domenica 31 marzo 2013

Scola - Caffarra - Forte: Omelie di Pasqua 2013

Pontificale di Pasqua


Arcidiocesi di Milano


Domenica di Pasqua nella Risurrezione del Signore

At 1,1-8a; Sal 117; 1Cor 15,3-10a; Gv 20,11-18

Duomo di Milano, 31 marzo 2013



Omelia di S.E.R. Card. Angelo Scola, Arcivescovo di Milano


1. Dalle tenebre del Venerdì Santo e dalla discesa agli inferi del Sabato Santo, la liturgia della Chiesa, attraverso la solenne Veglia pasquale, ci ha condotto a questo radioso mattino di Risurrezione del Signore.
Oggettivamente parlando la Pasqua è il giorno definitivo della storia dell’umanità. Un giorno segnato da un inaudito paradosso. La Chiesa, infatti, ci parla – lo ascolteremo nel Prefazio – di una morte beata: «Con una morte veramente beata vince per sempre la loro morte» (Prefazio). Come può la morte essere beata? Non siamo qui messi di fronte all’assurdo più radicale che la ragione non può sopportare se vuol continuare a dirsi tale? Può l’uomo di oggi, consapevole delle strabilianti scoperte della bioingegneria, delle neuroscienze, della microfisica dare credito ad un simile annuncio? Può reggere questo annuncio di fronte alla assillante richiesta di prove ben documentate propria della sensibilità dei nostri contemporanei? Disincantati fin da bambini di fronte a tutto ciò che non è empiricamente verificabile, possiamo ragionevolmente aderire e prendere parte alla gioia dell’Alleluia Pasquale?
, se si mantiene alla ragione tutta la sua ampiezza. In questo caso, come molti scienziati credenti testimoniano, si scopre che mai la scienza rigorosa è nemica della fede autentica. Anche per l’uomo post-moderno, che giustamente si affida alle scienze e alle sofisticate tecnologie per scoprire come è fatta la realtà, la morte singolare di Cristo è veramente beata.
Cerchiamo di comprenderlo meglio.
La singolare morte di Cristo è beata anzitutto perché il Signore Gesù è il protagonista della Sua morte. Egli, in definitiva, non l’ha subìta, ma l’ha scelta, l’ha misteriosamente voluta, in obbedienza al Padre. E lo ha fatto proprio per poter riscattare, dal di dentro e dal profondo, la nostra comune morte, ogni morte umana. Sulla croce Cristo sale liberamente. Così sulla croce morte e libertà si identificano. Giustamente la Chiesa chiama Gesù Risorto «la nostra vittima pasquale». Donando totalmente se stesso per espiare i nostri peccati (vittima) Egli ci fa passare dalla morte alla vita (pasqua).
In secondo luogo il mistero della libertà di Cristo che si consegna alla morte per noi ha svelato definitivamente agli uomini la verità dell’amore, consentendo alla nostra libertà di attingere il suo più alto livello: l’essere per l’altro, per il suo bene.
Gesù che ama in questo modo può dire – ne ha il diritto – ad ogni uomo e ad ogni donna, qualunque sia la situazione in cui versa: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?» (Vangelo, Gv 20,15).
Solo Gesù che ha fatto della morte fonte di beatitudine può asciugare le lacrime che, inevitabilmente, scolpiscono il volto degli uomini. Solo Lui può abbracciare l’uomo offrendosi come definitiva compagnia per la sua vita.

