giovedì 28 febbraio 2013

Con Pietro, aspettando Pietro


 <br>

"Sono semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo pellegrinaggio in questa terra".

 Dalle ore 20.00 di oggi, giovedì 28 febbraio 2013, come ha stabilito l'ex Romano Pontefice Benedetto XVI (Successore di San Pietro numero 265), nel suo atto di rinuncia lo scorso 11 febbraio, la Chiesa Cattolica si trova in situazione di "Sede vacante", vale a dire senza il Vicario di Cristo e Successore di San Pietro.
San Giovanni in Laterano, sede vacante. Anche se non si ricorda spesso in realtà la Sede vacante è quella del Vescovo di Roma, dunque San Giovanni in Laterano, la chiesa Cattedrale di Roma. La Sede Apostolica vacante è la definizione giuridica del periodo di tempo tra la morte o la rinuncia di un Pontefice e l'elezione del suo Successore, quando il trono di San Pietro resta vuoto. Il governo della Chiesa, per gli affari ordinari, in questo periodo di tempo è affidato al Collegio cardinalizio. La "Universi Dominici Gregis" stabilisce però che "durante la vacanza della Sede Apostolica, il Collegio dei Cardinali non ha nessuna potestà o giurisdizione sulle questioni spettanti al Sommo Pontefice".
Saranno i cardinali elettori i responsabili di eleggere, in un Conclave la cui data di apertura sarà stabilita nei prossimi giorni, il nuovo Papa secondo le norme stabilite da Giovanni Paolo II nella Costituzione "Universi Dominici Gregis", modificata parzialmente da Benedetto XVI con un Motu Proprio, pubblicato il 25 febbraio scorso. L'11 giugno 2007, Benedetto XVI aveva già però introdotto una specifica modifica alla Costituzione di Giovanni Paolo II ripristinando la norma tradizionale circa la maggioranza richiesta nell’elezione del Sommo Pontefice.
L'ultimo atto del Pontificato di Benedetto XVI, com'era ampiamente saputo, si è consumato in privato, pochi minuti fa, nella sua residenza temporanea nelle Ville Pontificie di Castel Gandolfo e, così com'era stato preannunciato, l'unico atto visibile di questo storico momento si è reso evidente con il ritiro, dal portone del Palazzo Apostolico, delle due Guardie svizzere preposte al loro compito solo in presenza del Papa.
 In orante attesa del Successore di San Pietro numero 266...

<br> 



 

La Storia in diretta



  
Ultimo tweet di Benedetto XVI: Grazie per il vostro amore e il vostro sostegno. Possiate sperimentare sempre la gioia di mettere Cristo al centro della vostra vita. (28 febbraio 2013)

* * *
Di seguito le parole del Papa all'arrivo a Castel Gandolfo.

Cari amici, sono felice di essere con voi. Grazie per la vostra amizia e per il vostro affetto. Questo è per me un giorno diverso. Fino alle 20 sono il Papa. Dopo sarò un pellegrino che fa l'ultima tappa del suo pellegrinaggio in terra. Con il mio cuore, preghiera e riflessione vorrei lavorare per il bene comune e per l'umanità. Lo voglio fare per il bene della Chiesa e del mondo. Grazie a tutti.
 * * *

È finito. Il lungo addio al pontificato di Benedetto XVI si è concluso con diversi momenti, uno più commovente dell’altro, come fotogrammi di un film che resterà per sempre nella nostra memoria. Prima di volare a Castelgandolfo, Papa Ratzinger ha salutato i cardinali con un ultimo breve ma grande discorso sulla Chiesa.

L’incontro con i cardinali si era aperto, ancora una volta, con un accenno «apocalittico» - una parola, ricordiamolo sempre, che per i cattolici non ha niente a che fare con improbabili previsioni di date per la fine del mondo –, quando il cardinale Sodano aveva ricordato che il Papato durerà fino alla fine dei tempi, ma i tempi non dureranno per sempre. Dureranno «fino a quando si udirà sulla terra la voce dell'Angelo dell'Apocalisse che proclamerà: "Tempus non erit amplius ... consummabitur mysterium Dei" (Ap 10, 6-7) - "il tempo ormai non c'è più .: è compiuto il mistero di Dio!". Terminerà così la storia della Chiesa, insieme alla storia del mondo».

Poi, l’ultima lezione di Benedetto XVI. Il Papa ha ricordato, come aveva fatto nell’ultima udienza generale, che «in questi otto anni, abbiamo vissuto con fede momenti bellissimi di luce radiosa nel cammino della Chiesa, assieme a momenti in cui qualche nube si è addensata nel cielo». Ma l’essenziale non è nella qualità dei momenti, luminosi o grigi. «Abbiamo cercato di servire Cristo e la sua Chiesa con amore profondo e totale, che è l’anima del nostro ministero. Abbiamo donato speranza, quella che ci viene da Cristo, che solo può illuminare il cammino». Non comprende che cos’è la Chiesa chi non intende come tutto venga da Cristo.

Una visione «alta», che non nasconde i problemi. Il Pontefice ha ribadito il suo no alle divisioni e ha chiesto, con una delle sue predilette metafore musicali, «che il Collegio dei Cardinali sia come un’orchestra, dove le diversità – espressione della Chiesa universale – concorrano sempre alla superiore e concorde armonia».

La Chiesa dovrebbe costituire per i cardinali «la ragione e la passione della vita». Ma siamo certi, tutti, di capire che cos’è la Chiesa? Benedetto XVI si è fatto «guidare da un’espressione di Romano Guardini [1885-1968], scritta proprio nell’anno in cui i Padri del Concilio Vaticano II approvavano la Costituzione Lumen Gentium, nel suo ultimo libro, con una dedica personale anche per me; perciò le parole di questo libro mi sono particolarmente care». Il riferimento a Guardini, e insieme alla Lumen Gentium, è molto significativo. Non è la prima volta che il Papa cita questo pensatore italo-tedesco inviso per diverse ragioni ai progressisti e agli ultra-conservatori, a tutti coloro che rifiutano l’interpretazione del Concilio Vaticano II come «riforma nella continuità» che è il principale legato teologico di Papa Ratzinger e che chiede sia la leale accettazione delle riforme sia la loro interpretazione in continuità con il Magistero precedente.

Non a caso, negli ultimi giorni si è levata a colpire ancora una volta Benedetto XVI la voce sia di chi rifiuta la continuità – come Hans Küng – sia di chi rifiuta le riforme, come la Fraternità San Pio X fondata da monsignor Marcel Lefebvre (1905-1991). Quest’ultima, ancora negli ultimi giorni, sul suo sito italiano, ha attaccato Papa Ratzinger come «latore di un Papato privato di senso» e addirittura come uomo «senza una chiara percezione della dignità del Papato»: sempre, naturalmente, citando la presunta «demolizione teologica» che il Vaticano II avrebbe attuato e a cui Benedetto XVI avrebbe dato il suo contributo di colpi di piccone.
Ecco dunque Benedetto XVI tornare a Guardini, un teologo così lontano dalle fughe in indietro come dalle fughe in avanti. La Chiesa –  nelle parole di Guardini citate da Papa Ratzinger – «non è un’istituzione escogitata e costruita a tavolino…, ma una realtà vivente… Essa vive lungo il corso del tempo, in divenire, come ogni essere vivente, trasformandosi… Eppure nella sua natura rimane sempre la stessa, e il suo cuore è Cristo». La Chiesa nella storia «diviene» e si trasforma come tutti gli organismi viventi: ecco la riforma. Ma nello stesso tempo rimane la stessa: ecco la continuità. E riforma e continuità stanno insieme solo se il cuore della Chiesa è e resta Gesù Cristo.

Lo abbiamo visto, ha detto Benedetto XVI, nella folla dell’ultimo mercoledì in Piazza San Pietro: lì si è potuto davvero «vedere che la Chiesa è un corpo vivo, animato dallo Spirito Santo e vive realmente dalla forza di Dio. Essa è nel mondo, ma non è del mondo: è di Dio, di Cristo, dello Spirito. Lo abbiamo visto ieri. Per questo è vera ed eloquente anche l’altra famosa espressione di Guardini: “La Chiesa si risveglia nelle anime”».

Qui torna l’ammonimento contro chi riduce la Chiesa al piccolo calcolo mondano, e tratta il Conclave come se fosse la scelta di un presidente del Consiglio in Italia. No, la Chiesa è un’altra cosa. «La Chiesa vive, cresce e si risveglia nelle anime, che - come la Vergine Maria - accolgono la Parola di Dio e la concepiscono per opera dello Spirito Santo; offrono a Dio la propria carne e, proprio nella loro povertà e umiltà, diventano capaci di generare Cristo oggi nel mondo. Attraverso la Chiesa, il Mistero dell’Incarnazione rimane presente per sempre. Cristo continua a camminare attraverso i tempi e tutti i luoghi».

E questo mistero toglie ogni preoccupazione, e permette a Papa Ratzinger di tornare alla sua parola preferita, «gioia», di cui ricorderemo sempre con affetto la pronuncia così tipicamente tedesca. «Questa è la nostra gioia, che nessuno ci può togliere».

E solo così si capisce il pensiero – non «politico» ma soprannaturale – per il Conclave e il prossimo pontificato. «Continuerò ad esservi vicino con la preghiera, specialmente nei prossimi giorni, affinché siate pienamente docili all’azione dello Spirito Santo nell’elezione del nuovo Papa. Che il Signore vi mostri quello che è voluto da Lui. E tra voi, tra il Collegio Cardinalizio, c’è anche il futuro Papa al quale già oggi prometto la mia incondizionata reverenza ed obbedienza». (M. Introvigne)

In modo nuovo


Una croce 


Il Presidente della Repubblica esprime il saluto riconoscente e affettuoso degli italiani al Pontefice che lascia il soglio pontificio ma non Roma.
Rinnovo a Benedetto XVI — nel momento conclusivo del suo mandato — il saluto riconoscente e affettuoso degli italiani. Ho sentito e sento di poterlo fare a nome del popolo e della nazione, che questo Pontefice non italiano ha sinceramente amato, e ha accompagnato con costante simpatia e benevolenza. Anche i più lontani dalla Chiesa e dalla pratica religiosa hanno apprezzato l’elevatezza della ricerca e degli apporti di pensiero di Benedetto XVI, e insieme la sua semplicità e la sua discrezione. Gli anni del suo pontificato sono stati tra i più sereni nei rapporti tra la Chiesa e lo Stato nel nostro Paese: nel segno del rispetto reciproco e della volontà di collaborazione. La dimensione sociale e pubblica — per comune riconoscimento — del fatto religioso, è stata in questi anni sempre vissuta col giusto senso del limite.
Sabato scorso, il mio personale commiato da Benedetto XVI è stato segnato da un’intima commozione. Perché fin dalla mia iniziale visita di Stato in Vaticano e dalla sua, in restituzione, al Quirinale, si era stabilito tra noi un senso di affinità che ci spingeva ad andare al di là di ogni ufficialità e formalità. Non potevo tuttavia prevedere il livello di attenzione e confidenza cui sarebbero giunti il rapporto e gli incontri tra noi.
Ne ho, così, potuto cogliere la sofferenza e il travaglio in momenti difficili e amari per la Chiesa; e la serena determinazione nell’affrontare le prove che gli si presentavano.
E abbiamo avuto modo di verificare una schietta comunanza di preoccupazioni e di vedute sui fatti dell’Europa e del mondo. Gli sono grato per la stima e fiducia che mi ha dimostrato, e per la così sensibile sintonia in cui egli si è posto col mio fondamentale impegno per l’unità nazionale.
Benedetto XVI lascia — con un gesto di straordinario significato storico e umano — il soglio pontificio, ma non Roma. Non si allontana dall’Italia. E noi continueremo a sentirlo vicino, e ad essergli vicini con animo beneaugurante.
L'Osservatore Romano, 1° marzo 2013.

