sabato 23 febbraio 2013

Scia di Luce

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Domani 24 febbraio celebriamo la II Domenica di Quaresima - Anno "C".

Proprio nello spaventoso incontro con la gloria di Dio in Gesù
 i tre apostoli devono imparare 
ciò che Paolo dice ai discepoli di tutti i tempi 
nella Prima Lettera ai Corinzi: 
«Noi predichiamo Cristo crocifisso, 
scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; 
ma per coloro che sono chiamati, 
sia Giudei che Greci, 
predichiamo Cri­sto potenza di Dio [dinamis] e sapienza di Dio». 
Questa «potenza» del regno futuro 
appare loro nel Gesù trasfigurato 
che parla con i testi­moni dell' Antica Alleanza 
della «necessità» della sua passione come via verso la gloria. 

Joseph Ratzinger - Benedetto XVI


La strada verso il compimento è aperta e la quaresima non è altro che un percorso tracciato per giungere alla pienezza del mistero pasquale, annunciato dall'esperienza che anch'io posso fare oggi, salendo sul monte Tabor con Gesù. Non è semplicemente un maestro, un profeta tra tanti, ma l'Eletto da ascoltare con la fede.
Buona domenica di quaresima. Pb. Vito Valente.

* * *
MESSALE
Antifona d'Ingresso  Sal 26, 8-9
Di te dice il mio cuore: «Cercate il suo volto».
Il tuo volto io cerco, o Signore.
Non nascondermi il tuo volto.
  
Oppure:  Sal 24,6.3-22
Ricorda, Signore, il tuo amore e la tua bontà,
le tue misericordie che sono da sempre.
Non trionfino su di noi i nostri nemici;
libera il tuo popolo, Signore,
da tutte le sue angosce.

 
Colletta

O Padre, che ci chiami ad ascoltare il tuo amato Figlio, nutri la nostra fede con la tua parola e purifica gli occhi del nostro spirito perché possiamo godere la visione della tua gloria. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio ...

Oppure:
Dio grande e fedele, che riveli il tuo volto a chi ti cerca con cuore sincero, rinsalda la nostra fede nel mistero della croce e donaci un cuore docile, perché nell'adesione amorosa alla tua volontà seguiamo come discepoli il Cristo tuo Figlio. Egli è Dio...

LITURGIA DELLA PAROLA
Prima Lettura  Gn 15,5-12.17-18
Dio stipula l'alleanza con Abramo fedele.

Dal libro del Gènesi
In quei giorni, Dio condusse fuori Abram e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia.
E gli disse: «Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra». Rispose: «Signore Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?». Gli disse: «Prendimi una giovenca di tre anni, una capra di tre anni, un ariete di tre anni, una tortora e un colombo».
Andò a prendere tutti questi animali, li divise in due e collocò ogni metà di fronte all’altra; non divise però gli uccelli. Gli uccelli rapaci calarono su quei cadaveri, ma Abram li scacciò.
Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram, ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono.
Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi. In quel giorno il Signore concluse quest’alleanza con Abram:
«Alla tua discendenza
io do questa terra,
dal fiume d’Egitto
al grande fiume, il fiume Eufrate».

Salmo Responsoriale  Dal Salmo 26
Il Signore è mia luce e mia salvezza.
Il Signore è mia luce e mia salvezza:
di chi avrò timore?
Il Signore è difesa della mia vita:
di chi avrò paura?

Ascolta, Signore, la mia voce.
Io grido: abbi pietà di me, rispondimi!
Il mio cuore ripete il tuo invito:
«Cercate il mio volto!».
Il tuo volto, Signore, io cerco.

Non nascondermi il tuo volto,
non respingere con ira il tuo servo.
Sei tu il mio aiuto, non lasciarmi,
non abbandonarmi, Dio della mia salvezza.

Sono certo di contemplare la bontà del Signore
nella terra dei viventi.
Spera nel Signore, sii forte,
si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore.

Seconda Lettura  Fil 3,17-4,1
Cristo ci trasfigurerà nel suo corpo glorioso.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi
Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi. Perché molti – ve l’ho già detto più volte e ora, con le lacrime agli occhi, ve lo ripeto – si comportano da nemici della croce di Cristo. La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra.
La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose.
Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi!

Canto al Vangelo    Mc 9,7
Lode e onore a te, Signore Gesù!

Dalla nube luminosa, si udì la voce del Padre:
«Questi è il mio Figlio l'amato: ascoltatelo».
Lode e onore a te, Signore Gesù.
  
  
Vangelo  Lc 9,28b-36
Mentre Gesù pregava, il suo volto cambio d'aspetto.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme.
Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui.
Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Egli non sapeva quello che diceva.
Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!».
Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.
  Parola del Signore.


