martedì 30 aprile 2013

Mondanità spirituale, catastrofe per la Chiesa

Dom Anscar Vonier
Ascoltando il Magistero di Papa Francesco abbiamo sentito più volte queste parole - da ultimo nell'omelia a Santa Marta il 30 aprile -, nuove nell’insegnamento dei Pontefici; «mondanità spirituale». Si tratta, secondo il Pontefice, del rischio più grave che corre la Chiesa: come ha scritto ai vescovi argentini il 25 marzo, se la Chiesa si chiude nell’«autoreferenzialità» e nel «narcisismo» allora l’esito, catastrofico, è la mondanità spirituale.

Ma che cos’è la mondanità spirituale? E da dove viene questa idea?Leggiamo in questi giorni che si tratta di una categoria che origina da un teologo confratello gesuita di Papa Francesco, il cardinale Henri de Lubac (1896-1991). E in effetti de Lubac nel suo libro «Meditazioni sulla Chiesa», del 1953, definisce la mondanità spirituale come «il pericolo più grande per la Chiesa – per noi, che siamo Chiesa – la tentazione più perfida, quella che sempre rinasce, insidiosamente, allorché tutte le altre sono vinte, alimentata anzi da queste vittorie». E commentava: «Nessuno di noi è totalmente sicuro da questo male. Un umanesimo sottile, avversario di Dio Vivente, e, segretamente, non meno nemico dell’uomo, può insinuarsi in noi attraverso mille vie tortuose. La curvitas originale non è mai in noi definitivamente raddrizzata. Il “peccato contro lo Spirito” è sempre possibile». 

Tuttavia in questo brano il futuro cardinale francese non presenta la categoria della mondanità spirituale come sua. Riferisce i commenti a «quella che dom Vonier chiamava ‘mondanità spirituale’». E gran parte della pagina, divenuta famosa, di de Lubac, consiste di citazioni debitamente virgolettate del benedettino tedesco, naturalizzato inglese, dom Anscar Vonier O.S.B. (foto,1875-1938). Sconosciuto fuori delle isole britanniche, dom Vonier è tuttora famoso in Inghilterra. Il cognome sembra francese, ma si tratta in realtà di un tedesco, che aveva seguito un confratello della sua regione, la Svevia, diventando benedettino nella comunità francese de La-Pierre-qui-Vire da cui poi era passato a Buckfast, un’abbazia del Devonshire distrutta dagli anglicani e che Vonier ricostruì, diventando famoso, nello splendore del neo-gotico ottocentesco. 

La storia di Vonier ha del romanzesco, e c’entra con l’Argentina del nuovo Papa. Giovane benedettino, gli fu chiesto di accompagnare il suo superiore – che intendeva occuparsi della ricostruzione di Buckfast – in un viaggio presso le comunità benedettine argentine. Nel 1906 i due furono coinvolti nella tragedia del «Sirio», una nave di emigranti italiani salpata da Genova che naufragò in Spagna – il caso divenne purtroppo famoso perché il comandante italiano, anticipando vicende più recenti, si salvò abbandonando la nave – causando la morte di almeno 150 persone. Il superiore di Vonier sparì in mare, ma il giovane benedettino fu tra i rari superstiti, e giurò di riprendere il progetto della ricostruzione di Buckfast. Lo fece, divenne abate e trasformò – non senza una sagacia nel gestire i rapporti con i media – l’abbazia in quella che è tuttora una delle maggiori mete turistiche cattoliche inglesi, favorita anche dal trovarsi a margine di quella brughiera di Dartmoor in cui si svolge il famoso romanzo con Sherlock Holmes «Il mastino dei Baskerville».

Figura mediatica più nota di vescovi e cardinali, Vonier era però anche quello che molti consideravano il maggiore teologo inglese del suo tempo e uno dei più amati autori di manuali di vita spirituale. Il suo stesso successo e la sua popolarità tra i giornalisti lo predisponevano a riflettere sulla mondanità spirituale. Seguiamo la sua spiegazione del concetto nel libro «Lo Spirito e la Sposa» (The Spirit and the Bride), del 1935, che è più ampia delle citazioni riportate da de Lubac nel 1953.