* * *

 In modo nuovo

Una straordinaria e commovente udienza generale e l’incontro con i cardinali sono stati gli ultimi grandi momenti pubblici del pontificato di Benedetto XVI. Un pontificato che, per la prima volta nella storia, si conclude quietamente, senza il dramma della morte del vescovo di Roma, senza i rivolgimenti che hanno portato alle rinunce papali del passato, così lontane nel tempo e così diverse da non potere essere considerate reali precedenti. Ora, in un «modo nuovo» il Romano Pontefice resta accanto al Signore in croce, mai abbandonato nel corso di una vita lunga e straordinariamente fruttuosa. Che si apre, da oggi più di prima, allo spazio riservato alla preghiera e alla meditazione.
Sì, Benedetto resta nella Chiesa, vicino al successore di Pietro che sarà scelto dai cardinali. Un gruppo di uomini, certo, ma che in modo misterioso è vivificato dal soffio dello Spirito ed è motivato da un senso di responsabilità unico, che il collegio ha dimostrato di sapere onorare, come la storia dimostra, soprattutto dalla fine del Settecento. Per questo Joseph Ratzinger è in qualche modo tornato alla sua elezione, incontrando nell’ultimo giorno del pontificato quel collegio — mai così numeroso prima di allora — che il 19 aprile 2005 l’ha votato in poche ore, anche se lui non aveva in alcun modo cercato il papato. «La Chiesa non muore mai» scriveva nel medioevo il teologo Egidio Romano, teorizzando che «durante la vacanza della sede la potestà papale rimane» nei cardinali riuniti per eleggere il Pontefice.
Del conclave di otto anni fa Benedetto XVI ha parlato anche in una piazza San Pietro stracolma e illuminata da un sole tardoinvernale: «Signore, perché mi chiedi questo e che cosa mi chiedi» era la domanda che si agitava in quel momento nel suo cuore e che trovò una prima risposta sulle labbra del Papa stesso, quando disse durante la messa inaugurale del pontificato che il suo programma era quello di ascoltare ogni giorno, insieme alla Chiesa, la volontà del Signore. E per otto anni Cristo ha guidato il Pontefice, come ha ripetuto, aggiungendo di non essersi mai sentito solo «nel portare la gioia e il peso» di un ruolo unico al mondo. E questo perché «il Papa appartiene a tutti e tantissime persone si sentono molto vicine a lui».
Vicinanza che, anche visibilmente, Benedetto XVI ha sperimentato dall’11 febbraio, quando ha annunciato la sua rinuncia in piena libertà e pubblicamente, ma che ogni giorno ha avvertito negli otto anni di un pontificato che la storia riconoscerà nella sua grandezza. Una grandezza non ricercata ma che si è imposta, e non soltanto in una dimensione spirituale. A Peter Seewald il Pontefice, eletto a un’età molto avanzata, ha detto che nei secoli a grandi Papi si sono alternati piccoli Papi, specificando con semplicità e senza alcuna affettazione di sentirsi un piccolo Papa, strumento nelle mani di Dio. Ma proprio per questo non solo i cattolici, né soltanto i cristiani, né unicamente i credenti, ma in gran numero donne e uomini di tutto il mondo hanno capito sempre di più di avere di fronte un Papa tra i più grandi, un grande uomo del nostro tempo.
E proprio la rinuncia, atto grave e nuovo che alcuni non capiscono, ha mostrato a tutti il coraggio mite ma fermissimo e la serenità gioiosa di quest’uomo: mai una volta, infatti, Benedetto XVI è indietreggiato davanti ai lupi e mai si è fatto sopraffare dal turbamento di fronte a sporcizia e scandali, che ha invece contrastato con determinazione. Sostenuto da tanti collaboratori, come ha più volte ripetuto, ma soprattutto dalla preghiera che per lui saliva nella Chiesa, come per l’apostolo Pietro. E forse la serenità gioiosa — che viene dalla fiducia in Dio e traspare così visibilmente dal suo volto — è il lascito più duraturo di questo Papa, che conclude nella pace e in modo nuovo un pontificato indimenticabile.
  g.m.v.

L'Osservatore Romano, 1° marzo 2013.

Con Benedetto XVI compagni sul cammino verso Dio

Islam e cristianesimo religioni per l’uomo.


(Mouhanad Khorchide - Docente di pedagogia religiosaislamica presso il Centro di studireligiosi della WestfälischeWilhelms-Universität di Münster) Nell’ottobre 2007, centotrentotto rinomati studiosi musulmani scrissero la lettera aperta Una parola comune tra Noi e Voi, lunga ventinove pagine e indirizzata a tutti i capi religiosi cristiani, nella quale invitavano al dialogo sugli aspetti comuni delle due religioni. Papa Benedetto accettò questa proposta di dialogo. Nacque così in Vaticano un Forum cattolico-musulmano.Da allora ci sono stati importanti incontri tra studiosi cristiani e musulmani, durante i quali è stato evidenziato soprattutto l’amore di Dio e del prossimo come colonna portante comune delle due religioni. Durante la sua visita in Turchia nel 2006, Papa Benedetto XVI pregò “l’unico Dio” dei cristiani, degli ebrei e dei musulmani. In occasione dell’incontro, nel 2011, con i rappresentanti musulmani nel corso della sua visita in Germania, invitò i musulmani e i cristiani a una collaborazione feconda. Come persone di fede potevano, secondo il Papa, dare un’importante testimonianza, per esempio nell’ambito della tutela del matrimonio e della famiglia. Per questo era necessario «crescere nel dialogo e nella stima reciproca». Il discorso di Ratisbona del Papa, che aveva dato adito a fraintendimenti, e le sue affermazioni sul tema dell’islam e della violenza, come anche l’ondata d’indignazione che, nella sua scia, aveva attraversato il mondo musulmano, sono stati superati ormai da molto tempo. Con il senno di poi si potrebbe perfino dire che il discorso di Ratisbona del Papa ha dato spunto alla promozione del dialogo tra cristiani e musulmani.
In occasione dell’incontro tra il Papa e i rappresentanti della comunità musulmana del 2011 in Germania ho tenuto un discorso a nome dei musulmani. Nel mio intervento ho evidenziato l’amore e la misericordia di Dio quali criteri comuni dell’islam e del cristianesimo; il Papa sottolineò che, in molti ambiti della vita sociale, cristiani e musulmani devono dare un’importante testimonianza della loro fede. Tra questi menzionò la tutela della famiglia fondata sul matrimonio, il rispetto della vita in ogni fase del suo naturale decorso e la promozione di una più ampia giustizia sociale. Il Papa evidenziò così la necessità di creare un riferimento alla vita della religione.
Sia l’islam sia il cristianesimo si trovano oggi dinanzi alla sfida di dimostrare il riferimento alla vita dei loro messaggi. Proprio i giovani si interrogano sull’importanza dei contenuti religiosi per il loro progetto di vita. Se le religioni si limitano soltanto ai dogmi e ad affermazioni distanti dalla vita, rischiano di far sì che le persone si allontanino sempre più da esse. Invece di domandare «che cosa vogliono le religioni dall’uomo?», esse dovrebbero chiedere «che cosa vogliono le religioni per l’uomo?». La religiosità, infatti, non viene trasmessa dall’esterno, ma è una cosa di cui ci si appropria, e lo si fa attraverso un processo aperto. Questo discorso sul processo di appropriazione evidenzia due aspetti fondamentali: in primo luogo, al centro c’è la persona stessa. L’uomo non viene considerato come oggetto delle religioni, bensì come soggetto, che contribuisce con le proprie esperienze, attese, desideri e speranze. In secondo luogo, la religiosità è un processo. Tale processo accompagna l’uomo per tutta la vita.
La grande importanza della famiglia, della vita e della giustizia sociale, sottolineata dal Papa, vale tanto per l’islam quanto per il cristianesimo. Nessuna delle due religioni può chiudersi alla realtà di vita delle persone. Entrambe nascondono in sé un grande potenziale per arricchire la società, ricordandoci valori come l’amore del prossimo, il volontariato, l’amore incondizionato e la bontà. Sia i cristiani sia i musulmani credono che Dio cerchi persone capaci d’amare, che rendano il suo amore e la sua misericordia una realtà vissuta ed esperibile. Il profeta Maometto raccontava: «Nell’aldilà Dio chiederà all’uomo: “Ero malato e non mi hai visitato, avevo fame e non mi hai dato da mangiare, avevo sete e non mi hai dato da bere”. Allora l’uomo domanderà sorpreso: “Ma tu sei Dio, come puoi essere malato, avere sete o avere fame?”. Allora Dio gli risponderà: “In un certo giorno, un tuo conoscente era malato e tu non sei andato a fargli visita; se lo avessi fatto, mi avresti trovato presso di lui. Un giorno, un tuo conoscente aveva fame, e non gli hai dato da mangiare; un giorno, un tuo conoscente aveva sete e non gli hai dato da bere”» (come tramandato da Muslim, hadith n. 2569). Questo racconto ricorda il vangelo di Matteo, al capitolo 25, che riporta un racconto analogo e alla fine sottolinea: «Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me».
Le religioni, però, non possono essere ridotte alla loro funzione, poiché hanno una dimensione spirituale importante, che vuole legarci a Dio.
Sia che siamo musulmani, sia che siamo cristiani, tutti aneliamo la comunione con Dio. Ed è proprio questo anelito a unirci. Siamo compagni sul cammino verso Dio. L’umiltà del Papa, che ho potuto vedere e sperimentare incontrandolo, ancora oggi suscita in me la convinzione che Dio, nella sua misericordia, ha lasciato aperte molte strade per raggiungerlo. Dio ci invita su diversi cammini.
«Troverai che i più prossimi all’amore per i credenti sono coloro che dicono “In verità siamo nazareni”, perché tra loro ci sono uomini dediti allo studio e monaci che non hanno alcuna superbia» (Corano, 5, 82).
L'Osservatore Romano, 28 febbraio 2013.