Il commento

"Non sapeva quello che diceva": come i tre apostoli sul Monte Tabor all'entrare nella nube, anche noi restiamo sovente i
nfilzati a uno stupore pieno di paura; essa ci attanaglia di fronte all'abisso della nostra debolezza, dell'assoluta inadeguatezza, quando la verità ci si spalanca dinanzi e ci lascia di sasso. Quando appare nitida la sproporzione tra quello che dovremmo essere e quello che realmente siamo. Madri, padri, preti, assolutamente impreparati, infarciti di debolezze e peccati. Incoerenti e pieni di contraddizioni. La paura che ha intontito i tre discepoli alla vista del loro Maestro trasfigurato. Una luce improvvisa, mai vista, lo sfolgorare d'una vita inattesa, proprio lì, da dentro la carne del loro amico. Uno squilibrio, un miracolo, s'era dato di nuovo il prodigio di quel giorno quando, sul Sinai, il Santo consegnò la Torah a Mosè. Il cielo era sceso sulla terra, avevano visto Dio, ed erano rimasti vivi. E allora, spontaneo, sorge in Pietro il desiderio di issare subito tre tende, per coagulare quel momento prodigioso e così bello nella precarietà della vita; proprio come nella festa di Succot, quando si preparano le capanne, le tende come segno della permanenza del popolo nel deserto. Dalla stessa "nube" che aveva guidato gli israeliti durante i quarant'anni dell'Esodo, la voce del Padre ripete agli Apostoli quello che aveva annunciato nel deserto: "Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!". Tra una mormorazione e l'altra, tra le maglie di una debolezza infinita, ogni ebreo aveva fatto l'incomparabile esperienza di poter (e dover) vivere del solo cibo della Parola di Dio, capace di trasformare la roccia in acqua. E quel cibo ora risplendeva nella carne trasfigurata di Gesù. Pietro, attento ai segni come ogni buon ebreo, aveva saputo riconoscere in quell'evento il compimento dell'Esodo del suo Popolo; su quel Monte Dio aveva di nuovo parlato, ed era di una "bellezza" mai contemplata. Era "bello" quel momento, era "bello" starci dentro, era "bella" anche la precarietà, l'infinita distanza tra l'uomo e Dio, perché in Gesù essa era colmata, e benedetta: per questo Pietro non sapeva e non poteva dire altro che di fare tre tende per estendere a tutta l'esistenza la "bellezza" di quel momento;tre tende per entrare ogni giorno nella precarietà strappata al timore, nella debolezza circonfusa di luce, nella carne redenta dall'incoruttibilità. Sul Tabor era accaduto quello che appare nelle icone orientali, la cui luce si diffonde dal centro del dipinto, ti attira e ti mette immediatamente in comunione con il soggetto, facendoti suo interlocutore in virtù dello squarcio di luce che ti raggiunge. Non a caso il primo soggetto che devono dipingere gli iconografi è proprio la Trasfigurazione. "La contemplazione delle icone, e in genere dei capolavori dell'arte cristiana, c'introduce in un percorso interiore, che è la via del superamento, e in questa purificazione dello sguardo, che è purificazione del cuore, ci di svela la bellezza, o almeno qualche suo raggio. E la bellezza ci mette in relazione con la forza della verità" (Joseph Ratzinger, Ferito dal dardo della bellezza). Il percorso che siamo chiamati a compiere è dunque quello della contemplazione, che si dà nell'ascolto e nella visione, nell'esperienza. Sperimentare il perdono, la rconciliazione, la possibilità di ricominciare come una persona nuova, è questa la bellezza che rivela la forza della verità. la forza di Cristo, amore puro, amore infinito, amore bello.