2. Domandiamoci allora, carissimi: qual è la strada per credere ed imparare a vivere, anche nel nostro tempo, di questa morte beata? Che prove ci dà il Risorto? San Luca, nella Lettura degli Atti, così si esprime, senza possibilità di equivoci: «Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove» (Lettura, At 1,3). L’Apostolo Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi, identifica queste prove con la testimonianza dei primi: «Apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta (…) Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve a me» (Epistola, 1Cor 15,5-8).
Il modo di agire di Dio è sempre lo stesso: Egli non vuole sopraffare i Suoi figli risparmiando loro la strada del coinvolgimento personale, il cammino della libertà, la via dell’amore. L’Epistola ci dice che il Risorto appare e parla a precisi testimoni. La prova ultima della Sua attuale presenza tra noi sono questi testimoni. Il Signore ha voluto aver bisogno degli uomini affinché il Suo Spirito potesse garantire il suo essere contemporaneo a tutti i tempi e luoghi.
Per incontrare Gesù Risorto non c’è altra strada che la testimonianza: non ci sono scorciatoie che ci esimano dal fare spazio, per grazia e fede, al testimone. È questa la responsabilità fondamentale del cristiano intrisa di abbandono e di amore.

3. Partecipando alla certezza dei testimoni, non solo noi riconosciamo il Risorto, ma conosciamo pienamente noi stessi. Paolo lo dice nel versetto finale dell’Epistola che abbiamo ascoltato dopo essersi riferito al dono immeritato dell’apparizione del Risorto, a lui che è stato persecutore della Chiesa: «Per grazia di Dio sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana» (Epistola, 1Cor 15,10). Nel conoscere Cristo Risorto, Paolo si ri-conosce.
La luce della Pasqua ci offre chiarezza sulla nostra identità: noi siamo, per la misericordia del Padre e solo per essa, figli redenti. Questa è la speranza che non muore: dinanzi al Crocifisso risorto veramente possiamo dire: Ave Crux, spes unica!

4. Dalla morte beata e dall’essere testimoni scaturisce un compito pieno di gioia nei confronti di ogni fratello uomo.
«Và dai miei fratelli» (Vangelo, Gv 20,17). Le parole del Risorto a Maria di Màgdala attraversano i duemila anni di storia che ci separano da quel santo mattino per raggiungere, come in una lunga catena anello dopo anello, ciascuno di noi, qui ed ora. «Va’ dai miei fratelli»: è impressionante rendersi conto, ancora una volta, che il Risorto chiama gli apostoli, e in essi tutti gli uomini, miei fratelli. Egli, infatti, ha abbattuto ogni muro di discordia e di separazione e, nella Pasqua, ha radunato, per il dono dello Spirito, un popolo di figli a gloria di Suo Padre. Non ci sono più bastioni da difendere, solo strade da percorrere incontro agli uomini.
Raggiunti dai testimoni del Risorto, siamo chiamati ad essere anche noi testimoni della Sua presenza nel mondo attraverso la nostra umanità cambiata. Questa è l’unica nostra ricchezza e l’orizzonte totale della nostra esistenza. Non a caso il Concilio Vaticano II insegna che «tutto ciò che di bene il popolo di Dio può offrire all'umana famiglia, nel tempo del suo pellegrinaggio terreno, scaturisce dal fatto che la Chiesa è “l'universale sacramento della salvezza” che svela e insieme realizza il mistero dell'amore di Dio verso l'uomo» (Gaudium et spes 45). Un popolo di uomini e donne redenti, tesi ad edificare un mondo dal volto umano perché sorretti dalla certezza dell’eternità, questa è la Chiesa per il mondo.

5. Domandiamo con insistenza a Gesù Risorto la grazia di essere Suoi testimoni in forza della Sua misericordia che «serba i nostri cuori da ogni mondana tristezza» (All’inizio dell’Assemblea liturgica) e fa fiorire per tutti la speranza. Amen.

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La lumière de Pâques éclaire qui nous sommes vraiment : par la miséricorde du Père nous sommes fils sauvés. Surgit ainsi l’espérance qui ne meurt jamais. Joyeuses Pâques !

The light of Easter enlightens who we really are: for the Father’s mercy we are saved children. This is the hope that does not pass away. Happy Easter!

Das Osterlicht erhellt wen wir eigentlich sind; um des barmherzigen Vaters willen sind wir erlöste Kinder. Das ist die Hoffnung, die nicht zu Ende geht. Gesegnetes Osterfest!

La luz de la Pascua ilumina verdaderamente nuestra identidad: somos, por la misericordia del Padre, hijos salvados. Esta es la esperanza que no muere.¡Feliz Pascua de Resurrección!