* * *

 Lettera del segretario generale del World Council of Churches, Olav Fykse Tveit.  Enorme contributo all’unità dei cristiani


Profonda gratitudine a Benedetto XVI per il suo contributo all'unità dei cristiani e per il ministero petrino fin qui svolto è stata espressa dal segretario generale del World Council of Churches (Wcc o Consiglio ecumenico delle Chiese) reverendo Olav Fykse Tveit, in una lettera indirizzata al Papa in occasione dell'ultima udienza generale del svoltasi mercoledì.
«In occasione delle Sue dimissioni dalla Sede Apostolica di Roma e del ministero petrino — scrive Fykse Tveit, che è alla guida di una organizzazione di 349 fra Chiese e comunità religiose per una rappresentanza di milioni di cristiani di un centinaio di Paesi — noi del movimento ecumenico ci soffermiamo a ricordare i Suoi numerosi contributi alla vita della Chiesa e del mondo e Le auguriamo ogni bene mentre prosegue il suo ministero di preghiera e di meditazione».
Rendendo omaggio all’immenso contributo offerto dal Papa all'unità dei cristiani, Tveit ha ricordato come Benedetto XVI conosca molto bene il Consiglio ecumenico delle Chiese essendo stato membro tra la fine degli anni ‘60 e agli inizi degli anni ‘70 del secolo scorso della commissione del Wcc, Fede e Costituzione, come professore cattolico di teologia all’università di Tubinga.
«Analizzando tutto il suo servizio alla Chiesa da una prospettiva ecumenica — prosegue Tveit — il World Council of Churches è estremamente grato per la Sua immensa e profonda dedizione alla ricerca dell’unità dei cristiani come un modello per l’unità di tutta l’umanità».
Nella lettera, ricordando i benefici ricevuti dal Wcc per mezzo del ministero di Benedetto XVI, si esprime anche ringraziamento per il sostegno dato agli incontri fra rappresentanti cattolici e il Wcc, in particolare, al gruppo misto di lavoro tra la Chiesa cattolica e il Consiglio ecumenico delle Chiese, alla commissione Fede e Costituzione, alla commissione sulle Missioni nel mondo e l’evangelismo, così come alle numerose iniziative indipendenti promosse dal Global Christian Forum. Il segretario generale del Wcc ha anche fatto riferimento ai suoi precedenti incontri con Benedetto XVI a Roma, nel 2010, e in occasione della Giornata mondiale di preghiera per la pace ad Assisi, nel 2011. «Le nostre conversazioni — prosegue la lettera di Fykse Tveit — mi hanno lasciato con la convinzione dell’importanza di rafforzare le relazioni già forti che consentono ai cristiani di varie confessioni di pregare insieme, lavorare e dedicarsi insieme all’unità nella fede».
Inoltre, il segretario generale del Wcc ha tenuto a sottolineare che la stretta collaborazione di Benedetto XVI con l’allora presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, cardinale Walter Kasper, abbia ispirato importanti capitoli nel pensiero ecumenico e la raccolta dei frutti del dialogo è proseguita nella sua cooperazione con l’attuale presidente del dicastero, il cardinale Kurk Koch. «È stato durante il Suo pontificato — si legge ancora nella lettera — che la commissione Fede e Costituzione nel suo testo condiviso “La Chiesa verso una visione comune” ha posto la seguente domanda: “Se secondo la volontà di Cristo le attuali divisioni vengono superate, come si può intendere ed esercitare un ministero che serva ad alimentare e promuovere l’unità della Chiesa a livello universale?”. Per tutto il suo pontificato Lei ha cercato di vivere quotidianamente in risposta a tale domanda».
«La Chiesa: verso una visione comune» è il secondo documento detto di "convergenza" nella storia ultracentenaria della commissione Fede e Costituzione, composta non solo da rappresentanti delle comunità membro del Wcc, ma anche da chi non ne fa parte, come la Chiesa cattolica.
Anche in occasione della rinuncia al papato, annunciata l’11 febbraio scorso, il reverendo Tveit aveva espresso l’apprezzamento per l’impegno profuso in questi anni dal Papa. «Dobbiamo rispettare pienamente la decisione di Sua Santità. Con profondo rispetto — aveva dichiarato il segretario generale del Wcc — abbiamo visto come egli abbia preso la responsabilità e i pesi del suo ministero in età avanzata, in un momento molto impegnativo della Chiesa. Esprimo tutto il mio apprezzamento per il suo amore e per l’impegno speso per la Chiesa e il movimento ecumenico. Chiediamo a Dio che lo benedica in questo momento e in questa fase della sua vita e che guidi e benedica anche la Chiesa cattolica romana in questo tempo importante di transizione».
L'Osservatore Romano 1° marzo 2013
 

Educazione alla Fede

Di seguito il testo integrale della relazione tenuta ieri, 27 di febbraio, da monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, presso l'Istituto Teologico Pianum di Chieti.

