giovedì 21 febbraio 2013

Il germe della vita nuova





Nel nostro soffrire e morire, attraverso la solidarietà totale di Cristo, è stato deposto un germe di vita, un seme di risurrezione, un principio di redenzione. È la Pasqua a svelare questa svolta radicale per la sofferenza e la morte umana. La terza meditazione del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, agli esercizi spirituali alla Curia Romana, mercoledì pomeriggio 20 febbraio, ha affrontato un tema che tocca da vicino, prima o poi, ognuno di noi: «L’uomo sofferente». Lo ha fatto, alla presenza di Benedetto XVI, utilizzando due canti del sofferente presenti nel salterio: uno di un malato stremato e l’altro di una persona isolata, «consapevoli che ogni dolore fisico e psichico è un’esperienza antropologica globale, espressione di un male più radicale e intimo». La vasta tipologia delle sindromi attraversa tutte le preghiere salmiche, che sono realistiche e conoscono la sincerità e la libertà. Su di esse emerge «in modo netto il paradigma corporeo, segno appunto di una preghiera carnale». 
Tre organi dominano l’autoritratto del paziente delineato nei salmi: la gola, le ossa, che «indicano la struttura stessa dell’essere fisiologico» e gli occhi. Nel panorama «di desolazione e di sfacelo» di questi salmi, «sale a Dio un grido di insofferenza, è il tipico “Fino a quando?”, espressione sincera di “una disperazione, ma paradossalmente anche di un’estrema fiducia in Dio, un po’ alla maniera ben più veemente di Giobbe». 
Nonostante ciò, il salmista è «certo che l’ultima parola di Dio non sarà quella dell’abbandono punitivo». Per questo, «il lamento cede il passo alla fiducia dell’esaudimento». In questo senso, il salmo può diventare la preghiera di tutti noi «quando la malattia nelle sue mille tipologie pervade il nostro corpo e deprime la nostra anima». Accanto alla sofferenza fisica c’è anche, ha avvertito il cardinale, l’incubo oscuro chiamato solitudine. Non quella fatta di silenzio e di riflessione, ma quella «dell’isolamento di una persona». Prendendo in considerazione il salmo 42-43, il porporato ha ricordato come l’orante sia «immerso in un presente amaro, nell’esilio in Galilea». 
Tutte le suppliche salmiche, ha detto, tranne una, la numero 88, non sfociano mai nella disperazione, ma al loro orizzonte appare sempre un bagliore di luce. Infatti in Cristo, Dio «si è chinato sul dolore umano e sul male». Gesù ha assunto su di sé il male e l’impurità, «lasciandosi quasi infettare, per liberare e salvare. Il quarantadue per cento del racconto della vita pubblica di Gesù secondo il Vangelo di Marco è costituito da guarigioni». Ma, l’incarnazione «va oltre», perché «comporta da parte di Dio nel Figlio l’assunzione piena del limite umano contro ogni visione gnostica e spiritualistica». È questo il grande «scandalo paolino della croce». D’altronde, la fede cristiana, «che è una religione della “carne” e dei corpi, ha saputo creare una spiritualità della sofferenza fisica, senza cancellare il realismo del limite creaturale, ma introducendo un’apertura a un orizzonte superiore di senso». 
Il tema del male è strettamente collegato a quello dell’uomo peccatore. Il cardinale ha proposto questo rapporto nella prima meditazione di giovedì mattina, 21 febbraio. Partendo da un pensiero di Blaise Pascal — nel quale ha detto il cardinale Ravasi «si vede chiaramente che il binomio classico “delitto e castigo”, si trasforma in un trinomio: “delitto, castigo e perdono”» — il porporato ha fatto notare che nel salterio, nei sette salmi penitenziali, si configurano «veri e propri canti del peccatore, aperti alla fiducia nel perdono». Il peccato nella Bibbia, ha detto il cardinale, è «visto sempre come un atto personale che nasce dalla libertà umana e colpisce la volontà divina». Il peccato, ha aggiunto, è «una relazione che si infrange, è uno smarrimento della pista corretta nel cammino dell’esistenza, è una meta luminosa che si allontana». 
In questa simbologia di smarrimento della meta, la conversione è per la Bibbia «un ritornare» sulla via smarrita, è «una correzione di rotta», una decisione «libera personale che cancella la scelta negativa dell’allontanamento da Dio», è nel linguaggio biblico neotestamentario «un’inversione di mentalità». Alla radice della conversione c’è sempre la grazia espressa nel perdono, ha sottolineato il porporato. Nella conversione, tuttavia, è necessario «l’incontro di due libertà». 
Prendendo poi in considerazione il salmo 130, il celebre Miserere, il porporato ha individuato tre spunti di riflessione: il primato del perdono, la tensione del peccatore che attende il perdono, e la salvezza personale che viene inquadrata in quella ecclesiale. 
Su “l’uomo senza Dio” il cardinale Ravasi si è invece soffermato nella seconda meditazione della mattina. Ha preso spunto dal celebre romanzo L’impostura di Georges Bernanos per riflettere sull’assenza e il nulla. «Nella mente e nel cuore di molti — ha detto — non c’è più un’assenza che può generare nostalgia, non c’è uno spazio vuoto ma aperto alla domanda e quindi all’attesa di Dio, c’è semplicemente il nulla». Altri scrittori, ha poi ricordato, si sono confrontati con l’esistenza di Dio. Basti pensare «al russo Zinov’ev o al poeta Giorgio Caproni, i quali si fanno voce del cuore dell’uomo alla ricerca della fede». Davanti a questo sforzo nel cercare Dio, però, c’è «il rischio dell’indifferenza», che è il «marchio della società contemporanea» in quanto ignora, di rimanere «inerti e di ripetere semplicemente l’asserto del salmo dei senza Dio, ripetuto due volte nel salterio, il 14 e il 53: “Dio non c’è”». 
Nel salmo 14, l’affermazione dello stolto è proprio una sorta di «anticipazione dell’indifferenza contemporanea, di quel nulla che non è tanto teorico e metafisico, ma pratico ed etico». L’ateismo pratico, quindi, che il salmista denuncia, «negazione della stessa storia della salvezza», è quindi «l’assenza di Dio, vissuta con turbamento e travaglio anche dal credente». Il modello supremo è proprio «nel padre della fede biblica»: Abramo, con la sua «tormentata ascesa sull’erta sassosa e spinosa del monte Moria». Infatti, la fede comprende anche «l’assenza, il silenzio, lo sconcerto». Pensando a quanti intendono fare la stessa esperienza di Abramo sul monte Moria, il cardinale ha rivolto un invito alla fiducia, perché, ha spiegato, nelle ore silenziose e vuote, abbiamo la certezza che le nostre suppliche non cadono nel nulla e hanno alla fine una misteriosa risposta.
L'Osservatore Romano, 22 febbraio 2013.