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Di seguito il testo dell’omelia pronunciata ieri sera nella cattedrale di San Pietro dal cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, durante la Veglia Pasquale e S. Messa “della notte”.  Durante la solenne celebrazione, il porporato ha impartito il Battesimo, la Cresima e l’Eucaristia a otto adulti che hanno compiuto il cammino di preparazione durante la Quaresima.

1. Cari fratelli e sorelle, carissimi catecumeni: il Signore Iddio ha compiuto le sue più grandi opere di notte. Nella grande narrazione della storia della nostra salvezza, che abbiamo ascoltato, è questo un fatto ricorrente.
Quando «Dio creò il cielo e la terra, la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso». La prima notte: la notte in cui avvenne l’atto creativo originario.
Quando Dio liberò definitivamente il suo popolo dal dominio del Faraone, «durante la notte risospinse il mare con un forte vento d’oriente, rendendolo asciutto; le acque di divisero». La seconda notte: la notte in cui avvenne l’atto salvifico di Israele.
Quando Dio nacque nella nostra natura umana, a Betlemme, ciò avviene in una regione nella quale “alcuni pastori vegliavano di notte” [cfr. Lc 6, 8]. La terza notte: la notte in cui Dio è apparso sulla terra per vivere fra gli uomini.
Quando «passato il sabato, all’alba del primo giorno della settimana Maria di Magdala e l’altra Maria si recarono al sepolcro…non trovarono il corpo di Gesù». La quarta notte: la notte «in cui Cristo, spezzando i vincoli della morte risorge vincitore dal sepolcro».
Cari fratelli e sorelle, questa è una costante troppo ricorrente nell’agire di Dio perché non nasconda una ragione profonda. Che cosa ha voluto dirci?
In primo luogo, dove Dio è andato a cercare l’uomo; dove l’uomo si trovava: nella notte, nell’oscurità. Quale notte e quale oscurità? Il profeta Baruck ci ha risposto: «perché ti contamini con i cadaveri e sei annoverato fra coloro che scendono negli inferi? Tu hai abbandonato la fonte della sapienza!». Quando l’uomo abbandona la fonte della sapienza, la luce del Signore che illumina ogni uomo [cfr. Gv 1, 9], si trova a brancolare nelle tenebre. Non sa più né dove deve andare, né come andarvi. Perde perfino la consapevolezza di sé stesso.
Ma c’è qualcosa di più profondo, di più oscuro, significato dalla notte nella quale Dio è andato a cercare l’uomo: la notte della morte; le tenebre di una morte eterna. Chi abbandona la via del Signore, imbocca la via della morte. Non solo e non principalmente la morte fisica, ma la condizione di una solitudine senza fine, privato della beatitudine di chi vive con Dio. Dio, fattosi uomo, è venuto ad abitare «nelle tenebre e nell’ombra della morte», per prenderci per mano e tirarci fuori da questa regione dei morti. Attraverso il profeta, poc’anzi ci ha detto: «per un breve istante ti ho abbandonata [«sei polvere, ed in polvere ritornerai»]; ma ti riprenderò con immenso amore».
Egli ci ha ripreso perché è risorto, ed in Lui ciascuno di noi ha la possibilità reale di rientrare nella luce della divina sapienza, e nel possesso di una vita eterna. La Chiesa, piena di stupore, ha cantato: «questa è la notte che salva su tutta la terra i credenti nel Cristo dall’oscurità del peccato e dalla corruzione del mondo, li consacra all’amore del Padre e li unisce alla comunione dei Santi». 
2. Ma in che modo noi possiamo divenire partecipi di questo evento di salvezza? In che modo la nostra notte – la notte dei nostri errori e peccati, la notte della nostra morte – potrà “splendere come il giorno, ed essere fonte di luce per la nostra gioia”? L’apostolo Paolo ci dà la risposta.
Scrivendo ai Romani, egli dice: «se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo amore che Dio lo ha resuscitato dai morti, sarai salvo» [Rom 10, 9]. La porta che ci fa uscire dalle tenebre e dall’ombra della morte; la porta che ci fa entrare nella luce della vita è la fede. Credi nella risurrezione di Gesù, e sarai salvo.
La fede ci salva perché mediante il sacramento del battesimo fa accadere in noi ciò che Gesù ha vissuto nella notte di Pasqua. Ascoltiamo l’apostolo: «per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu resuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova».
Ecco, fratelli e sorelle, in che modo la nostra notte può essere illuminata dal giorno che è Cristo: mediante la fede ed i sacramenti.
«Voi tutti…siete figli della luce e del giorno; noi non siamo della notte, ne delle tenebre» [1Tess 5,5]. «Svegliati, o tu che dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà» [Ef 5,14]. Così veramente sia. 