* * *

È possibile educare o educarsi alla fede, se la fede è un dono? E, se è possibile, su quale fondamento lo si può affermare alla luce dal disegno divino rivelato nella storia? E in quale forma? Come si educa alla fede? Come si avanza nella fede? È a queste domande che cercherò di rispondere nelle riflessioni che seguono, valendomi di due riferimenti biblici: il Vangelo di Marco, Vangelo del catecumeno, per rispondere alla questione sulla possibilità e il fondamento dell’educazione alla fede; e l’icona dei Magi che da Oriente vanno a Gerusalemme e incontrano il Bambino a Betlemme, per comprendere come ci si educhi e si possa educare alla fede.
I - Educare alla fede: il Vangelo di Marco, itinerario del catecumeno
Educare alla fede è un compito e una sfida che s’impongono alla comunità cristiana sin dalle sue origini. Ne è testimone la stessa formazione degli scritti del Nuovo Testamento, in particolare dei Vangeli, che nascono precisamente come narrazione orientata a suscitare la fede in Gesù e ad introdurre in essa. “Marco - scrive il Card. Martini - presenta una catechesi, un manuale per quei membri delle primitive comunità che cominciano l’itinerario catecumenale… Matteo è il Vangelo del catechista: cioè, il Vangelo che dà al catechista un insieme di prescrizioni, dottrine, esortazioni. Luca è il Vangelo del dottore: cioè, il Vangelo dato a colui che vuole un approfondimento storico-salvifico del mistero, in una visuale più ampia. Giovanni è il Vangelo del presbitero, quello che al cristiano maturo e contemplativo dà una visione unitaria dei vari misteri della salvezza”1. A motivare la genesi dei Vangeli è, insomma, un’intenzione pedagogica, un atto d’amore: chi narra la vicenda di Gesù lo fa per rendere partecipi i destinatari dell’esperienza, che gli ha trasformato la vita. Quest’aspetto pedagogico è particolarmente evidente nel vangelo di Marco, il più breve dei quattro, il più antico, costituito da un racconto scarno e coinvolgente: “Marco il primo di questi quattro manuali… è centrato su un itinerario catecumenale”2. Proprio così, il secondo Vangelo si presenta come un cammino, che parte dalle domande del narratore e del destinatario, impegna i due nella ricerca e culmina nell’incontro col Risorto, da cui tutto nasce e a cui tutto è orientato…
Si tratta di un cammino coinvolgente, che pone davanti a decisioni da prendere riguardo alla propria vita. In questo senso, il racconto di Marco è “come un dramma, dove l’esito finale non è scontato… Ogni lettore è invitato a fare il percorso dei personaggi del dramma sia nella ricerca della vera identità di Gesù sia nella scoperta della propria identità”3. In questa luce, Pietro - figura centrale del racconto - appare come la voce del catecumeno, che si apre progressivamente e non senza fatica ad accogliere la rivelazione del Figlio di Dio. “Il vangelo di Marco si presenta come la traccia di un cammino che va dalla paura e dal dubbio alla gioia e alla pace dell’incontro… Il dramma di Gesù Cristo si presenta come la parabola che ogni essere umano è chiamato a fare: perdere la sua vita per ritrovarla”4. La via che Gesù percorre dalla Galilea fino a Gerusalemme non è, insomma, un puro e semplice tracciato geografico e cronologico, è anche un percorso dell’anima, che stimola alla “sequela”.
Si potrebbe affermare che - proprio a questo scopo - il Gesù di Marco propone la sua identità come velata, in un itinerario progressivo, per proporsi alla libertà dell’assenso e non imporsi ad essa. Al culmine si trova un’esplicita confessione di fede, posta in bocca a un pagano, il Centurione romano ai piedi della Croce: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39). Questa confessione è annunciata sin dall’inizio del Vangelo: “Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio” (Mc 1,1). L’itinerario che porta alla professione finale è costituito da un alternarsi di rivelazione e di nascondimento, che è stato definito “segreto messianico”5. Con quest’espressione s’intende l’atteggiamento tenuto da Gesù durante il suo ministero pubblico per tenere nascosta la sua identità di Messia talvolta ai discepoli (Mc 8,29-30), talvolta ai miracolati (Mc 1,44; 5,43; 7,36; 8,26), talvolta ai demoni esorcizzati (Mc1,25; 1,34; 3,12), e dichiararla infine al momento in cui inizia la sua passione, quando è abbandonato dalla folla e dai discepoli. Allora, Gesù si manifesta apertamente come il Cristo-Messia: “Il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: ‘Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?’ Gesù rispose: ‘Io lo sono!’” (Mc 14,61-62).
Quello che Marco propone è un itinerario mistagogico. “Nella prima parte si tratta di riconoscere progressivamente chi è Gesù. Quindi, una volta riconosciuto, Gesù trascina i discepoli e destinatari a camminare dietro a lui, percorrendo la strada fino alla Croce”6. Ci si può allora chiedere come venisse utilizzato “questo testo nella comunità o nelle comunità che l’hanno visto nascere”7. Sul piano letterario, il vangelo di Marco contiene tutti i segni distintivi che ne fanno un discorso e un’azione drammatica, che richiede di essere proclamata in una sola volta, d’un fiato. Un’ipotesi suggestiva è che il racconto di Marco venisse letto durante la notte di Pasqua, nella veglia fra il sabato e la domenica di resurrezione. Per alcuni degli ascoltatori, nuovi membri della comunità, tale notte era il punto d’approdo dell’iniziazione cristiana: al termine della lettura integrale del racconto evangelico sarebbero stati battezzati e chiamati a partecipare per la prima volta al banchetto eucaristico. Come la struttura della cena pasquale ebraica comprendeva un racconto drammatico, l’“haggadah” (“narrazione”), che costituiva il filo conduttore del rito, così la veglia pasquale cristiana delle origini avrebbe previsto un’analogo racconto, quello del Vangelo di Marco appunto. “Dopo la lettura del Vangelo di Marco - ritiene Standaert -, ci si recava al fiume o al mare per battezzare i catecumeni e poi ci si ritrovava tutti insieme per il banchetto eucaristico celebrato il mattino presto”.
Il secondo Vangelo non è, insomma, una semplice raccolta informativa: l’itinerario proposto vuole essere performativo, tale cioè da indurre l’ascoltatore a decidere della sua stessa vita davanti a Gesù, il Figlio di Dio. Dall’incontro con questo racconto non si esce indenni: chi ne fa una lettura di fede, ne è segnato in maniera profonda. In esso tutto nasce dall’amore del Dio che si rivela e da cui il narratore è stato toccato e trasformato e tutto ha per scopo di suscitare nei cuori questo amore. Si può dedurre da questo che nell’educazione alla fede tutto nasca dall’amore e tenda all’amore. È per amore che Dio si è rivelato agli uomini col desiderio di farli partecipi della Sua vita. È per amore che chi crede - al pari degli Evangelisti - vorrebbe trasmettere il dono ricevuto agli altri, introducendoli nell’esperienza della carità di Dio. È per un profondo bisogno di amore che ci si mette alla ricerca del Volto divino. Alle sorgenti di ogni educazione alla fede c’è l’amore. Spesso si tratta di un amore ferito: quello, ad esempio, dei genitori credenti che vedono i loro figli allontanarsi dalla vita di fede o quello di chi ha responsabilità pastorali e sperimenta quanto sia difficile a volte trasmettere il dono della fede agli altri, specialmente ai giovani, nella complessità del tempo che viviamo. Eppure, il desiderio di comunicare la bellezza della fede sfida quest’amore ferito e lo spinge a non arrendersi. Spesso, chi si allontana da Dio lo fa perché non ha mai veramente sperimentato la grandezza del Suo dono. Non si esagera nel pensare che tante volte l’amore divino è più ignorato che consapevolmente rifiutato!
Educare alla fede vorrà dire, allora, far conoscere credibilmente quest’amore con la testimonianza della parola e della vita, attrarre ad esso, comunicarlo con l’eloquenza silenziosa di chi ne fa esperienza e ne irradia la bellezza in maniera credibile. Educarsi alla fede, a sua volta, significherà accettare la sfida di mettersi alla ricerca dell’infinito amore, aprendosi a tutti gli aiuti possibili sulla via dell’incontro sempre più profondo con Dio. Alla luce del carattere performativo del vangelo di Marco si può affermare, insomma, che l’educazione alla fede è un itinerario non solo possibile, ma necessario, e che esso nasce dalla volontà di Cristo e dal Suo amore, per culminare nell’esperienza crescente di questo stesso amore, che libera e salva.
II - Educare alla fede: le tappe di un cammino
L’itinerario dell’educazione alla fede, di cui il vangelo di Marco ci offre il modello normativo, avviene necessariamente per tappe. Queste muovono dall’esperienza fontale dell’incontro col Risorto e tendono a suscitarla sempre di nuovo, tanto in chi educa, quanto in chi viene educato. Per descrivere queste tappe ricorro a un’icona biblica, tratta dal Vangelo secondo Matteo (2,1-12): quella dei Magi che dal lontano Oriente vanno a Betlemme, guidati da una stella. Nella sua essenzialità narrativa, essa consente di riconoscere sei tappe costitutive dell’educazione alla fede in Cristo e alla sequela di Lui.
1. Da Oriente a Gerusalemme: il punto di partenza, ovvero la domanda originaria. e la meta dell’educazione alla fede. Stando al racconto evangelico i Magi vengono “da oriente a Gerusalemme”: “Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme” (Mt 2,1). Nell’immaginario biblico l’Oriente, lì dove sorge il sole, è il luogo dell’originario, dove tutto comincia. In questo senso i Magi sono figura di quanti, muovendo dalle esigenze originarie, costitutive dell’essere umano, vanno verso la Città di Dio. Non si azzarda, allora, nel riconoscere nei Magi la figura di ogni onesto cercatore di Dio, mosso dal bisogno radicale, di cui si fa voce Sant’Agostino all’inizio delle sue Confessioni: “Ci hai fatto per Te e inquieto è il nostro cuore finché non riposi in Te” (I, 1). Il richiamo alla provenienza da Oriente dice, inoltre, che i Magi si sono messi in cammino lasciando il loro mondo vitale, l’insieme delle loro sicurezze e delle loro abitudini radicate. Non si va alla ricerca di Dio senza prendere una decisione, senza fare un taglio, sradicandosi dal contesto rassicurante del piccolo universo che ci è proprio, per aprirsi al rischio della ricerca del Volto desiderato e nascosto. Il viaggio di ogni cercatore di Dio va dal proprio Oriente - e dunque dagli abissi del proprio cuore, dalle domande più profonde che ci abitano - verso la “città di Davide” (Luca 2,11), vero concentrato della rivelazione divina. Proviamo a chiederci: qual è il nostro Oriente? Quali sono le domande più vere e importanti che riconosciamo nel nostro cuore? Abbiamo mai scelto veramente di muoverci da dove siamo verso la Città di Dio, incontro al Suo dono d’amore? Siamo pronti a lasciare le nostre certezze per vivere l’avventura della ricerca dell’amore più grande, quello che solo Dio potrà darci? Porre questi interrogativi e rispondere ad essi è l’inizio dell’educazione alla fede, stimolo a prendere la decisione necessaria per andare dal nostro oriente verso la Città di Dio. Eppure, solo in questa decisione che ci fa cercatori del Volto nascosto, mendicanti del cielo, si realizza la nostra vera e piena umanità. Lo esprimono questi versi di Margherita Guidacci:
Come onde la tua riva tocchiamo,ogni istante è confine tra l’incontro e l’addio.Dal nostro mare in te fuggire, nel nostro mare fuggirti:Non altro è di noi labili il destino.Né tregua mai ci è data, anche se amoreOd altra arcana ansia più lontano ci spinseSulle tue sabbie, in vista delle torriDella superba tua città. Ché ancoraIndietro ci trascina il nostro pesoNel mutevole abisso –Siamo di nuovo desiderio e lamento8.
2. Pellegrini nella notte, guidati dalla stella. . I Magi compiono il loro viaggio lasciandosi guidare da una stella: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo» (Mt 2,2.9-10). Abbiamo qui alcune indicazioni importanti sulle condizioni della ricerca di Dio, e dunque dell’educazione alla fede: il cammino ha bisogno d’una guida. Il fatto che a guidare i Magi sia una stella, mostra come il percorso si svolga di notte: la via verso la fede non è un itinerario luminoso. Occorre avanzare nell’oscurità, pellegrini verso la luce, di cui la stella è annuncio e promessa. Che cos’è la stella? Nell’immaginario biblico essa sta a dire un segno che viene dal cielo, raggiungendo gli uomini nell’oscurità della loro esperienza per condurli dove il Signore li chiama. C’è un linguaggio di Dio nella natura e nelle vicende umane che dobbiamo imparare a conoscere: da una parte, si tratta della “silenziosa scrittura dei cieli”, cantata ad esempio dai Salmi (“I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento”: 19,2), della testimonianza, cioè, che il creato rende al Creatore col fatto stesso di esistere. Dall’altra, si tratta dei “segni dei tempi” con cui il Signore raggiunge i cercatori del Suo volto per indicare loro la strada nella complessità delle opere e dei giorni. Come afferma il Concilio Vaticano II, “è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo” (Costituzione Gaudium et Spes 4). La stella guida il cammino dei cercatori di Dio, affacciandosi nei segnali di attesa che spesso gli uomini manifestano per dare un senso alla vita e nella ricerca di una giustizia più grande per tutti, oltre che nelle testimonianze di amore che tante volte illuminano perfino le situazioni più tristi e difficili. Inoltre, seguire la stella per andare verso il Bambino che nascerà lì dove essa si poserà, vuol dire anche uscire da sé per andare verso l’altro, soprattutto piccolo e debole. Aprirsi alla fede o educare altri ad essa vuol dire anche mettersi in ascolto della natura e della storia e impegnarsi ad andare verso gli altri con scelte e gesti in cui esprimere il dono di sé. Renzo Barsacchi, il poeta toscano in cui fede e poesia s’incontrano spesso in modo struggente, in una poesia dal titolo Tu puoi soltanto attendere richiama questa continua ricerca di segni, che l’amore esige nella nostra vita, e la certezza che questo bisogno non viene da noi, ma ci raggiunge come dono da accogliere in segni sempre nuovi, da riconoscere come stella sul cammino delle notti:
