una iniezione letale secondo la legge sull’eutanasia in Belgio. È stato il professor Wim Distlemans, noto attivista pro-eutanasia. Sembra orgoglioso di aver svolto un ruolo chiave nella “prima volta al mondo che una ‘doppia eutanasia’ è stata eseguita su fratelli”.
Il 14 dicembre, vestiti di abiti e scarpe nuove, accompagnati a malincuore dal loro fratello e dai loro genitori, sono arrivati ​​per il loro appuntamento con il professor Distlemans. Il dottor Dufour ha descritto i loro momenti finali ai mass-media: “Erano molto felici. È stato un sollievo vedere la fine delle loro sofferenze. Hanno bevuto una tazza di caffè nel salone, è andata bene e [hanno avuto] una ricca conversazione. La separazione dai loro genitori e dal fratello è stata molto serena e bella. Alla fine c’è stato un piccolo ondeggiamento delle loro mani e poi se ne sono andati”.
Ma una foglia di fico di viscide parole non può nascondere il fatto che i gemelli sono stati uccisi dal loro medico curante. Anche i sostenitori dell’eutanasia si sono sentiti a disagio.
Lezione numero uno: il cerchio si espande. Secondo la legge belga l’eutanasia è consentita se “il paziente è in una condizione medicalmente inutile di sofferenza fisica o psichica costante e insopportabile che non può essere alleviata, derivante da un disturbo grave e incurabile causato da malattia o incidente”.
Ma i fratelli Verbessem non erano malati terminali. Un medico del loro ospedale locale ha detto: “Io non credo che questo sia ciò che la normativa intendesse per ‘sofferenze insopportabili’”. Il professor Distlemans è stato disinvolto: “Un medico valuterà in modo diverso rispetto ad un altro.”
In un’intervista via email, Jacqueline Herremans, presidente della “Associazione del Belgio per il diritto di morire con dignità”, mi ha detto che l’eutanasia dovrebbe essere resa disponibile per molte più persone:
Quando abbiamo aperto la discussione quasi 15 anni fa, il primo pensiero è stato per le persone affette da tumori incurabili. Ed è ancora il cancro all’origine di quasi l’80% dei casi di eutanasia. Ma dobbiamo ammettere che la sofferenza può esistere in altre circostanze. La sclerosi multipla, la SLA, il morbo di Parkinson sono casi chiari. Ma che dire riguardo ai disturbi psichiatrici, senza alcuna possibilità di cura? Che dire riguardo a persone che invecchiano con diverse patologie mediche che perdono la loro autonomia e non vedono più alcun senso alla loro vita, sapendo che domani sarà peggio di oggi? Che dire dei malati di Alzheimer?
Lezione numero due: i medici orientati all’eutanasia preferiscono morti facili a un complicato lavoro sociale. I problemi di Marc e Eddy Verbessem erano complessi. Erano timidi e riservati. Presto sarebbero stati non solo sordi, ma sordi e ciechi. È stato difficile per i medici comunicare con loro. Il modo più semplice per risolvere i loro problemi sociali, è stato quello di por loro fine per sempre.
Tuttavia, come le comunità sorde hanno sottolineato, essere sordi e ciechi non è una condanna a morte. Dopo tutto, la più famosa persona sordocieca americana, Helen Keller, ha girato il mondo, ha scritto libri e diventò un’ardente propagandista del socialismo.
Infatti, un attivista canadese sordocieco era sbalordito: “Mi chiedo se i gemelli sordociechi Verbessem conoscessero… gli insegnamenti disponibili, la comunità di sordociechi in Belgio attorno a loro, gli strumenti da acquisire a loro disposizione in modo che la loro paura di diventare ciechi fosse placata con loro stesso stupore e sollievo”. Così ha scritto Coco Roschaert sul suo blog.
Più precisamente: i medici che li hanno eutanasizzati li conoscevano? Ci hanno pensato?
Lezione numero tre: le misure di garanzia sono destinate ad essere scavalcate. I sostenitori dell’eutanasia legalizzata insistono sul fatto che le garanzie previste dalla legislazione restringono l’eutanasia ai casi più difficili. In realtà, sta diventando sempre più facile essere sottoposti a eutanasia in Belgio. Un rapporto pubblicato alla fine dell’anno scorso dall’Istituto Europeo di Bioetica con sede a Bruxelles ha sostenuto che l’eutanasia è in corso di “banalizzazione”, e che la legge viene monitorata da un cane da guardia senza denti. Dopo 10 anni di eutanasia legalizzata e circa 5500 casi, non è mai stato riportato alla polizia neanche un caso.
Il caso del gemelli Verbessem mostra anche che la procedura è tutt’altro che trasparente. Se un detenuto muore in carcere, tutti i dati vengono messi a disposizione del pubblico. Se un paziente viene sottoposto a eutanasia, il pubblico potrebbe anche non scoprire mai che questo è avvenuto. Per esempio, poco si sa riguardo la salute dei gemelli, come hanno comunicato con i medici che li hanno uccisi, se il loro sostegno sociale fosse adeguato, il motivo per cui un altro ospedale aveva respinto la loro richiesta, quanta assistenza psicologica abbiano ricevuto.
I medici con ingenuità – o si tratta di arroganza? – vogliono che la gente sappia il meno possibile. “Sono stato molto sorpreso dal fatto che vi sia tanto interesse e discussione su questo” ha detto il dottor Dufour.
Lezione quattro: se sei disabile, sei nei guai. Il professore Chris Gastmans, dell’Università Cattolica di Lovanio, ha criticato le morti come una risposta impoverita alla disabilità. “È questa l’unica risposta umana che possiamo offrire in queste situazioni? Mi sento a disagio qui come studioso di etica. Oggi sembra che l’eutanasia sia l’unico modo giusto di porre fine alla vita. E penso che non sia una buona cosa. In una società ricca come la nostra, dobbiamo trovare un altro modo, un modo premuroso di trattare la fragilità umana.”
Lezione cinque: l’eutanasia compassionevole ha un cartellino con il prezzo. Sia Eddy che Marc hanno dovuto pagare 180 euro a testa per trasportare i loro corpi a casa. Questo macabro dettaglio non dovrebbe sorprenderci. Anche la Cina fa pagare le famiglie delle persone giustiziate. Si chiama tassa del proiettile.
Lezione sei: non sono stati eutanasizzati abbastanza belgi, ma il governo ha un piano. Nel 2011, l’ultimo anno per cui sono disponibili statistiche ufficiali, 1133 persone sono state sottoposte ad eutanasia in Belgio. Pochi giorni dopo la morte dei fratelli Verbessem, il governo ha annunciato che avrebbe modificato la legge per permettere anche ai minori e alle persone affette da demenza di essere sottoposti a eutanasia.
Michael Cook è redattore di MercatorNet. Questo articolo è stato tradotto e qui pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.