sabato 23 febbraio 2013

"Ecclesiasticus" dalla testa ai piedi

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(Wolfgang Beinert - *) Un bilancio del pontificato alla vigilia della sua fine? Nel 2005 i media sussurravano: un Papa di transizione! L’affermazione era tanto giusta quanto banale. Secondo la comprensione cattolica, ogni Papa è un uomo di passaggio, che per un certo tratto guida la Chiesa nel suo cammino attraverso il tempo, per poi essere sostituito dal prossimo successore di Pietro, che sarà responsabile per il tratto seguente (sia esso più lungo o più breve). Per questo, nell’immediata vicinanza temporale di un cambiamento di pontificato non si possono dare notizie di una qualche portata relative a un bilancio dell’era appena conclusa. Un tale bilancio dovrebbe poter sondare l’importanza che riveste il tratto di tempo appena percorso rispetto al cammino complessivo, vale a dire nella storia. 
Ad ogni modo, prima che Benedetto XVI iniziasse il suo ministero petrino, l’ultima volta in cui si è parlato di un Papa di passaggio è stato nel 1958. Il panorama era simile: dopo un lungo pontificato, c’era l’esigenza di un cambiamento sostenibile, della ricerca di un Papa tanto meritevole quanto anziano come soluzione per la prossima continuità, secondo l’impostazione propria del successore. Allora la risposta era stata Giovanni XXIII. Ma alla fine essa si scandì in modo molto diverso da come si era pensato. E ben presto tutti poterono vedere che il suo piano conciliare sarebbe stato un passaggio di straordinaria qualità. Ma l’importanza esatta non poté essere stabilita nemmeno alla fine di quel pontificato. 
Al presente non è dunque possibile trarre un bilancio, tuttavia si possono riconoscere gli elementi per una futura valutazione storica. Saranno sempre molto soggettivi, ma forse proprio per questo, insieme ad altri, non saranno inutili.
La prima volta che ho incontrato Joseph Ratzinger è stato nel 1962, a Roma, nel cortile del Pontificio Collegio Germanico e Ungarico, all’inizio della prima fase conciliare. L’istituto aveva offerto una pranzo per tutti i partecipanti tedeschi. Successivamente si erano riuniti tutti per il ricevimento: vescovi, periti, studenti. Tra loro c’era — giovane, con i capelli bianchi, da tutti, segretamente, già considerato una stella — il professore di Bonn, che già all’epoca era famosissimo. Noi studenti non osavamo rivolgergli la parola. 
Al mio secondo incontro con lui, invece, proprio questo fu inevitabile. Avvenne a casa sua a Tubinga. Mi aveva ricevuto grazie alla mediazione del mio vescovo. Gli chiesi di assistermi per l’abilitazione alla libera docenza che dovevo sostenere. Il colloquio ebbe per me un esito positivo. Iniziò un periodo di avvicinamento costante. Ci incontravamo quasi ogni giorno alla concelebrazione nell’Edith-Stein-Heim, avevamo scambi d’idee lungo il percorso comune da e verso l’università. Ogni tanto portavo lui e i fratelli in macchina nei dintorni, a visitare la Svevia.
Ho potuto conoscere un uomo che era straordinariamente radicato nella sua terra, l’antica Baviera, con la sua sana pietà locale, ma che al tempo stesso brillava per la sua meravigliosa conoscenza della tradizione teologica. Grazie alla mia conoscenza dell’ambiente romano avevo una certa familiarità con la scolastica, e Ratzinger mi dischiuse il mondo a me meno noto, ma che presto trovai affascinante, del monachesimo contemporaneo e, in particolare, dei tesori della patristica. Con la sua brillante dizione analizzava il presente, in modo critico nei confronti sia della società sia della Chiesa, e sempre più preoccupato per gli sviluppi, che poi culminarono — o meglio: esplosero — in quello che fu l’anno tragico per la Germania, ovvero il 1968. 
La rivoluzione studentesca proprio a Tubinga scosse il rispettabile edificio della comprensione di sé dei professori, anche del sensibile, delicato e vulnerabile dogmatico di Marktl. Culmine assoluto della sua docenza di quegli anni fu l’Introduzione al cristianesimo. L’aula magna piena fino negli ultimi posti a sedere, e con tutti i gradini occupati, le aule vicine collegate via radio e anch’esse piene: un vero evento, si direbbe oggi.