Il tempo è incerto. In bilico il serenoe la pioggia. Ma né l’uno né l’altrodipendono da te.Tu puoi soltanto attendere, scrutandosegni poco leggibili nell’aria.Ti affidi al desiderioascoltando il timore. Le tue manisono pronte a difendersi e ad accogliere.Così non sai quando Dio ti prepariuna gioia o un dolore e tu stai quasiorigliando alla porta del suo cuore,senza capire come sia decisoda quell’unico amore,lo splendore del riso o delle lacrime9.
3. La notte del mondo e la Parola di Dio. Bisogna ammettere che questo “ascolto dei segni” non è sempre facile. Perfino il dono di sé può restare qualcosa di ambiguo e faticoso nel cammino verso Dio. La notte che copre la storia talvolta è veramente buia. Ecco, allora, che il Signore ci offre un aiuto decisivo per arrivare a credere in Lui: si tratta della Sua Parola, della rivelazione storica del Suo Volto, che si è compiuta attraverso eventi e parole intimamente connessi, di cui ci dà testimonianza la storia della salvezza, presentata nella Bibbia. Anche i Magi ne hanno avuto bisogno, tant’è vero che seguono il suggerimento dei capi dei sacerdoti e degli scribi del popolo, consultati da Erode, circa il luogo in cui doveva nascere il Cristo: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele» (Matteo 2,5-6). Il testo citato per indicare il luogo dell’incontro col Messia è tratto dal profeta Michea (5,1-3) e contiene diverse risonanze bibliche (2 Samuele 5,2; 1Cronache 11,2). La storia dei Magi viene così a dirci che nella notte del tempo la Parola di Dio è veramente lampada ai nostri passi e luce sul nostro cammino (cf. Salmo 118,105). Chi vuol incontrare il Dio vivente, deve fidarsi della Sua Parola, mettersi in ascolto umile, perseverante e fiducioso di essa. Imparare dalle Sacre Scritture il linguaggio di Dio, aiuta a riconoscere gli appuntamenti con la Sua Grazia. Chi accoglie la rivelazione divina nella Bibbia sa di non essere mai solo, perché la Parola del Dio vivente lo raggiunge, abita il suo cuore e gli dona occhi per vedere e credere e lasciarsi guidare dall’Amato ai pascoli della vita che vince e vincerà la morte. Per chi vuol educarsi ed educare altri alla fede è indispensabile il riferimento al testo biblico, sorgente di luce nell’andare verso l’incontro con Dio. Veramente
lampada per i miei passi è la tua parola,luce sul mio cammino (Salmo 118/119, 105).
4. L’incontro con Erode: la tentazione in agguato. È a questo punto che nella vicenda dei Magi si colloca un incontro pericoloso, che potrebbe avere conseguenze drammatiche. Essi si recano a Gerusalemme in cerca di maggiori ragguagli sulla loro destinazione. Sono ancora nella situazione in cui la Parola di Dio non ha rischiarato loro pienamente la strada, pur segnalata nelle coordinate fondamentali dalla stella. Nella Città Santa risuona la loro domanda: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo…». Si inserisce qui l’azione del re Erode, simbolo non solo del potere, ma del delirio di onnipotenza che esso può suscitare, lì dove il cuore si chiuda al riconoscimento onesto del dovere di obbedire alla Verità al di sopra di tutto. Erode è turbato dalla richiesta dei Magi, vi intuisce un pericolo per la sua autorità. Si finge cercatore del vero, ma in realtà l’indagine che svolge presso gli esperti della Legge è finalizzata solo a saperne di più per intervenire a tutela della sua smisurata volontà di potenza. A tal fine vorrebbe utilizzare anche i Magi: «Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: “Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo”» (vv. 7-8). Sulla via della ricerca di Dio il vero possibile rischio è fare del nostro “io” e delle sue ambizioni l’idolo cui sacrificare ogni cosa. Questa tentazione può presentarsi nelle forme più diverse, ma la molla che vi agisce è sempre la stessa: l’orgoglio. È la tentazione diabolica, la pretesa di voler essere come Dio, quella che raggiunse la creatura umana sin dal primo mattino del mondo (cf. Genesi 3). Il seguito del racconto ci mostra come i Magi abbiano saputo schivarla, riconducendo le richieste di Erode alla loro vera misura, quella di un delirio accecante che nega l’evidenza del primato di Colui che ci trascende tutti. Il cercatore di Dio o sarà umile e impegnato a vincere le trappole dell’orgoglio, o non arriverà mai alla meta, sciupando quanto di più bello può esserci nell’esistenza umana. E questo esigerà una continua vigilanza e una continua lotta. L’amore di cui la fede è espressione, porta con sé l’esigenza ineludibile di conoscere la ferita del cuore. Esprimono l’idea che ogni relazione d’amore - in particolare quella con Dio - va vissuta come unità di vita e di morte a favore della vita, questi bellissimi versi di Elena Bono:
Quando tu mi hai ferita?Forse ero ancora nel seno di mia madreo forse solo nei tuoi pensieri.Tu mi amasti da sempre.Io non ho che un piccolo tempo da dartied un piccolo amore.Ma mi perdo nel tuo,questo mare che bruciae di sé si alimenta.Allorché mi feristiio non sapevoquanto il tuo amore facesse male.Ed è questo che vuoi,soltanto questo in cambio dell’infinito amore:che io soffra l’amor tuo,che me lo porti come piaga profondae non la curi10.
5. L’incontro con Dio: la gioia, la comunità, l’umiltà, l’adorazione e il dono di sé. Il racconto di Matteo prosegue: «Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra» (vv. 9-11). Si riconoscono qui, nella semplicità del racconto, le caratteristiche fondamentali dell’incontro con Dio, grazie al quale cambia tutto: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (Benedetto XVI, Enciclica Deus caritas est, 1). Innanzitutto, s’affaccia la gioia: incontrare l’Amato, desiderato e cercato, è fonte di grandissima gioia, perché vuol dire sentirsi raggiunti da un amore infinito, da un’indicibile bellezza. Niente dà al nostro cuore tanta gioia quanto il riconoscerci amati e l’amare. Perciò l’esperienza della fede è così bella e vale la pena di accettare ogni sacrificio per educarci ad essa e comunicarla ad altri: in Dio si trova la vera gioia, il senso d’esistere, l’amore che è origine, grembo e patria della vita presente e di quella che ci attende oltre la morte. La gioia accompagna il passo successivo, semplice e concreto: entrare “nella casa”. Tenendo conto dell’immagine della Chiesa come “casa, edificio”, presente in Matteo (cf. 16,18: “su questa pietra edificherò la mia Chiesa”), vorrei vedere qui espressa la necessità della comunità ecclesiale nell’educazione alla fede. La Chiesa è luogo e segno della presenza di Cristo, della Parola che salva, dell’incontro col Risorto attraverso i segni sacramentali e l’amore fraterno. È la Chiesa ad affidare il servizio dell’annuncio / testimonianza / educazione, che parli attraverso la vita. La fede è donata e nutrita nella Chiesa, “comunità educante”. Senza la comunione vissuta nella Chiesa Madre, l’educazione alla fede rischia di naufragare nell’individualismo o nell’evasione consolatoria! All’interno della casa la gioia dei Magi alla vista del Bambino con la Madre si esprime nel bisogno dell’adorazione: essi si prostrano in segno di profonda umiltà e adorano il Piccolo, riconoscendo l’assoluta sovranità dell’Amore incarnato di Dio davanti a cui sono giunti. Umiltà e stupore adorante sono i due atteggiamenti fondamentali della preghiera, espressione e nutrimento della fede: con l’umiltà confessiamo il nostro niente; con l’adorazione ci lasciamo colmare dal tutto di Dio. Vivere una simile esperienza genera il bisogno di rispondere all’amore con l’amore, offrendo a Dio i doni dello scrigno del nostro cuore. La tradizione cristiana ha letto nell’oro, nell’incenso e nella mirra offerti dai Magi i simboli del triplice riconoscimento di cui vive la fede nel Figlio di Dio fatto uomo per noi: «La mirra, perché in quanto uomo era destinato a morire ed essere sepolto; l’oro, poiché era il re, il cui regno non avrà fine; e l’incenso, poiché era Dio, che si è fatto conoscere in Giudea» (Sant’Ireneo di Lione, Adversus Haereses III, 9, 2). I doni dei Magi sono simbolo del totale coinvolgimento dell’uomo nella risposta all’amore di Dio, che dona tutto e chiede tutto. Questo giocarsi tutto nell’atto d’amore a Colui che è amore, è espresso da versi come questi di Ada Negri:
Non seppi dirti quant’io t’amo, Dionel quale credo, Dio che sei la vitavivente, e quella già vissuta e quellach’è da viver più oltre: oltre i confinidei mondi, e dove non esiste il tempo.Non seppi; - ma a Te nulla occulto restadi ciò che tace nel profondo. Ogni attodi vita, in me, fu amore. Ed io credettifosse per l’uomo, o l’opera, o la patriaterrena, o i nati dal mio saldo ceppo,o i fior, le piante, i frutti che dal solehanno sostanza, nutrimento e luce;ma fu amore di Te, che in ogni cosae creatura sei presente. Ed orache ad uno ad uno caddero al mio fiancoi compagni di strada, e più sommessesi fan le voci della terra, il tuovolto rifulge di splendor più forte,e la tua voce è cantico di gloria.Or - Dio che sempre amai - t’amo sapendod’amarti; e l’ineffabile certezzache tutto fu giustizia, anche il dolore,tutto fu bene, anche il mio male, tuttoper me Tu fosti e sei, mi fa tremanted’una gioia più grande della morte.Resta con me, poi che la sera scendesulla mia casa con misericordiad’ombre e di stelle. Ch’io ti porga, al descoumile, il poco pane e l’acqua puradella mia povertà. Resta Tu soloaccanto a me tua serva; e, nel silenziodegli esseri, il mio cuore oda Te solo11.
6. Fecero ritorno al loro paese per un’altra strada: vivere la fede nella quotidianità. La storia dei Magi non termina qui. C’è un seguito molto importante per chi si riconosce al pari di loro “cercatore di Dio”: «Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese» (v. 12). Due aspetti vanno sottolineati: l’incontro con Dio non fa evadere dalla storia, dagli impegni della quotidianità e dalle responsabilità a cui si è stati chiamati. Il ritorno dei Magi al loro paese dice precisamente questo, escludendo ogni concezione consolatoria della fede, che ne faccia un rifugio per sottarsi ai propri doveri e alla rete di amore, in cui ciascuno è posto. L’eternità, cui siamo chiamati, si esprime sempre in un giorno, l’oggi in cui vivere il sì a Dio nella fede e testimoniare agli altri la bellezza del Suo amore mediante la carità. L’altro elemento che il racconto ci fa capire è che il ritorno alla vita ordinaria dopo l’incontro con il Signore avviene “per un’altra strada”. Si è gli stessi, eppure non più gli stessi, se si è vissuto l’incontro col Dio vivente. Ormai, non c’è Erode che tenga per trattenere chi ha incontrato il Signore nella logica dell’egoismo e dell’avidità che tutto rapporta alle brame del proprio “io”. Incontrare il Figlio di Dio nel Bambino di Betlemme significa riconoscere l’umiltà del Dio incarnato e lasciarsi trasformare dal Suo dono, per diventare una creatura nuova, che canta con la vita il cantico nuovo di chi è stato reso nuovo dallo Spirito di Dio. Il cammino della vita sarà un continuo, sempre nuovo incontro con l’Amato, se custodiremo con fedeltà il dono ricevuto, ravvivandolo ogni giorno. Allora, avvertiremo il bisogno di chiedere a Colui che si è donato a noi il dono di questa fedeltà, nell’esperienza sempre nuova del Suo amore. Allora, potremo trasmettere ad altri la fede, come irradiazione del nostro cuore umile, innamorato di Dio, nella certezza che il protagonista principale dell’incontro col Signore resta Lui, che agisce col Suo Spirito nei nostri cuori. Possiamo, così, far nostre le parole che Giovanni Papini - ateo militante convertito clamorosamente alla fede nel 1921 - scrisse nello stesso anno della sua conversione, al termine della sua Storia di Cristo:
Gesù, sei ancora, ogni giorno, in mezzo a noi. E sarai con noi per sempre… Noi abbiamo bisogno di te, di te solo, e di nessun altro. Tu solamente, che ci ami, puoi sentire, per noi tutti che soffriamo, la pietà che ciascuno di noi sente per se stesso. Tu solo puoi sentire quanto è grande, immisurabilmente grande, il bisogno che c’è di te, in questo mondo, in questa ora del mondo… Tutti hanno bisogno di te, anche quelli che non lo sanno, e quelli che non lo sanno assai più di quelli che lo sanno… Chi ricerca la bellezza nel mondo cerca, senza accorgersene, te che sei la bellezza intera e perfetta; chi persegue nei pensieri la verità, desidera, senza volere, te che sei l’unica verità degna d’esser saputa; e chi s’affanna dietro la pace cerca te, sola pace dove possono riposare i cuori più inquieti. Essi ti chiamano senza sapere che ti chiamano e il loro grido è inesprimibilmente più doloroso del nostro… La grande esperienza volge alla fine. Gli uomini, allontanandosi dall’Evangelo, hanno trovato la desolazione e la morte. Più d’una promessa e d’una minaccia s’è avverata. Ormai non abbiamo, noi disperati, che la speranza d’un tuo ritorno… Noi, gli ultimi, ti aspettiamo. Ti aspetteremo ogni giorno, a dispetto della nostra indegnità e d’ogni impossibile. E tutto l’amore che potremo torchiare dai nostri cuori devastati sarà per te, Crocifisso, che fosti tormentato per amor nostro e ora ci tormenti con tutta la potenza del tuo implacabile amore12.
*
NOTE
1 C.M. Martini, L’itinerario spirituale dei Dodici, Borla, Roma 1981, 7s.
2 Ib.
3 R. Fabris, Marco, Cittadella Editrice, Assisi 2005, 14.
Ib., 15.
5 La formula fu coniata da W. Wrede, Il segreto messianico nei Vangeli, D’Auria, Napoli 1995: originale tedesco Das Messiasgeheimnis in den Evangelien, 1901; 1994.
6 B. Standaert, Il Vangelo secondo Marco, Borla, Roma 1984, 43.
7 Prefazione all’opera monumentale dello stesso Standaert, Marco, vangelo di una notte, vangelo per la vita, cit.
8 All’eterno, Paglia e polvere, Rebellato, Padova 1961.
9 Marinaio di Dio, Nardini, Firenze 1985, 74.
10 I galli notturni, Garzanti, Milano 1952, 77.
11 A. Negri, Il dono, in Poesie, Mondadori, Milano 19663, 847s.
12 G. Papini, Storia di Cristo, 540. 549, parole conclusive. Pubblicata per la prima volta nel 1921 e più volte ristampata (cf. Vallecchi, Firenze 2007), l’opera è considerata il "libro della redenzione" dello scrittore più irriverente del Novecento italiano.