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La povertà che rende liberi
di Bruno Forte
Da “Il Sole 24 Ore” di oggi, 31 marzo 2013, Pasqua di Reurrezione.
In questa Pasqua del 2013 vorrei riflettere su un tema, su cui ritorna con insistenza Papa Francesco:
la scelta della povertà e dei poveri. Mi sembra che esso abbia molto da dire a tutti noi, e forse ancor
più a coloro che hanno responsabilità politiche e istituzionali, chiamati come sono al servizio del
bene comune.
Ciò che colpisce nel nuovo Vescovo di Roma è che le sue parole e i suoi gesti non hanno nulla di
retorico: si avverte che sono la punta di iceberg di una profonda maturazione, vissuta nel silenzio e
nell'eloquenza della carità. Proprio così, è un soffio di vangelo quello che sta raggiungendo i cuori
di tanti attraverso questo Papa, «venuto dalla fine del mondo».
Da molte parti mi è stato testimoniato di un ritorno alla comunione con Dio di persone lontane, che
si sono sentite toccate dalla buona novella di Francesco, che ricorda a tutti quanto siamo amati dal
Padre e quanto sia importante affidarsi senza riserve alla misericordia, rivelata e donata in Gesù. Ed
è al Nazareno che vorrei guardare per cogliere il senso profondo di questo nuovo risuonare della
buona novella ai poveri. Lo vedo nel Getsemani, alla fine del suo cammino, nel momento in cui gli
si pone dinanzi l'estrema conseguenza della sua scelta di amore. Vedo il suo sudore di sangue, e
percepisco la tentazione della fuga dal destino di croce che lo aspetta. I Vangeli ci parlano della sua
angoscia, della sua tristezza, della sua paura. Il Figlio di Dio fatto uomo avverte un immenso
bisogno di prossimità amicale: "Restate qui e vegliate con me" (Matteo 26,38). Ma è lasciato solo,
come avviene nelle scelte fondamentali di ognuno: "Non siete capaci di vegliare un'ora sola con
me!" (26,40).
Ciò che si pone dinanzi alla sua coscienza umana, e nel modo più violento, è l'alternativa radicale:
salvare la propria vita o perderla, scegliere fra la propria volontà e la volontà del Padre: "Abbà,
Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice!" (Marco 14,36). Nel momento in cui
conferma il "sì" della sua libertà, si aggrappa totalmente a Dio e lo chiama col nome della
tenerezza: "Abbà!". Non a caso è questa l'unica volta nei Vangeli in cui è conservata la forma
aramaica confidenziale dell'invocazione al Padre! Il "sì" di Gesù nasce dall'amore senza riserve: la
sua è la libertà dell'amore! Nell'ora suprema si rimette nelle mani del Padre con una confidenza
infinita, e vive la sua libertà come radicale povertà, libertà da sé per il Padre e per gli altri. È la
libertà di chi trova la propria vita perdendola, la capacità di rischiare tutto per Dio e per gli altri,
specialmente per i poveri, l'audacia di chi vive l'esodo da sé senza ritorno dell'amore.
Traspare qui l'opzione fondamentale del Cristo, la scelta su cui gioca tutto: Gesù è libero per amore,
totalmente finalizzato al Padre e agli altri. Egli testimonia come nessuno sia così libero, quanto chi è
libero dalla propria libertà a motivo di un amore più grande. Libero da sé, egli esiste per il Padre e
per gli altri: non si fa strada, fa strada a Dio e ai poveri. Questa è la sua opzione fondamentale, che
fa di lui veramente "l'uomo libero". Gesù attua quest'opzione fondamentale nelle molteplici scelte
della sua vita: tuttavia, la scelta in cui più intensamente essa sembra tradursi è quella della povertà e