Nell'episodio della Trasfigurazinone è svelato dunque, come una profezia, il miracolo più grande, immagine della vittoria sulla morte che di lì a poco Gesù avrebbe compiuto nell'esodo di cui discorreva con Mosè ed Elia. La Legge e i Profeti lo avevano annunziato in varie forme: la luce della Pasqua avrebbe brillato nelle tenebre del sepolcro. Lo splendore della vita immortale, la bellezza di Cristo crocifisso e risorto si svelava così, già sul monte Tabor, attraverso la Parola annucniata e ascoltata dai Tre protagonisti di quell'evento unico: Cristo trasfigurato appare sempre nella stoltezza dell'annuncio. Proprio i
l Vangelo, infatti, è la Trasfigurazione, la Buona notizia che ha messo in cammino Abramo verso una terra che non conosceva, qualcosa di assolutamente nuovo, un pezzo di paradiso, la terra promessa qui sulla terra delle lacrime. Il Vangelo è la luce purissima nella carne votata alla morte. Tutto di noi ci parla di fine, di ineluttabilità, di morte. Prima o poi scenderà la saracinesca sul lavoro, sulla famiglia, sulla nostra stessa vita. E' la realtà alla quale tentiamo di sfuggire e che si ripresenta ad ogni angolo della nostra esistenza. La vita di ogni uomo, infatti, è un andare a Gerusalemme. Le tende che Pietro, a nome di tutta la Chiesa, voleva costruire, erano la profezia della Croce che lo Spirito Santo gli aveva ispirato. Esse ricordano il cammino che la comunità dei redenti ha da percorrere: non è il Tabor la meta, ma Gerusalemme. Ma è proprio nel cammino che ci conduce alla Croce che l'annunzio del Vangelo apre il cielo della Verità: ogni giorno la "nube" della presenza - shekinà di Dio ci attira e ci "copre con la sua ombra", come si è adagiada sulla Vergine Maria generando in Lei il Figlio di Dio, Colui che avrebbe vinto la morte. Il Padre ci ha donato il seme della vita eterna, lo Spirito Santo effuso dal Signore risorto, la sua stessa vita che risplende nella Parola del Vangelo. Ogni giorno dalla nube che ci spaventa, il Padre ci indica "il suo Figlio eletto" e ci invita ad "ascoltarlo": "Shemà Israel, Ascolta Israele!". Ascoltare è amare l'unico Dio con tutta la mente, tutto il cuore e tutte le forze, l'unico cammino che conduce alla Vita eterna nella storia di ogni giorno, quando restiamo "soli con Gesù" come gli Apostoli al termine della Trasfigurazione. Ascoltare per vivere nell'amore che ci fa cittadini del Cielo mentre dimoriamo sulla terra. La nostra vita trasfigurata, infatti, è una vita evangelizzata, illuminata dalla Buona notizia. Il Vangelo annunciato nel paradosso delle nostre debolezze e inadeguatezze. Nel parallelo del Vangelo di Matteo, Gesù dice ai discepoli: "Alzatevi, non abbiate paura". Il suo amore brilla esattamente nella nostra più totale debolezza, la luce della vita immortale risplende in noi dalla ferita più infamante, il suo perdono dov'è abbondato il peccato. Alzatevi!, infatti, è lo stesso verbo usato a proposito della resurezione: ci si può rialzare solo se caduti, risuscitare solo se morti. La presenza di Gesù nella nostra vita, sottolinenado la nostra natura ferita e concupiscente, illuminando anche i peccati su cui vorremmo sorvolare, ci rivela che l'insoddisfazione, la paura e la frustrazione che sperimentiamo, sono accenni alla morte che incombe in noi come salario del peccato. Ma, proprio situandoci nella verità, simboleggiata nel "sonno" che "opprimeva" i tre apostoli, incapaci di sostenere nella carne l'infinito di Dio, Gesù ci tende la sua mano di misericordia per attirarci nella sua trasfigurazione. Non è fuggendo o sforzandoci per cambiare noi stessi e il mondo che gusteremo la felicità autentica; essa è, invece, un dono della Grazia di Dio. E' questa la notizia che aspetta ogni uomo, capace di trasfigurare in una luce di Pasqua anche l'esistenza più compromessa. La notizia che strappa dalla morte e trasfigura il volto e il cuore del peccatore più incallito. Oggi, e ogni giorno, il Vangelo è la salvezza, è la Vita, è la bellezza. "E' bello stare con il Signore", proprio come diceva Pietro, e noi, nell'esperienza della Pasqua, possiamo ripeterlo e annunciarlo, perchè stiamo imparando che la via alla Gloria deve passare per la Croce, dallo scorrere delle lacrime che purificano, perché di compunzione, di tenerezza e di stupore; le lacrime che sgorgano dalla "pietra" del cuore squarciata nell'incontro con un amore così grande, così bello, così infinito. Dice sant'Efrem: "Un volto lavato da tali lacrime è di una bellezza imperitura". E' bello davvero stare con Gesù, anche in questa tenda che è la nostra carne, con le sue debolezze, con le pesantezze di ogni giorno. E' bello stare con Lui, dimorare nel suo amore, pellegrini e stranieri su questa terra, cercando e desiderando la Patria celeste, il luogo che Lui ci ha preparato. Essa è la tenda eterna, non fatta da mano d'uomo, la vita che non muore, trasfigurata eternamente.  Comprendiamo così quale sia il cammino che ci indica la liturgia di questa domenica: quello di un pellegrino che compie l'esodo che lo conduce alla Terra promessa, la Vita eterna con Cristo. Un cammino impregnato di nostalgia, costellato di precarietà e debolezza, ma colmo di speranza, quella di coloro che hanno il cuore ferito dall'amato: "...esseri umani che nutrono in sé un desiderio tanto possente che supera la loro natura, che bramano più di quanto all'uomo sia lecito attendersi, costoro sono stati feriti dallo Sposo, che ha colpito i loro occhi con un raggio della sua bellezza. L'ampiezza della ferita rivela quale sia lo strale, l'intensità del desiderio lascia intuire chi abbia scoccato il dardo» (Cabasilas). Questa intuizione è l'esperienza della Trasfigurazione, quella che ci attende ogni giorno. E' vero che seguire il Signore è essere con Lui crocifissi. E' vero che ad ogni passo le stigmate del dolore ci trapassano il cuore. E' vero il male, è vero il peccato, è vera la morte. Ma è vera anche la Trasfigurazione di tutto, è vera la bellezza che supera e dà senso ad ogni cosa: "Nella passione di Cristo... l'esperienza del bello riceve una nuova profondità, un nuovo realismo. Colui che è la "Bellezza in sé" si è lasciato percuotere sul volto, coprire di sputi, incoronare di spine: la sacra Sindone di Torino ci racconta tutto ciò in maniera toccante. Ma proprio in quel volto sfigurato appare l'autentica, estrema Bellezza dell' Amore che ama "sino alla fine", mostrandosi così più forte di ogni menzogna e violenza. Soltanto chi sa cogliere questa bellezza comprende che proprio la verità, e non la menzogna, è l'estrema "affermazione" del mondo... Ma ad una condizione: che assieme a Lui ci lasciamo ferire, fidandoci di quell' Amore che non esita a svestirsi della bellezza esteriore, per annunciare proprio in questo modo la Verità della Bellezza" (Joseph Ratzinger, Ferito dal dardo della bellezza). La bellezza crocifissa, la bellezza trasfigurata, la sua bellezza che è la nostra bellezza.