"La Chiesa si risveglia nelle anime!"


Alle ore 11 di oggi, ultimo giorno del Suo Pontificato, nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano il Santo Padre Benedetto XVI ha incontrato gli Em.mi Signori Cardinali presenti a Roma, per il saluto di congedo.
Nel corso dell’udienza il Cardinale Angelo Sodano, Decano del Collegio Cardinalizio, ha rivolto al Papa un indirizzo di omaggio a nome di tutti i presenti.
Quindi il Santo Padre, prima di salutare personalmente ogni singolo cardinale, ha pronunciato le parole che riportiamo di seguito:


* * *

Venerati e cari Fratelli!
Con grande gioia vi accolgo e porgo a ciascuno di voi il mio più cordiale saluto. Ringrazio il Cardinale Angelo Sodano che, come sempre, ha saputo farsi interprete dei sentimenti dell’intero Collegio: Cor ad cor loquitur. Grazie Eminenza di cuore. E vorrei dire – riprendendo il riferimento all’esperienza dei discepoli di Emmaus – che anche per me è stata una gioia camminare con voi in questi anni, nella luce della presenza del Signore risorto.
Come ho detto ieri davanti alle migliaia di fedeli che riempivano Piazza San Pietro, la vostra vicinanza e il vostro consiglio mi sono stati di grande aiuto nel mio ministero. In questi otto anni, abbiamo vissuto con fede momenti bellissimi di luce radiosa nel cammino della Chiesa, assieme a momenti in cui qualche nube si è addensata nel cielo. Abbiamo cercato di servire Cristo e la sua Chiesa con amore profondo e totale, che è l’anima del nostro ministero. Abbiamo donato speranza, quella che ci viene da Cristo, che solo può illuminare il cammino. Insieme possiamo ringraziare il Signore che ci ha fatti crescere nella comunione, e insieme pregarlo di aiutarvi a crescere ancora in questa unità profonda, così che il Collegio dei Cardinali sia come un’orchestra, dove le diversità – espressione della Chiesa universale – concorrano sempre alla superiore e concorde armonia.
Vorrei lasciarvi un pensiero semplice, che mi sta molto a cuore: un pensiero sulla Chiesa, sul suo mistero, che costituisce per tutti noi - possiamo dire - la ragione e la passione della vita. Mi lascio aiutare da un’espressione di Romano Guardini, scritta proprio nell’anno in cui i Padri del Concilio Vaticano II approvavano la Costituzione Lumen Gentium, nel suo ultimo libro, con una dedica personale anche per me; perciò le parole di questo libro mi sono particolarmente care. Dice Guardini: La Chiesa "non è un’istituzione escogitata e costruita a tavolino…, ma una realtà vivente… Essa vive lungo il corso del tempo, in divenire, come ogni essere vivente, trasformandosi… Eppure nella sua natura rimane sempre la stessa, e il suo cuore è Cristo". E’ stata la nostra esperienza, ieri, mi sembra, in Piazza: vedere che la Chiesa è un corpo vivo, animato dallo Spirito Santo e vive realmente dalla forza di Dio. Essa è nel mondo, ma non è del mondo: è di Dio, di Cristo, dello Spirito. Lo abbiamo visto ieri. Per questa è vera ed eloquente anche l’altra famosa espressione di Guardini: "La Chiesa si risveglia nelle anime". La Chiesa vive, cresce e si risveglia nelle anime, che - come la Vergine Maria - accolgono la Parola di Dio e la concepiscono per opera dello Spirito Santo; offrono a Dio la propria carne e, proprio nella loro povertà e umiltà, diventano capaci di generare Cristo oggi nel mondo. Attraverso la Chiesa, il Mistero dell’Incarnazione rimane presente per sempre. Cristo continua a camminare attraverso i tempi e tutti i luoghi.
Rimaniamo uniti, cari Fratelli, in questo Mistero: nella preghiera, specialmente nell’Eucaristia quotidiana, e così serviamo la Chiesa e l’intera umanità. Questa è la nostra gioia, che nessuno ci può togliere.
Prima di salutarvi personalmente, desidero dirvi che continuerò ad esservi vicino con la preghiera, specialmente nei prossimi giorni, affinché siate pienamente docili all’azione dello Spirito Santo nell’elezione del nuovo Papa. Che il Signore vi mostri quello che è voluto da Lui. E tra voi, tra il Collegio Cardinalizio, c’è anche il futuro Papa al quale già oggi prometto la mia incondizionata reverenza ed obbedienza. Per questo, con affetto e riconoscenza, vi imparto di cuore la Benedizione Apostolica.

Benedetto XVI: l'ultima lezione




«Vedo la Chiesa viva! La Chiesa non è mia, non è nostra, ma è del Signore, che non la lascia affondare; è Lui che la conduce…». L’ultima udienza pubblica di Benedetto XVI, il primo papa della storia a rinunciare per motivi di vecchiaia, è un testamento spirituale e una lezione per coloro che dovranno eleggere il suo successore.
Con serenità e determinazione Joseph Ratzinger, sempre più minuto e fragile, conclude i suoi quasi otto anni di regno mostrando, nonostante tutto, il volto gioioso e positivo di una Chiesa di popolo. Non traccia bilanci, ma indica con l’esempio al suo successore che cosa sia e che cosa debba fare il papa, attraverso una catechesi semplice. Distante anni luce dai giochi del potere clericale, dalle cordate, dalle strategie di politica ecclesiale studiate a tavolino, dagli scandali, dai messaggi autoreferenziali, dall’immagine di una Chiesa barocca e ripiegata a contemplare se stessa. Un messaggio che la folla di pellegrini, venuta a salutare il Papa per l’ultima volta, comprende benissimo e ascolta commossa.
Nella lezione di Benedetto XVI c’è innanzitutto gratitudine per le «notizie» che negli anni ha ricevuto da ogni parte del mondo sulla fede e sulla carità che «circola nel corpo della Chiesa». Il Papa, che ancora una volta appare assolutamente sereno e pacificato dopo la decisione presa, descrivendo il suo non facile pontificato annota: «È stato un tratto di cammino della Chiesa che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma anche momenti non facili». Accenno esplicito agli incidenti di percorso, agli scandali e agli attacchi che hanno accompagnato questi otto anni.
Per raccontarli, Ratzinger ricorda il passo evangelico che descrive la barca degli apostoli in balia della tempesta: «Mi sono sentito come san Pietro con gli apostoli nella barca sul lago di Galilea… vi sono stati momenti in cui le acque erano agitate ed il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire. Ma ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua. E il Signore non la lascia affondare…».
Torna alla memoria un’altra immagine di barca, protagonista dell’ultima omelia di Ratzinger cardinale, durante la messa d’inizio del conclave del 2005. Allora parlò della «piccola barca» del pensiero di molti cristiani, squassata da una serie negativa di «ismi», dall’ateismo all’agnosticismo. Ora, nel momento della rinuncia, il Papa non segue i «profeti di sventura». Non fa alcun accenno pessimistico. Invita invece tutti «ad affidarci come bambini nelle braccia di Dio, certi che quelle braccia ci sostengono sempre e sono ciò che ci permette di camminare ogni giorno, anche nella fatica». Poi aggiunge: «Vorrei che ognuno si sentisse amato da quel Dio che ci ha mostrato il suo amore senza confini. Vorrei che ognuno sentisse la gioia di essere cristiano». Uno sguardo positivo e di misericordia, dunque.
Nel discorso Benedetto XVI inserisce anche i ringraziamenti per i cardinali, per il suo Segretario di Stato, per i collaboratori. Non vuole avallare la lettura di quanti ritengono che le innegabili tensioni curiali siano all’origine della sua rinuncia. Quindi racconta delle lettere ricevute tante «persone semplici» che «non mi scrivono come si scrive ad esempio ad un principe o ad un grande che non si conosce», ma «come fratelli e sorelle o come figli e figlie». Qui si può «toccare con mano che cosa sia Chiesa – non un’organizzazione, un’associazione per fini religiosi o umanitari, ma un corpo vivo, una comunione di fratelli e sorelle».
Nelle parole dedicate alla rinuncia, Benedetto XVI ribadisce di aver «chiesto a Dio con insistenza», di fronte al venir meno delle forze, di essere illuminato, per prendere «la decisione più giusta non per il mio bene, ma per il bene della Chiesa». Spiega di aver compiuto questo passo «nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’animo». Quella serenità che peraltro traspare dal suo volto in queste ultime apparizioni pubbliche. «Amare la Chiesa – spiega – significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi».
Infine, Ratzinger ricorda che chi diventa papa non ha più alcuna privacy, «appartiene sempre e totalmente a tutti». La rinuncia non significa «ritornare nel privato», tornare a fare quello che si faceva prima di diventare papa. Significa rimanere «nel servizio della preghiera», rimanere «nel recinto di san Pietro». «Non abbandono la croce», conclude, rispondendo a quanti – come il cardinale di Cracovia Stanislaw Dziwisz – hanno commentato il suo gesto paragonandolo al diverso atteggiamento di Giovanni Paolo II, rimasto sul Soglio fino alla fine. «Resto in modo nuovo presso il Signore crocifisso». (A. Tornielli)

* * *


La scelta di Benedetto XVI e l’esercizio dell’umiltà. Sulle orme di Gregorio Magno