dei poveri. Gesù è il povero: la sua non è la povertà passiva, la miseria che si subisce e che viene
avvertita come scandalo e castigo da cui liberarci.
Il Dio della Bibbia non tollera questa miseria, offesa alla dignità della creatura e allo stesso
Creatore. La povertà di Gesù è scelta volontariamente, espressione di libertà radicale e di fiducia
incondizionata nel Padre, di condivisione e di tenerezza per i poveri, è povertà attiva, nello spirito
della tradizione dei "poveri di Dio" (gli "anawim"), amici e servi del Signore, che in Lui si rifugiano
con amore. Gesù è libero dalle ricchezze di questo mondo e dagli altri. Libero da sé, egli è libero
per dare la sua vita a favore degli altri, per servire i poveri e farli sentire amati di un amore più forte
della morte. Nato povero, è vissuto da povero, ha operato in assoluta povertà, senza avere neppure "dove posare il capo" (Matteo 8,20), ed è morto povero, privo persino dell'ultimo segno di possesso,
le vesti. Proprio così, egli si avvicina agli altri non per possederli o strumentalizzarli, ma per amarli
così come essi sono e per donarsi loro disinteressatamente, "come colui che serve" (Luca 22,27). La
sua povertà non è pessimismo o disprezzo del mondo: egli ha amato intensamente la vita, come
dimostra il suo sudore di sangue di fronte all'avvicinarsi della morte; ha amato anche teneramente
questa terra, come traspare dal suo parlare dei gigli del campo, degli uccelli del cielo e di tutto quel
mondo così vivo e palpitante, che si affaccia nelle sue parabole; egli ha amato senza riserve il suo
prossimo, perfino i suoi crocifissori, per i quali ha chiesto il perdono al Padre nell'ora oscura e
tremenda della croce.
Il volto della sua povertà è quello di un amore gratuito e totale, che non si ferma di fronte alla
resistenza o al rifiuto, e si dona con slancio di fronte al bisogno del povero. Questo amore ha dato
senso, unità e forza alla sua vita e gli ha riempito il cuore di gratitudine per suo Padre, "Signore del
cielo e della terra, che ha tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le ha rivelate ai
piccoli" (Matteo 11,26). Prima di annunciarle con la parola, Gesù ha sperimentato nella vita le
beatitudini del Regno, incarnando con le scelte la parola annunciata. La sua povertà lo rende uomo
della gioia, capace di meraviglia e di ringraziamento di fronte al dono della fedeltà sempre nuova
del Padre. Ciò che è nuovo in Papa Francesco, povero e amico dei poveri, non è allora l'attenzione
alla povertà, scelta e amata da Gesù nel suo donarsi ai poveri, ma il fatto di rendere credibile come
si possa essere poveri e servire i poveri oggi, anche dall'alto della cattedra più autorevole del
mondo. E se questo ci tocca tutti, come non toccherà i potenti della terra, quanti hanno
responsabilità di governo, quanti dovrebbero attendere al bene comune coma all'assoluta priorità del
loro impegno? Qualunque scelta faranno i nostri politici per il futuro di tutti noi, rispondano prima -
"per favore" (come ama dire papa Francesco) - alla sola domanda che conta: ciò che sto scegliendo
è per il bene dei poveri? E nelle scelte che faccio sono io stesso così povero da anteporre il bene
comune al mio e a quello del mio gruppo di potere? Rispondere onestamente a queste domande è
cominciare a vivere la resurrezione di cui questi giorni ci parlano. Buona Pasqua a tutti nel segno di
un nuovo amore ai poveri e alla povertà come stile di vita!