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Altri commenti

1. Congregazione per il Clero
Domenica scorsa la liturgia ci ha presentato Gesù che, nel deserto, ha combattuto vittoriosamente contro il demonio, respingendo le grandi seduzioni alle quali avevano ceduto i nostri progenitori “all’inizio” e anche il popolo ebraico nei quarant’anni dell’esodo.
Oggi la liturgia ci presenta Gesù sul monte della trasfigurazione, vincitore del peccato e della morte, sfolgorante nella sua luce divina. Nell’itinerario quaresimale l’evento della Trasfigurazione è come un anticipo della gloria pasquale, che dona al nostro cammino penitenziale la certezza di un traguardo di gloria e di luce proprio nel bel mezzo delle prove che costellano la nostra vita.
L’evangelista Luca colloca questo evento nel contesto della preghiera, anzi Luca è l’unico evangelista a sottolineare che Gesù “salì sul monte per pregare” (9,28), prendendo con sé Pietro, Giacomo e Giovanni.  Come a dire: la preghiera è la vera Trasfigurazione, di cui l’altra – il volto di Gesù che “cambia d’aspetto” (Lc 9,29) – non è che la conseguenza e il frutto.  E’ la profonda comunione di Gesù con il Padre, è la sua apertura di cuore e di mente al Padre lo spazio, interiore ed esteriore, che rende possibile la trasformazione  del volto e della persona di Gesù. Comprendiamo l’evento della Trasfigurazione di Gesù solo se entriamo nella sua preghiera, ossia nella sua relazione profonda con il Padre e nel suo immergersi nel disegno storico del Padre, che comprende, in un unico abbraccio, l’antica alleanza, significata da Mosè ed Elia, e l’alleanza nuova, partecipata a tutti i credenti, qui rappresentati da Pietro, Giacomo e Giovanni. Nel testo greco di Luca – altra sua specificità rispetto agli altri due racconti dei sinottici - si dice anche che il volto di Gesù nella preghiera “diventa altro”. Non si dice, come nei racconti di Matteo e di Luca, che Gesù “si trasfigurò”, ma si dice che il volto di Gesù è altro rispetto a quello di qualunque altra persona. Non è un particolare di poco conto. Gesù non è semplicemente Elia, o il Battista, o uno dei profeti, ma è “il Cristo di Dio” (cf. Lc 9, 19-20). La sua identità piena non viene dalla terra, ma dal cielo. Gesù  riflette sul suo volto visibile la gloria del Dio invisibile, perché Gesù è “Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero” (dal Simbolo niceno-costantinopolitano). E questa gloria del Figlio di Dio è donata per sempre alla Chiesa: “noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14). Nella preghiera il volto dell’uomo diventa partecipe dell’alterità di Dio. Nella sua relazione con Dio l’uomo non esce dalla storia, ma rimane nella storia con uno sguardo diverso sulla realtà: è lo stesso sguardo di Dio, che non si ferma alle apparenze, ossia alle opacità e alle tenebre del mondo, ma è uno sguardo di luce che dà senso al tutto. Gesù è rimasto nelle pieghe della nostra storia fino alla fine, morendo sulla croce. Ecco perché, al culmine dell’evento della Trasfigurazione, si parla di “esodo”: Luca sceglie appositamente questo termine (è un’altra sua specificità), che evoca la salvezza di Israele dall’Egitto, per caricare la morte di Gesù di tutto il suo significato pasquale e salvifico. 
Sul monte della Trasfigurazione la nube luminosa avvolge anche i discepoli, ossia la Chiesa nascente, la Chiesa di tutti i tempi, e dunque anche la Chiesa di oggi, che riflette – nonostante il peccato dei discepoli di Gesù – la “luce delle genti”  che è il Signore Gesù (“Lumen gentium cum sit Christus…”). Quell’evento che la tradizione colloca sul monte Tabor ha una forte valenza antropologica, perché ci dice che l’uomo è fatto per la luce, anche se si trova immerso nella “valle oscura” (salmo 23) del male, della sofferenza e della morte. L’intera vita cristiana è un esodo, un andare dalla tenebra alla luce, dal peccato alla grazia (sacramento della penitenza), dalle acque della morte alle acque della vita (sacramento del battesimo), dalla manna – “un cibo che non dura” (Gv 6,27), tanto che “i vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti” (Gv 6, 49) – al “pane che discende dal cielo” (Gv 6,50) (sacramento dell’eucaristia), dall’uomo esteriore, che si va disfacendo, all’uomo interiore, che si rinnova di giorno in giorno, per cui “il momentaneo leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria” (2Cor 4, 16-17). L’esodo è passaggio dalla croce del Venerdì santo all’alba del mattino di Pasqua; è passaggio dal mondo vecchio, dove tutto è inesorabilmente sottoposto alla caducità, al mondo nuovo, al mondo della Pasqua di Gesù, anticipato nell’evento della Trasfigurazione, e sacramentalmente donato nel battesimo e nell’eucaristia. La vita cristiana non è solo attesa della gloria futura, ma è accoglienza di tutti quegli sprazzi di luce che il Signore ci dona nel nostro cammino quotidiano.  Fin dal giorno della creazione Dio stesso, contemplando la sua opera, esplose in un grido di gioia: “Che bello!”. Anche nella nostra esistenza quotidiana il Signore ci dona quei semi di luce e di gloria che rischiarano il buio della nostra vita:  quando incontriamo una persona amica, quando contempliamo le bellezze del creato, quando ammiriamo un’opera d’arte, quando sperimentiamo l’ebbrezza di un brano musicale, quando ci arricchiamo di uno scritto sapiente, quando due sposi si amano… Quando facciamo l’esperienza del “bello”, del “vero” e del “buono”, allora incontriamo una lucediversa dalle luci effimere del mondo che passa. Queste luci sono come un “Vangelo abbreviato”, un piccolo Tabor, uno squarcio di cielo che ci aiuta a camminare nella valle della nostra vita senza lasciarci prendere dallo sconforto, dalla paura, dal peso degli eventi.
L’evento della Trasfigurazione ci consegna un altro dono: è la voce del Padre, che non solo dichiara l’identità di Gesù: “Questo è il Figlio mio, l’eletto”, come già al battesimo nel Giordano, ma aggiunge: “Ascoltatelo!” (Lc 9,35). Il grande comandamento dato da Dio ad Israele, lo Shemà Israel (“Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore”, Dt 4,6), si realizza compiutamente in Gesù: è in Lui che la Parola di Dio si è fatta visibile, si è fatta carne e voce. In Lui risuona la pienezza della Parola del Padre, una Parola non abitata dai nostri limiti, non manipolabile dalle mode e dagli interessi mondani via via cangianti, non effimera e passeggera come le parole umane, perché “cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” (Mt 24,35).
L’eucaristia domenicale è come un Tabor settimanale, che ci permette di cogliere un bagliore diverso nel ritmo del nostro vivere. Nella divina liturgia Gesù diventa ancora una volta la luce che rischiara il nostro cammino, donandoci la sua Parola e la sua Carne. E così anche la nostra vita diventa diversa, perché trasfigurata dalla gloria del Signore risorto.