(Pietro Meloni - Vescovo emerito di Nuoro) Il Papa è «il servo dei servi di Dio». San Gregorio Magno scelse questo “stemma episcopale” perché si sentiva chiamato a essere il più umile tra i servitori di Dio e degli uomini. L’umiltà è per lui la carta d’identità del sacerdote, del vescovo, del Papa. L’umiltà deve essere l’atteggiamento del ministro di Dio prima della chiamata al servizio, perché chi non è stato umile nella sua vita precedente «non è in grado di apprendere l’umiltà quando sia salito al luogo più alto» (Regola pastorale, I, 9). A me sembra di vedere in queste parole di Gregorio Magno il ritratto di Papa Benedetto XVI, che fin dal giorno della sua elezione si presentò al mondo come «un umile lavoratore nella vigna del Signore».
Il Papa è immagine di Cristo, che è venuto sulla terra «per servire e dare la sua vita» e ha raccomandato agli apostoli: «il più grande tra voi sia il servo di tutti» (Luca, 22, 27). Maria di Nazaret nel Magnificat ringrazia Dio perché «ha guardato l’umiltà della sua serva» (Luca, 1, 48). Gregorio Magno domandò al Signore l’umiltà dell’apostolo Pietro dinanzi al centurione di Cesarea, che lo aveva accolto nella sua casa con grande onore: «Pietro, che pure teneva il primato della Chiesa di Roma per volontà di Dio, rifiutò di accogliere i segni di una venerazione troppo grande» (Regola pastorale, II, 6). Benedetto XVI rinunciando al Papato ha manifestato la sua sincera umiltà e ricevendo sul capo le ceneri all’inizio del cammino quaresimale ha detto che Gesù non gradisce «il comportamento di chi vuole apparire, gli atteggiamenti che cercano l’applauso».
Il Papa è stato chiamato a guidare la “barca di Pietro” dallo Spirito Santo e forse ha un po’ provato lo smarrimento di Gregorio Magno, che appena elevato alla Cattedra di Pietro confidava: «Con la veste variopinta dell’episcopato io debbo rituffarmi nel mondo» (Lettera, 1, 5). Il santo vescovo non nascondeva agli amici la sua preoccupazione, dicendo: «all’improvviso, a causa dell’ordine sacro, mi sono trovato nel pelago degli affari secolari» e «sono talmente sbattuto dalle onde del mondo che dispero di poter condurre in porto questa nave»; ma serenamente riponeva la sua fiducia in Dio, riconoscendo che tutto «è avvenuto per disposizione divina» (Lettere al vescovo Leandro, 1, 1 e 1, 41).
Egli si accorgeva che «le cure assunte con il governo delle anime disperdono il cuore in varie direzioni», ma obbediva alla volontà di Dio e incoraggiava ogni ministro del Vangelo, mostrando che i carismi «non li ha ricevuti soltanto per sé, ma anche per gli altri» (Regola pastorale, I, 4-5). 
Benedetto XVI ha umilmente incarnato l’ideale che san Gregorio Magno proponeva al ministro di Dio: «sia puro nel pensiero, esemplare nell’azione, discreto nel suo silenzio, utile con la sua parola: sia vicino a ogni persona con la sua condivisione e sia, più di tutti gli altri, dedito alla contemplazione; sia umile alleato di chi fa il bene, ma per il suo zelo a favore della giustizia sia inflessibile contro i vizi dei peccatori; non attenui la cura della vita interiore nelle occupazioni esterne e non tralasci di provvedere alle necessità esteriori per la sollecitudine del bene interiore» (ibidem, II, 1). Al nostro Papa non è avvenuto che, «temendo di perdere il favore degli uomini», abbia avuto «paura di dire liberamente la verità» (ibidem, II, 4). Lui ha pronunziato con franchezza parole che riecheggiano la voce di Gregorio Magno: «La Chiesa soffre di più per i cattivi esempi dei suoi, che non per i colpi che riceve dagli estranei» (Moralia, 31, 37). 
Papa Ratzinger ha sentito la nostalgia del deserto e ha esperimentato la fatica di conciliare la vita attiva con la vita contemplativa, ma ha imparato da Gregorio Magno che la vera umiltà è «stare alla guida degli altri seguendo la decisione della volontà divina» (Regola pastorale, I, 6). Sulle orme del suo antico predecessore è ricorso «alla penitenza dentro di sé per ottenere il perdono degli altri con il suo pianto» e ha abitato nella sua oasi interiore sapendo che «chi veglia all’ufficio della predicazione non deve cessare dall’amoroso studio della lectio divina» (ibidem, II, 10-11). Sapeva che la guida dei fedeli è «l’arte delle arti» e che «il cuore degli ascoltatori è penetrato più facilmente dalle parole che trovano conferma nella vita di chi parla» (ibidem, I, 1 e II, 3). E da bravo musicista ha valorizzato il fascino della preghiera nel canto: «Quando eleviamo a Dio il nostro canto, noi gli apriamo la strada affinché venga nel nostro cuore e vi accenda il fuoco del suo amore» (Omelie su Ezechiele, I, 1, 15). 
«Dio è umile!», esclamava Gregorio Magno (Moralia, 34, 54). Egli si domandava: «Che cosa c’è di più sublime dell’umiltà?» (Regola pastorale, III, 17, 2). E invitava i sacerdoti ad avere una «autorità umile» e i fedeli ad avere una «umiltà libera» (Omelie su Ezechiele, I, 9, 12), mostrando che nell’umiltà e nella carità del ministro dell’altare, Dio svela la «mitezza del suo animo» (Regola pastorale, II, 5). 
Gli artisti hanno dipinto san Gregorio nell’immagine della “colomba”. Benedetto XVI è apparso a noi come una “colomba”.
Il gesto inatteso della sua “rinuncia” al pontificato ha gettato nello stupore e nel pianto molti sacerdoti e fedeli, ma ha contemporaneamente manifestato la sua umiltà, infondendo la certezza che «la Chiesa è di Cristo» (Discorso all’udienza generale, 13 febbraio). Nell’armonia tra fides et ratio, vivamente raccomandata da Giovanni Paolo II, Benedetto XVI è giunto serenamente alla decisione di servire la Chiesa nel silenzio e nella preghiera, ascoltando la voce di Dio, che gli ha svelato il tempo per riconoscere che la guida della Chiesa visibile richiede piene energie del corpo e dello spirito. E ora domanda ai suoi figli, come san Gregorio Magno, di essere sostenuto dalla carità della preghiera, perché «desidera trovarsi già dove spera di godere l’eterna felicità» (Omelie sul Vangelo, II, 37, 1).
L'Osservatore Romano, 28 febbraio 2013.

* * *

Così Benedetto ha rivelato il suo cuore
di Enzo Bianchi
in “La Stampa” del 28 febbraio 2013

C’ era bisogno di questo testamento. Se il cuore di molti cattolici era stato profondamente scosso
dall’improvvisa rinuncia di Benedetto XVI al ministero petrino, le sue parole nell’ultima udienza
pubblica in piazza San Pietro hanno illuminato maggiormente quella decisione.
Significativa è stata la scelta del brano della Lettera ai cristiani di Colossi in cui l’apostolo Paolo
rende grazie a Dio per la testimonianza offerta da quella comunità: una scelta operata dal papa per
poter esprimere, sulla falsariga delle parole apostoliche, il suo ringraziamento al Signore e alla
Chiesa per la sua fede e la sua carità.
Questo discorso rivela bene il cuore di Benedetto XVI: otto anni fa ha accettato con vera
obbedienza di diventare papa, ponendo al Signore una domanda: «Perché mi chiedi questo?». A
settantotto anni, era consapevole della propria vecchiaia, di non aver fatto nulla per essere eletto, di
dover «fare un mestiere» duro e faticoso. Fu chiamato a guidare una nave in mare agitato – un mare
a tratti anche in tempesta – e diretta verso una meta con i venti contrari. Oggi, con la sua fede,
confessa di non essersi mai sentito solo, neanche quando il Signore sembrava dormire e alcuni
barcaioli non aiutavano a tenere la rotta ma facevano confusione.
La fede salda che ha sempre avuto gli fa dire che non si è sentito solo, e questo l’aveva detto in un
momento critico vissuto nella sua curia, anche se in realtà la solitudine fa parte di chi presiede una
Chiesa con una responsabilità propria e unica come quella del vescovo di Roma. Durante tutto il
suo pontificato ha però sempre insistito sul dato che i cattolici devono credere e credono che la
Chiesa è di Cristo, non è né del papa, né dei cardinali, né dei vescovi, né di qualsiasi «personaggio
cattolico». Questa distinzione tra persona e servizio hanno portato il papa alla rinuncia, evento
nuovo e grave – secondo le parole del papa – ma dettato dal suo amore per la Chiesa. Quanto diceva
sul decentramento necessario a ogni autorità nella Chiesa rispetto al Signore Gesù Cristo, il papa lo
ha anche realizzato e mostrato concretamente.
E qui ci è dato un saggio di cosa significhi obbedire alla voce di Dio presente alla coscienza di ogni
persona: Benedetto XVI ha pregato, ha chiesto la luce divina, poi ha cercato di giudicare se la scelta
avveniva per amore della Chiesa o per amore di se stesso, ha valutato se era veramente nella logica
del bene comune, bel bene massimo della Chiesa, la comunione, e quindi con decisione, fermezza,
parresia, cioè franchezza, ha manifestato ciò che gli era stato chiesto dal santuario della sua
coscienza.
In questi giorni, dopo l’atto della sua rinuncia, si susseguono molte interpretazioni sul perché di
questa decisione. Credo sia bene accettarla nei termini affermati e ribaditi da lui stesso. È un papa
che non ha mai usato la menzogna, da lui sempre ritenuta uno dei tre interdetti fondamentali
dell’etica umana e cristiana. Con il discorso all’ultima udienza, Benedetto XVI ci lascia un
testamento, pieno di fede e di speranza, offerto senza una liturgia di trionfo, senza nessuna
autocelebrazione, senza un commiato scenografico e da «grande evento» spettacolare. Un
testamento che ci ricorda che solo «la parola di verità del Vangelo è la forza della Chiesa, è la sua
vita».
Ho conosciuto il teologo Ratzinger, poi il cardinale e, poco dopo la sua elezione, ho avuto una lunga
udienza in cui ho potuto ascoltarlo e leggere assieme a lui alcuni temi ecclesiali cogenti:
l’ecumenismo e la vita religiosa. Poi l’ho incontrato altre volte, trovando in lui sempre affetto e
attenzione, oltre alla benevolenza con cui ha voluto nominarmi come esperto a due Sinodi generali
dei vescovi. L’ultima volta mi ha sorpreso, salutandomi quando ero ancora a distanza: «Ah, ecco
una vecchia conoscenza, il priore di Bose!». Mi ha anche espresso un desiderio che spero di poter
soddisfare, anche se lui non è più il papa, ma resterà sempre un testimone della signoria di Cristo e
di nessun altro.
Non sono un adulatore, ma a Benedetto XVI esprimo un grazie convinto per la sua fede e la sua
umiltà, per quello che è stato in tutta la sua vita di cristiano, di teologo, di vescovo e di cardinale,
per quello che sono stati i suoi otto anni da papa e per il suo gesto di rinuncia che aiuterà tutti anche
ad avere una visione del primato petrino più aderente al Vangelo che vuole il papa «umile
successore del Pescatore di Galilea» e «servo dei servi del Signore».

Stravizi.

Di seguito il Vangelo di oggi, 28 febbraio, giovedi della II settimana di Quaresima, giornata storica per la Chiesa e per il mondo intero. Con un commento.


Il Signore ci vuole condurre da un’intelligenza stolta alla vera sapienza,
ci vuole insegnare a riconoscere il vero bene.
E così, anche se ciò non si trova nel testo,
possiamo in base ai Salmi dire che il ricco epulone
già in questo mondo era un uomo dal cuore vuoto,
che nei suoi stravizi 
voleva solo soffocare il vuoto che era in lui:
nell’aldilà viene solo alla luce 
la verità che era ormai presente anche nell’aldiqua.

Benedetto XVI




Dal Vangelo secondo Luca 16,19-31
   
In quel tempo, Gesù disse ai farisei: "C'era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando nell'inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura. Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti.
Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi. E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento. Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti sarebbero persuasi".