Joseph Ratzinger ha pubblicato decine di migliaia di pagine; la sola bibliografia supera le 400 pagine. Stranamente, tra queste vi sono relativamente poche opere monografico-sistematiche. È possibile individuare elementi comuni, un filo rosso nel labirinto, un modo di pensare che mette a fuoco la sua personalità? Penso che, come per Goethe, anche tutte le sue pubblicazioni siano “frammenti di una grande confessione”. La base della storia del pensiero è senz’altro il platonismo, trasmesso attraverso Agostino e Bonaventura, protagonisti delle sue tesi di dottorato e di abilitazione alla docenza. Da qui derivano da un lato la profondità della sua spiritualità e, dall’altro, la profonda diffidenza dinanzi ai fenomeni dei tempi, che emergono dal suo ultimo discorso come cardinale dinanzi al conclave nel 2005 e dal recente incontro con il clero romano. 
Il centro dell’interesse di Ratzinger, che diventa facilmente riconoscibile nella sua opera omnia, è la Chiesa. Egli è, dalla punta dei capelli fino alla punta dei piedi, ecclesiasticus, personalità della Chiesa. 
Promuoverne il bene, con tutte le proprie forze, è l’impeto del suo pensiero e della sua azione letteralmente fin dall’infanzia. Lo straordinario culmine di questo è stata la sua dichiarazione di rinuncia l’11 febbraio. È proprio come il concilio per Giovanni XXIII: il fatto che si trattasse di un atto storico all’epoca era facilmente intuibile; l’importanza che avrebbe avuto per la comunità dei credenti invece no. Così, già adesso gli osservatori hanno deciso che la prima rinuncia al proprio ministero da parte di un vescovo di Roma dell’era moderna conferirà a tale ministero un nuovo volto, anche se i dettagli non sono affatto prevedibili. 
Ad ogni modo, per il bene della Chiesa, colui che è il servus servorum, il servo di tutti i servi della comunità, abbandona coraggiosamente il matrimonio discutibile, sia dal punto di vista teologico sia da quello dogmatico, e quasi mitico, tra il ministero e chi lo svolge. L’ecclesialità di Benedetto rifulge. E lo stesso fanno il suo coraggio e la sua libertà dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini.
L’ecclesialità non è però un atteggiamento protocollare. Essa ha un centro concreto, e soprattutto un’intenzione concreta. Infatti, secondo la Costituzione sulla Chiesa dell’ultimo concilio, la Chiesa è «il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano (Lumen gentium, n. 1). Nella sua prima enciclica Deus caritas est, Benedetto XVI ha chiamato per nome questa, per sua natura, “strumentalità”: il «fondamentale principio ecclesiale» è l’amore (n. 21). «Anche la Chiesa in quanto comunità deve praticare l’amore. Conseguenza di ciò è che l’amore ha bisogno anche di organizzazione quale presupposto per un servizio comunitario ordinato» (n. 20). Il ministero delle chiavi ha quindi il compito di sviluppare, concretizzare e rendere plausibile questo principio fondamentale dal punto di vista spirituale, teologico, e organizzativo. 
L’andamento del pontificato mostra alcuni spunti positivi in questa direzione ma anche quelle mancanze che sono diventate un peso insostenibile per il Papa, al quale non poteva più far fronte. La coraggiosa liberalità del pensiero, che i suoi numerosi studenti hanno ammirato e dalla quale hanno tratto profitto, si scontra con la profonda preoccupazione per l’“imbarazzante” conservazione di una tradizione che vuole abbracciare le tante correnti della spiritualità cristiana; la profonda pietà del suo essere cristiano collide con le limitazioni della responsabilità apostolica. Averla portata e voler continuare a portarla fino alla pienezza esprime la tragica grandezza di questo pontificato, che va ben oltre il suo tempo. 
La tensione tra unità e cattolicità, tra il rappresentare la santità e l’apostolicità in modo riformativo e allo stesso tempo continuativo, ed essere proprio in questo garante del procedere della Chiesa sul cammino del tempo, continuerà ad essere anche in futuro l’onere di chi porta le chiavi, anche del futuro Papa. Colui che ora riconsegna le chiavi di Pietro così facendo ha aperto una porta.
L'Osservatore Romano, 24 febbraio 2013.
(*) Wolfgang Beinert (1933), divenuto sacerdote nel 1959, dopo aver insegnato dogmatica a Bochum (Germania), dal 1978 fino al termine della sua attività accademica nel 1998 è stato ordinario di dogmatica e storia dei dogmi all’università di Regensburg, dove è stato collega di Joseph Ratzinger. Per l’editrice Queriniana ha diretto il Lessico di teologia sistematica (1990), ed è autore di Il cristianesimo. Respiro di libertà (2003) e di Avrei una domanda... Informazione sulla fede dei cristiani.