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 2.  Padre Raniero Cantalamessa

Il vangelo di domani è l'episodio della Trasfigurazione. Luca, nel suo vangelo, dice anche il motivo per cui Gesú quel giorno "salì su un alto monte": vi salì "per pregare". Fu la preghiera che rese il suo vestito bianco come la neve e il suo volto splendente come il sole. Secondo il programma illustrato la volta scorsa, noi vogliamo partire da questo episodio per esaminare il posto che la preghiera occupa in tutta la vita di Cristo e cosa essa ci dice sull'identità profonda della sua persona. 

Qualcuno ha detto: "Gesú è un uomo ebreo che non si sente identico a Dio. Non si prega infatti Dio se si pensa di essere identico a Dio". Lasciando da parte per il momento il problema di cosa Gesú pensasse di se stesso, questa affermazione non tiene conto di una verità elementare: Gesú è anche uomo ed è come uomo che prega. Dio non potrebbe neppure avere fame e sete, o soffrire, ma Gesú ha fame e sete e soffre perché è anche uomo. 

Al contrario, vedremo che è proprio la preghiera di Gesú che ci permette di gettare uno sguardo nel mistero profondo della sua persona. È un fatto storicamente attestato che Gesú, nella sua preghiera, si rivolgeva a Dio chiamandolo Abbà, cioè caro padre, padre mio, e perfino papà mio. Questo modo di rivolgersi a Dio, pur non del tutto ignoto prima di lui, è talmente caratteristico di Cristo da obbligare ad ammettere un rapporto unico tra lui e il Padre celeste. 

Ascoltiamo una di queste preghiere di Gesú, riportata da Matteo: "In quel tempo Gesù disse: Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. "Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare" (Mt 11, 26-27). Tra Padre e Figlio c'è, come si vede, una reciprocità totale, "uno stretto rapporto famigliare". Anche nella parabola dei vignaioli omicidi emerge chiaro il rapporto unico, come di figlio a padre, che Gesú ha con Dio, diverso da quello di tutti gli altri che sono chiamati "servi" (cf. Mc 12, 1-10). 

A questo punto sorge però un'obbiezione: perché allora Gesú non si è attribuito mai apertamente il titolo di Figlio di Dio durante la sua vita, ma ha parlato sempre di se come del "figlio dell'uomo"? Il motivo è lo stesso per cui Gesù non dice mai di essere il Messia e quando altri lo chiamano con questo nome è reticente, o addirittua proibisce di dirlo in giro. La ragione di questo modo di comportarsi è che quei titoli erano intesi dalla gente in un senso ben preciso che non corrispondeva all'idea che Gesù aveva della sua missione. 

Figlio di Dio erano detti un po’ tutti: i re, i profeti, i grandi uomini; per Messia si intendeva l'inviato di Dio che avrebbe combattuto militarmente i nemici e regnato su Israele. Era la direzione in cui cercava di spingerlo il demonio con le sue tentazioni nel deserto… I suoi stessi discepoli non avevano capito questo e continuavano a sognare un destino di gloria e di potere. Gesú non intendeva essere questo tipo di Messia. "Non sono venuto, diceva, per essere servito, ma per servire". Egli non è venuto per togliere la vita a qualcuno, ma "per dare la vita in riscatto per molti".

Cristo doveva prima soffrire e morire perché si capisse che tipo di Messia era. È sintomatico che l'unica volta che Gesú si proclama lui stesso Messia è mentre si trova in catene davanti al Sommo Sacerdote, in procinto di essere condannato a morte, senza più possibilità ormai di equivoci. "Sei tu il Messia, il Figlio di Dio benedetto?", gli domanda il Sommo Sacerdote, e lui risponde: "Io lo sono!" (Mc 14, 61 s.). 

Tutte i titoli e le categorie dentro cui gli uomini, amici e nemici, cercano di inquadrare Gesú durante la sua vita, appaiono strette, insufficienti. Egli è un maestro, "ma non come gli altri maestri", insegna con autorità e in nome proprio; è figlio di David, ma è anche Signore di David; è più che un profeta, più che Giona, più che Salomone. La domanda che la gente si poneva: "Chi è mai costui?" esprime bene il sentimento che regnava intorno a lui come di un mistero, di qualcosa che non si riusciva a spiegare umanamente. 

Il tentativo di certi critici di ridurre Gesú a un normale ebreo del suo tempo, che non avrebbe detto e fatto nulla di speciale, è in contrasto totale con i dati storici più certi che possediamo su di lui e si spiega solo con il rifiuto pregiudiziale di ammettere che qualcosa di trascendente possa apparire nella storia umana. Tra l'altro, non spiega come un essere così ordinario sia diventato (a detta di quegli stessi critici) "l'uomo che ha cambiato il mondo". 

Torniamo ora all'episodio della Trasfigurazione per trarne qualche insegnamento pratico. Anche la Trasfigurazione è un mistero "per noi", ci riguarda da vicino. San Paolo, nella seconda lettura dice: "Il Signore Gesù Cristo trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso". Il Tabor è una finestra aperta sul nostro futuro; ci assicura che l'opacità del nostro corpo un giorno si trasformerà anch'essa in luce; ma è anche un riflettore puntato sul nostro presente; mette in luce quello che già ora è il nostro corpo, al di sotto delle sue misere apparenze: il tempio dello Spirito Santo. 

Il corpo non è per la Bibbia un'appendice trascurabile dell'essere umano; ne è parte integrante. L'uomo non ha un corpo, è corpo. Il corpo è stato creato direttamente da Dio, assunto dal Verbo nell'incarnazione e santificato dallo Spirito nel battesimo. L'uomo biblico rimane incantato di fronte allo splendore del corpo umano: "Mi hai fatto come un prodigio. Sei tu che mi hai tessuto nel seno di mia madre. Sono stupende le tue opere" (Sal 139). Il corpo è destinato a condividere in eterno la stessa gloria dell'anima. "Corpo e anima, o saranno due mani giunte in eterna adorazione, o due polsi ammanettati per una cattività eterna" (Ch. Péguy). Il cristianesimo predica la salvezzadel corpo, non la salvezza dal corpo, come facevano, nell'antichità, le religioni manichee e gnostiche e come fanno ancora oggi alcune religioni orientali 

Che dire però a chi soffre? a chi deve assistere alla "sfigurazione" del corpo proprio, o di quello di una persona cara? Per costoro è forse il messaggio più consolante della Trasfigurazione. "Egli trasfigurerà il nostro misero corpo conformandolo al suo corpo glorioso". Saranno riscattati i corpi umiliati nella malattia e nella morte. Anche Gesù, di lì a poco, sarà "sfigurato" nella passione, ma risorgerà con un corpo glorioso, con il quale vive in eterno e al quale, la fede ci dice che andremo a ricongiungerci dopo morte.

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COMMENTI PATRISTICI

Ambrogio
Appaiono Mosè ed Elia, cioè la Legge e il Profeta col Verbo: di fatto la Legge non può sussistere senza il Verbo, né può essere Profeta se non colui che abbia profetizzato a riguardo del Figlio di Dio. E, certamente, quei figli del tuono hanno ammirato nella gloria del corpo anche Mosè ed Elia, ma anche noi vediamo ogni giorno Mosè insieme col Figlio di Dio; vediamo infatti la Legge nel Vangelo, quando leggiamo: Amerai il Signore Dio tuo; vediamo Elia insieme col Verbo di Dio, quando leggiamo: Ecco la Vergine concepirà nel grembo.
Perciò Luca opportunamente aggiunse che parlavano della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme.Essi infatti t’insegnano i misteri della sua dipartita. Anche oggi Mosè insegna, anche oggi Elia parla, anche oggi possiamo vedere Mosè in una gloria più grande. E chi non lo può, quando perfino il popolo dei Giudei poté vederlo, anzi lo vide davvero? Vide infatti il volto di Mosè pieno di fulgore, ma ricevette un velo, e non salì sul monte e per questo errò. Colui che ha visto soltanto Mosè, non ha potuto vedere contemporaneamente il Verbo di Dio. 
Togliamo allora il velo dalla nostra faccia, affinché a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine (2 Cor 3, 18). Saliamo sul monte, supplichiamo il Verbo di Dio, affinché si mostri a noi nel suo aspetto e nella sua bellezza, e si rafforzi e avanzi con successo e regni. Anche questi sono misteri e rimandano a realtà molto profonde; infatti, a seconda della tua disponibilità, per te il Verbo o diminuisce o cresce, e, se non ascendi la vetta di un più profondo discernimento, non ti si fa vedere la Sapienza, non ti si fa vedere la conoscenza dei misteri, non ti si fa vedere quant’è grande la gloria, quant’è stupenda la bellezza posta nel Verbo di Dio, ma il Verbo di Dio ti si mostra come in un corpo, come uno che non ha apparenza né bellezza, e ti si mostra come un uomo percosso, che può esser caricato delle nostre infermità, ti si mostra come una parola nata da uomo, ricoperta dall’involucro dei segni della lettera ma che non risplende della forza dello Spirito. Se invece, mentre lo consideri come uomo, tu credi ch’è stato generato da una Vergine, e a poco a poco ti asseconda la fede che è nato dallo Spirito di Dio, allora cominci a salire il monte. Se vedi ch’Egli, messo in croce, trionfa su la morte invece di essere annientato, se vedi che la terra tremò, il sole scomparì dallo sguardo, le tenebre avvolsero gli occhi degli increduli, le tombe si aprirono, i morti risorsero per dar prova che il popolo Gentile, il quale era morto per Dio, all’irrompere del fulgore della croce è risorto come se si fossero aperti i sepolcri del suo corpo; se vedi questo mistero, allora sei salito su un alto monte, e vedi una diversa gloria del Verbo.
Le sue vesti sono in un modo quando Egli sta in basso e in un altro quando sta in alto. E forse le vesti del Verbo sono le parole delle Scritture e direi quasi il rivestimento dell’intelletto divino: infatti, come Egli apparve in persona a Pietro e a Giovanni e a Giacomo in un aspetto mutato, e il suo bianco vestito rifulse, allo stesso modo anche agli occhi della tua mente già comincia a divenir chiaro il significato delle letture divine. Ecco allora che le divine parole diventano come la neve, e le vesti del Verbo bianchissime...
Pietro vide questa ricchezza, la videro anche quelli che erano con lui, benché fossero oppressi dal sonno. Infatti lo splendore senza confini della divinità soverchia i sensi del nostro corpo. Se già la potenza visiva corporea non riesce a sopportare un raggio di sole in faccia agli occhi di chi guarda, come potrebbero le nostre membra corrotte sostenere la gloria di Dio? Perciò nella risurrezione viene costituito uno stato corporeo tanto più puro e sottile, quanto ormai è stata annientata la materialità dei vizi. E proprio per questo, forse, essi erano oppressi dal sonno, per poter vedere, dopo il riposo, la bellezza della risurrezione. Perciò, allo svegliarsi, videro la sua maestà; nessuno, che non sia sveglio vede la gloria di Cristo. Pietro ne provò grande gioia, e mentre le seducenti realtà di questo mondo non avevano potuto impadronirsi di lui, lo sedusse lo splendore della risurrezione.
È bello per noi, egli disse, stare qui – per lo stesso motivo scrive anche quell’altro: Partire per essere con Cristo è molto meglio (Fil 1, 23) – e non contento di aver espresso la sua contentezza si distingue dagli altri non solo per il sentimento affettuoso ma per la generosità delle opere e, per costruire tre abitacoli, quel lavoratore infaticabile promette il servizio della comune dedizione. E sebbene non sapesse quello che diceva, tuttavia prometteva un atto di amore: non era una storditaggine irriflessiva, ma una generosità intempestiva, che accresce così i proventi delle sue premure. Infatti, il non sapere era proprio della sua condizione, ma il promettere della sua devozione. Però la condizione umana non ha la capacità di costruire un’abitazione a Dio in questo corpo corruttibile, destinato alla morte. ...
Mentre diceva questo venne una nube e li avvolse con la sua ombra. Siffatto avvolger d’ombra è proprio dello Spirito; esso non annebbia i sentimenti dell’uomo, ma mette in luce le realtà nascoste. Lo si trova anche in un altro punto, quando l’angelo dice:E la potenza dell’Altissimo ti adombrerà (Lc 9, 34). E si indica quale ne sia l’effetto quando si ode la voce di Dio che dice:Questi è il mio figlio diletto, ascoltatelo.
Cioè: non è Elia il figlio, non è Mosè il figlio, ma questi è il Figlio, che vedete solo. ...
E mentre risonava la voce, Gesù si trovò solo. Erano in tre, uno solo rimase. Tre si vedono in principio, uno solo alla fine; infatti sono una cosa sola per la perfezione della fede. Del resto il Signore chiede anche questo al Padre, che tutti siano una cosa sola. E non soltanto Mosè e Elia sono una cosa sola in Cristo, ma anche noi siamo l’unico corpo di Cristo. Dunque anch’essi sono accolti nel corpo di Cristo perché anche noi saremo una cosa sola in Cristo Gesù, o forse perché la Legge e i Profeti provengono dal Verbo, e ciò ch’è cominciato dal Verbo culmina nel Verbo; poiché il fine della Legge è Cristo, per la giustificazione di chiunque crede (Rm 10, 4).(Dall’Esposizione del Vangelo secondo Luca, VII, 10-13. 17-21)