Il commento

Tutto annuncia il Signore. Ogni Parola rivela l'unico evento capace di strappare l'uomo ad un'esistenza distesa tra vizi e lussi anestetizzanti, prigioniera dell'avere e del possedere in questa vita, perché un'altra non ce n'è. Tutti i giorni uguali, per non accorgersi della morte che incombe, sicura. Come sicuri sono paradiso e inferno, occultati "novissimi" in una società spiaccicata sul parabrezza di un mondo lanciato a tutta velocità nel vuoto del non senso. Mentre appare un mendicante sulle soglie dei bagliori vuoti e transitori della vana-storia aggrappata alla vana-gloria: "Il mistero della misericordia sfonda ogni immagine umana di tranquillità o di disperazione.... Questo l'abbraccio ultimo del Mistero, contro cui l'uomo, anche il più lontano e il più perverso o il più oscurato, il più tenebroso, non può opporre niente, non può opporre obiezione: può disertarlo, ma disertando se stesso e il proprio bene. Il Mistero come misericordia resta l'ultima parola anche su tutte le brutte possibilità della storia. Per cui l'esistenza si esprime, come ultimo ideale, nella mendicanza. Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell'uomo e il cuore dell'uomo mendicante di Cristo" (don Luigi Giussani, Testimonianza durante l'incontro del Santo Padre Giovanni Paolo II con i movimenti ecclesiali e le nuove comunità. Roma, 30 maggio 1998). Mendicare dalle proprie piaghe - le ferite del peccato, della vita e della debolezza - perché le piaghe di Cristo ci guariscano. Solo nel Vangelo, l'annuncio profetizzato da "Mosè e dai Profeti", vi sono la Vita e la salvezza; ascoltare e credere alla Buona Notizia dell'amore di Dio, piagato della passione infinita è l'unica possibilità che ci è offerta per accedere al Paradiso. Ma, purtroppo, anche se in questo istante apparisse Cristo risorto, nel mondo, e forse anche in noi, non cambierebbe nulla. Emozione, sussulti, ma il cuore rimarrebbe incapace di credere, e l'avvenimento della risurrezione resterebbe velato, e non ne saremmo persuasi. Perchè è l'ascolto della predicazione la porta che dischiude sulla fede, sulla conversione. E' il cammino di una vita, nulla si improvvisa. Il Paradiso inizia in questa terra, esattamente come l'inferno. La Pasqua eterna, come rivela l'intera Scrittura, non è un evento circoscritto ad un istante: annunciata e preparata, essa si realizza lungo l'intero arco della Storia della salvezza, sino alla pienezza dei tempi, quando il Signore, entrando nella morte, ve ne esce vittorioso. Così è anche per ciascuno di noi. La storia che ci è data è l'annuncio e la preparazione alla Pasqua ultima, attraverso la quale ci saranno dischiuse le porte del Paradiso. La stessa Quaresima è un segno che ci aiuta a comprendere con saggezza la nostra vita: esistono inferno e paradiso, li possiamo sperimentare nei quaranta giorni di questo tempo penitenziale, immagine dei quarant'anni passati da Israele nel deserto, il tempo della vita di un uomo, di ciascuno di noi in questa terra dove si presentano ogni giorno dinanzi ai nostri occhi la vita e la morte; la predicazione del Vangelo anticipa il giudizio finale offrendoci la possibilità di accogliere la Grazia nella quale scegliere la vita e procedere sicuri verso il Paradiso, prendendo su di noi la Croce che, come una chiave, ce ne dischiuderà le porte. Nel deserto della nostra esistenza il Signore ci invita ogni giorno ad ascoltare la sua voce e a non indurire il cuore; oggi, infatti, è come quell'oggi del ladrone crocifisso accanto a Gesù: dall'inferno che lo stava ghermendo, ha fissato il Signore, ha mendicato il suo perdono. Peccatore tra i peggiori, inchiodato alle conseguenze atroci dei suoi crimini, gli si era dischiusa dinanzi, ancora una volta, la via della vita e quella della morte, definitive entrambe stavolta. Proprio in quel momento drammatico nel quale si giocava il suo destino eterno, la Grazia della fede che, nonostante i suoi peccati, aveva di sicuro conservato, magari goffamente e maldestramente, per l'infinita misericordia del Padre si ravviva e gli si offre come l'estrema ancora di salvezza: aggrappandosi ad essa i suoi occhi tumefatti si schiudono nella sua luce celeste, e vedono Gesù già vittorioso nel suo Regno, ancor prima di Pietro e degli apostoli che dovranno aspettare la sera di Pasqua; così, con il fiato rimasto per esalare l'ultimo respiro, professa la sua fede riconoscendo il Signore, il Messia inviato da Dio, in quel condannato ingiustamente alla sua stessa pena, supplicandone la memoria - "ricordati di me" - di quel suo povero fratello "giustamente" giustiziato. Crocifissi dalle nostre ingiustizie, dall'inferno che stiamo assaporando oggi, siamo ancora in tempo per guardare al Signore, per indurlo a ricordarsi di noi. Il cammino al Paradiso passa per quest'oggi, e domani e ogni giorno: non v'è altro atteggiamento adeguato alla speranza del perdono e della vita eterna che quello di posare lo sguardo del cuore su Cristo crocifisso per i nostri peccati, appoggiati sulla fede nel suo amore che allarga gli orizzonti, sino ad intercettare il Cielo tra le pieghe del dolore: e mendicare, gridare, pregare, cercare il Paradiso perduto, perché "nell’aldilà viene solo alla luce la verità che era ormai presente anche nell’aldiqua" (Benedetto XVI). Fermarsi nell'inferno, mormorare e ribellarsi alle presunte ingiustizie, continuare a gonfiarsi di "porpore e bisso", i beni del mondo, nell'illusione che siano essi a riscattarci, significherebbe chiudersi orgogliosamente la porta del Paradiso.  

La povertà di Lazzaro infatti, è l'immagine che il ricco non vuole guardare, è la propria realtà cancellata e dimenticata. La pancia piena di alienazioni impedisce uno sguardo stupito e bisognoso. Bastare a se stessi, ecco l'inganno che ci impedisce d'essere felici e di gustare la beatitudine riservata ai poveri, ai Lazzaro che non hanno nulla su questa terra ma che possiedono già le primizie del "seno di Abramo". La parabola disegna le due facce della nostra vita, e le mette nel loro giusto ambito. Ciascuno di noi è, al contempo, il povero Lazzaro e il ricco epulone. Quello che nel mondo è degno di onore, la "qualità della vita" idolatrata al punto di sopprimere ogni vita "non degna di essere vissuta" come quella del povero Lazzaro, i "beni" ricevuti dal ricco sono, agli occhi di Dio, l'anticipo dell'inferno. Quello che nel mondo è disprezzato, ignobile, indegno, è, per la Sapienza della Croce, il giardino che circonda il Paradiso, primizia della vita celeste. La povertà, la debolezza, i "mali ricevuti" costituiscono la via che ci è data per entrare nel Regno dei Cieli; i "beni" invece, spengono ogni nostalgia di verità e amore, chiudono il cuore e divengono, quando idolatrati e fatti scopo della vita, un inferno che uccide senza farcene accorgere.  La parola povero, nel vangelo di oggi come in quello delle beatitudini, traduce l’autodefinizione dei monaci di Qumram: «anawim ruah», i «poveri di cuore», «quelli dal cuore ferito e dallo spirito affranto» (Sal 34,19), dei quali Dio si prende cura. I poveri di Yahwé. Il termine usato da Matteo è pitokoi, da cui deriva pitocco, miserabile. A loro Gesù è inviato come Messia e Salvatore, ma non come un semplice ambasciatore latore di un messaggio; Dio ha, invece, voluto incarnare se stesso nell'estrema povertà di un Figlio crocifisso. Per raggiungerci dove siamo realmente ha assunto la nostra natura di poveri Lazzaro: è Lui che, oggi, giace alla nostra porta, sulla soglia della nostra vita mondana, orgogliosa e arrogante, ingannata e dispersa rincorrendo i beni di questo mondo. E' Gesù piagato dalle frustate che "brama di sfamarsi delle briciole che cadono dalla nostra mensa", che desidera ardentemente mangiare con noi la Pasqua raccogliendo i frammenti nei quali abbiamo lacerato la nostra vita, donataci come cibo da spezzare e donare agli altri sulla mensa della storia, e, invece, buttata via banchettando lautamente per saziare ogni concupiscenza. Gesù si è fatto Lazzaro perché potessimo riconoscere la nostra realtà, e  per poter bussare al nostro cuore vestito della stessa nostra debolezza e svegliarci così dal torpore di una vita consegnata al denaro, al potere, agli affetti malati, agli idoli di questo mondo, adorati dai governi e dai condomini, dalla grande finanza come da ciascuno di noi, avari e avidi. Fuggendo dal luogo che ci appartiene, l'estrema povertà e l'infinito bisogno della creatura, ci chiudiamo irrimediabilmente alla Grazia. Convertirsi è, dunque, in questa Quaresima, prendere di peso la nostra vita, non tralasciare nessuna debolezza, nessuna fame, nessuna sete. Guardarci dentro, sino in fondo, e scoprire che è lo stesso bisogno che muove il ricco e il povero Lazzaro. La via che conduce alla morte è quella dove affannarsi per prendere tutto dalla vita, frugando tra mondo, carne e demonio, per saziarsi di fumo e precipitare nel vuoto eterno che è l'inferno. La via che conduce alla Vita invece è quella tracciata dalla fede che fissa il Cielo e il Signore risorto, accettando di essere, in questa terra, un povero mendicante che può solo tendere la mano alla misericordia di Dio. E' questo l'unico atteggiamento realistico e ragionevole per camminare nella storia alla luce della fede adulta che illumina il Paradiso nelle "piaghe" di ogni giorno"Sazia pure dei tuoi beni il loro ventre, se ne sazino anche i figli ... Ma io per la giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua presenza (Sal 17,14s). Qui si contrappongono due generi di sazietà: la sazietà dei beni materiali e il saziarsi «della tua presenza», la sazietà del cuore mediante l’incontro con l’amore infinito. «Al risveglio», ciò rimanda, in definitiva, al risveglio alla vita nuova, eterna, ma si riferisce anche a un «risveglio» più profondo già in questo mondo: il destarsi alla verità, che già fin d’ora dona all’uomo una nuova sazietà" (J. Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Vol.I). Siamo chiamati a vivere come la donna siro-fenicia che, dal fondo dell'inferno in cui viveva per l'impossibilità di curare sua figlia, si "risveglia" alla presenza di Gesù, la Verità che illumina di speranza la sua realtà, mendica una briciola del suo amore, senza vergognarsi della sua indegnità. Così un matrimonio sarà vero e autentico nella misura in cui entrambi i coniugi vivranno nella verità della mendicanza che fa liberi, non si vergogna della propria fragilità che spinge senza posa al soddisfacimento delle concupiscenze, ma la consegna con audacia, fede e speranza alla Carità infinita di Dio. Così ogni relazione, così il lavoro e lo studio, ogni vicenda vissuta come Lazzaro, mendicando l'amore che perdona, sana e innalza alla destra del Padre: