giovedì 21 marzo 2013

Amare la persona, curare la malattia



Ricorre oggi la Giornata Mondiale della Sindrome di Down, una malattia causata da un cromosoma soprannumerario nella coppia 21. A fare questa scoperta nel 1959 è stato il genetista francese Jerome Lejeune, medico cattolico che dedicò la sua vita ai bambini affetti da questa sindrome. Solo nella sua clinica di Parigi seguiva 5.000 piccoli pazienti, di ciascuno ricordava il nome e ai loro genitori diceva sempre: “dobbiamo amare il bambino e curare la malattia”. Grazie alle sue scoperte in campo genetico, di cui quella della trisomia 21 è soltanto la più famosa, Lejeune divenne uno scienziato famoso e stimato in tutto il mondo, ma la sua carriera venne stroncata dalle sue posizioni sul tema dell’aborto, contro cui si schierò apertamente. “Il principio di mio padre era che qualunque vita valesse la pena di essere vissuta – racconta la figlia del genetista francese, Clara Lejeune, alla Nuova Bussola Quotidiana  – e questo principio non è solamente cattolico; anche il giuramento di Ippocrate ha dentro questo valore: rispettare chiunque dal concepimento fino alla morte. Se metti la persona al centro cambia completamente il modo di vedere le cose, perché invece di vedere una malattia, vedi una persona che ha una malattia, facendo di tutto per curarla”.
Lo scorso 24 febbraio Clara Lejeune ha raccontato la storia di suo padre durante un incontro alla Fondazione San Giacomo, a Busto Arsizio, sul tema della famiglia. “Mio padre decise di fare il medico quando aveva 16 anni e voleva diventare chirurgo. Tentò per due volte l’esame di ammissione a chirurgia, ma entrambe le volte venne bocciato. La terza e ultima volta mentre si recava a fare l’esame prese la metropolitana nel verso sbagliato e quindi non diventò mai un chirurgo. Iniziò a lavorare in un ospedale dove seguiva bambini che venivano chiamati mongoloidi, ma nessuno sapeva spiegare la differenza tra loro e i bambini sani”. La genetica era ancora agli inizi e il giovane Lejeune venne a contatto con gli studi di uno scienziato giapponese, grazie ai quali riuscì a intuire l’origine cromosomica della sindrome di Down. “Mio padre in quel periodo teneva delle lezioni negli Stati Uniti spiegando la sua scoperta, ma nessuno gli credeva. Non avendola ancora pubblicata chiunque avrebbe potuto rubargliela. Tornato a Parigi, pubblicò la sua scoperta e questo fu un nuovo inizio per la genetica, per la prima volta in grado di spiegare una malattia intellettuale. Mio padre ricevette diversi premi e iniziò a fondare centri di genetica in tutto il mondo: negli Stati Uniti, in Italia, in Germania, in Israele. Avrebbe potuto vincere il Premio Nobel per questo”.
Ma nel 1971, anno in cui iniziò il dibattito per promuovere una legge per legalizzare l’aborto, Lejeune si schierò a favore della vita. “Ci fu un dibattito televisivo in Francia per promuovere questa legge – racconta Clara – e un filmato prendeva proprio come esempio un bambino con la sindrome di Down. Il giorno dopo in clinica arrivò da lui un bambino Down di 10 anni che piangeva inconsolabile. La madre spiegò che aveva visto il dibattito in televisione. Il bimbo disse a mio padre: vogliono ucciderci, tu sei il nostro dottore e ci devi salvare, perché siamo troppo deboli per farlo da soli. Quel giorno mio padre tornò a casa e ci disse: devo trovare il modo di curare questi bambini, se non li proteggo ho fallito”. Per farlo gli è bastato riconoscere semplicemente la verità, che è una verità della natura prima di tutto. Spiega Clara: “Mio padre diceva sempre: dico queste cose non perché sono cattolico, ma perché sono un medico e devo dire la verità. La vita comincia dallo sviluppo dell’embrione, lì c’è già tutto, c’è già chi sarà quella persona, se sarà brava in matematica o se nuoterà bene. La scienza dice questo, è la realtà dei fatti”.
Il grande genetista sapeva che l’avrebbero osteggiato. “Si trovava negli Stati Uniti – prosegue Clara – all’Istituto per la salute e fece una battuta in inglese in relazione al dibattito sull’aborto: l’Istituto della Salute (Institute of Health) rischiava di diventare l’Istituto della Morte (Institute of Death). Quel giorno scrisse a mia madre: oggi ho perso il Premio Nobel”. Fino ad allora Lejeune era stato chiamato spesso in televisione come esperto su temi scientifici e di bioetica ma, dopo aver preso questa posizione, tutte le porte gli furono chiuse. “Tuttavia non se ne pentì mai” dice Clara. “A partire da quel momento diventò per lui difficile trovare fondi per le sue ricerche, ma aveva quei 5.000 piccoli pazienti che non voleva lasciare e fu per loro uno dei suoi ultimi pensieri prima di morire, la mattina di Pasqua del 1994”.
 “Spesso accadeva che mio padre ricevesse una telefonata di una coppia che aspettava un bambino con la sindrome di Down – spiega Clara alla Nuova Bussola Quotidiana – e allora smetteva di fare quello che stava facendo e andava ad incontrarli, in qualsiasi giorno, anche a Natale, per dirgli semplicemente: questo bambino è vostro figlio, qualsiasi cosa accada, voi già lo amate”. Lejeune visitava questi piccoli sulle ginocchia della mamma, chiamandoli per nome. Per alcuni genitori quello è stato il momento in cui hanno capito che avevano un figlio, che lo amavano. La malattia era detestata, non il bambino.

 

Clara, che ha otto figli naturali e uno adottivo, è autrice del libro “La vita è una sfida”, dove racconta la storia della sua famiglia. È inoltre la fondatrice della Fondazione Jerome Lejeune, che cerca di portare avanti l’opera umana e scientifica di suo padre, per il quale nel 2007 l’arcivescovo di Parigi ha aperto una causa di beatificazione. “Con la Fondazione cerchiamo di supportare la ricerca in tutto il mondo, per cercare di trovare il modo per silenziare il cromosoma in più della sindrome di Down, oltre a fare ricerca su altre malattie genetiche meno note. Questo è il futuro della medicina. In molti casi le persone dicono che essere cattolico vuol dire essere all’antica, contro il futuro. Invece è proprio il contrario, perché è credendo che puoi curarli e puoi costruire il futuro. Una società che dà la possibilità di uccidere non è una società di speranza; costruire una società di speranza significa prendere ogni essere umano per quello che è e credere che la vita valga sempre la pena di essere vissuta. La voce di mio padre era la voce della speranza”. (B. Consonni)
Fonte: La nuova bq