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Beda il venerabile
Apparvero Mosè ed Elia nella loro maestà e parlavano della sua dipartita che si sarebbe realizzata a Gerusalemme. Perciò Mosè ed Elia che sul monte parlarono col Signore della sua passione e risurrezione significano le predizioni della Legge e dei profeti che si sono realizzate nel Signore, come ora è evidente a ogni persona dotta e ancora più evidente risulterà in futuro a tutti gli eletti. E giustamente Luca dice che quelli apparvero nella loro maestà, poiché allora si vedrà più apertamente con quanto decoro di verità siano stati proferiti i discorsi divini, non solo quanto al senso ma anche quanto alla forma. In Mosé ed Elia si possono anche comprendere tutti quelli che regneranno col Signore ... Concorda anche il fatto che essi parlavano della dipartita di Gesù, che si sarebbe realizzata a Gerusalemme, perché unica materia di lode per i fedeli diventa la passione del Redentore, e quanto più essi tengono a mente che non si possono salvare senza la sua grazia, tanto più forte conservano sempre in petto la memoria di questa grazia e l’attestano con devota confessione.
Ma quanto più ciascuno di noi gusta la dolcezza della vita celeste, tanto più prova disgusto di tutto ciò che di terreno ci dilettava: perciò giustamente Pietro, vista la maestà del Signore e dei suoi santi, dimentica subito tutto ciò che di terreno aveva appreso, e gode di aderire per sempre alla sola realtà che vede, dicendo: Signore è bene che noi stiamo qui; se vuoi innalziamo qui tre tende, una per te, una per Mosè, e una per Elia
Certo Pietro non sapeva quello che diceva quando nel mezzo della conversazione celeste pensò di fare delle tende. Infatti non sarà necessaria alcuna casa nella gloria della vita celeste, dove nella completa pace, nella luce della contemplazione celeste non resterà da temere alcuna avversità, come testimonia l’apostolo Giovanni che descrivendo lo splendore di questa città superna, dice tra l’altro: Non ho visto tempio in essa perché sono tempio il Signore onnipotente e l’Agnello (Ap 21, 22). 
Ma Pietro ben sapeva che cosa diceva quando disse: Signore, è bene che noi stiamo qui, perché in realtà per l’uomo il solo bene è entrare nel gaudio del Signore e stargli vicino contemplandolo in eterno. Perciò a ragione riteniamo che non abbia goduto mai di un vero bene chi, a causa della sua colpa, non ha mai potuto contemplare il volto del suo Creatore. Che se Pietro, contemplata l’umanità glorificata di Cristo, è preso da tanta gioia da non voler più essere distolto da tale visione, quale beatitudine pensiamo, fratelli carissimi, che abbiano raggiunto coloro che hanno meritato di contemplare l’eccellenza della sua divinità? E se quello considerò sommo bene contemplarne l’aspetto trasfigurato sul monte insieme soltanto con Mosè ed Elia, quale parola può spiegare, quale concetto comprendere quale sarà la gioia dei giusti quando si avvicineranno al monte Sion, alla città del Dio vivente, Gerusalemme, e alla moltitudine degli angeli (cfr. Eb 12, 22), e quando contempleranno Dio, creatore di questa città non attraverso uno specchio, per enigma, ma a faccia a faccia (1 Cor 13, 12)? Di questa visione proprio Pietro parla ai fedeli a proposito del Signore: Nel quale ora credete pur non vedendolo; e quando lo vedrete esulterete di letizia inenarrabile e glorificata (1 Pt 1, 8)
Segue: Mentre egli ancora parlava ecco una nube lucente li adombrò, ed ecco dalla nube una voce che disse: "Questo è il Figlio mio diletto nel quale mi sono compiaciuto; ascoltatelo". Poiché chiedevano di innalzare le tende, vengono ammoniti dalla copertura della nube splendente che non sono necessarie case nella dimora celeste, dove il Signore protegge tutto con l’ombra eterna della sua luce. Colui infatti che per quaranta anni stese una nube a loro protezione perché il sole o la luna non scottassero né di giorno né di notte il popolo che marciava nel deserto, quanto più protegge nei secoli col velo delle sue ali quelli che dimorano nelle tende del regno celeste? Sappiamo infatti, per insegnamento dell’apostolo che se la nostra casa in cui abitiamo sulla terra viene distrutta, noi abbiamo un altro edificio che è opera di Dio, una dimora eterna, che non è stata costruita dalla mano dell’uomo e che si trova in cielo.
Poiché desideravano contemplare il volto risplendente del Figlio dell’uomo, venne il Padre ad affermare con la sua voce che quello era il suo Figlio diletto nel quale si era compiaciuto, perché dalla gloria della sua umanità, che vedevano, imparassero a sospirare di contemplare la presenza della divinità, che è uguale a quella del Padre. Ciò poi che la voce del Padre dice del Figlio:Nel quale mi sono compiaciuto, lo attesta altrove anche il Figlio: Colui che mi ha mandato è con me e non mi lascerà solo, perché io faccio sempre quello che gli è gradito (Gv 8, 29). E aggiungendo ascoltatelo, il Padre ha manifestato che quello era proprio colui del quale Mosè parlava al popolo al quale aveva dato la legge: Il vostro Dio vi susciterà un profeta dai vostri fratelli, che ascolterete come me stesso, secondo tutto quanto vi avrà detto (Dt 18, 15). Non vieta infatti di ascoltare Mosè ed Elia, cioè la Legge e le profezie, ma fa capire a tutti costoro che si deve preferire l’ascolto del Figlio che è venuto ad adempiere la Legge e i Profeti, e comanda di anteporre la luce della verità del Vangelo a tutti i simboli e all’oscurità dell’Antico Testamento. Con provvidenziale disposizione viene rafforzata la fede dei discepoli perché non vacilli, a causa della crocifissione del Signore, perché nell’imminenza della croce si dimostra come la sua umanità sarebbe stata sublimata dalla luce celeste in virtù della risurrezione; e la voce del Padre attesta che il Figlio è per divinità coeterno a lui, perché al sopraggiungere dell’ora della passione quelli si dolessero meno della sua morte, ricordando che era sempre stato glorificato da Dio Padre nella divinità colui che, subito dopo la morte, sarebbe stato glorificato nell’umanità. 
Ma i discepoli che, in quanto carnali, erano ancora di debole consistenza, udita la voce di Dio, per timore caddero faccia a terra. Il Signore perciò, autorevole maestro in tutto, li consola parlando loro e toccandoli li fa alzare.
(Dall’Omelia I, 24 passim)