Vonier – i cui libri sono ancora oggi ristampati in inglese, e si leggono con grande piacere e profitto – è molto attento all’influenza degli angeli, buoni e cattivi, sulla nostra anima. Il contesto è un capitolo sui doni dello Spirito Santo e su come il peccato contro lo Spirito Santo consista nell’«estinguere lo Spirito», nel sottrarsi consapevolmente alla sua influenza. Questo è stato il peccato di Lucifero. In quanto angeli, spiega Vonier, Lucifero e i suoi seguaci «non potevano peccare a causa delle passioni, il loro unico rischio era quello che si compiacessero di se stessi, dei loro stessi doni, perfino dei loro poteri soprannaturali, senza più affidarsi alla volontà che era al di sopra della loro, al movimento dello Spirito». I poteri soprannaturali di tutti gli angeli, compresi quelli di Lucifero, erano una cosa buona. Quello che non era buono era amarli per se stessi, usarli per se stessi, «rifiutarsi di andare dove lo Spirito conduce».

Questo rischio lo corre anche la Chiesa. Essa nella storia consegue tanti «risultati umani», si conquista anche tanta «gloria temporale». Costruisce – dom Vonier ne aveva fatta diretta esperienza – splendide chiese, aiuta i poveri, soccorre gli ammalati. Qualche volte il mondo perseguita: ma altre volte applaude queste «eccellenze» della Chiesa. E qui sorge il pericolo della «mondanità»: che non è riferito, spiega don Vonier, a «quanto normalmente s’intende con questa espressione». Spesso intendiamo per mondanità della Chiesa «l’amore della ricchezza e del lusso di certi suoi dignitari»: questo è male, certo, «ma non è il male principale». La Chiesa ha sempre trovato forze per superare abbastanza rapidamente le crisi di mondanità materiale. Ha avuto molte più difficoltà con la mondanità spirituale.

Non senza l’intervento del Demonio, la mondanità spirituale parte da un rifiuto ostentato – talora, peraltro, anche sincero – della mondanità materiale. L’uomo di Chiesa che è vittima della mondanità spirituale non si compiace di lussi e di ricchezze. Può anche vivere in estrema povertà, e convincersi di stare dando l’esempio di una morale particolarmente elevata. In realtà, sta preparando qualcosa che dom Vonier definisce «disastroso» per la Chiesa. Può darsi che la moralità del mondano spirituale sia davvero elevata. Ma i suoi «standard morali sono fondati non sulla gloria di Dio ma sul profitto dell’uomo: uno sguardo completamente antropocentrico sarebbe esattamente quello che intendiamo per mondanità. Anche se gli uomini fossero pieni di ogni perfezione spirituale, ma queste perfezioni non fossero riferite a Dio (supponendo che questa ipotesi sia possibile), si tratterebbe di una mondanità incapace di redenzione». Si tratta, ancora, di mondanità «spirituale» e non solo morale, perché alla fine la stessa spiritualità si corrompe, trasformata dalla «mondanità della mente» in una spiritualità dell’uomo e non più di Dio.

Dom Vonier è molto severo. «Se il Cristianesimo – scrive – dovesse mai abbassarsi al livello di una perfetta società etica il cui solo scopo fosse la promozione della prosperità umana, o perfino la promozione della moralità umana, la Chiesa sarebbe così completamente apostata come lo è Lucifero stesso: avrebbe negato lo Spirito, avrebbe rifiutato di seguirlo dove vuole condurla, avrebbe preferito piacere agli uomini piuttosto che a Cristo e avrebbe fatto dell’applauso umano la sua suprema ricompensa».

La mondanità spirituale è dunque insieme il più grande peccato e la più grande «catastrofe» per la Chiesa. Lo illustra dom Vonier, che è alle origini del concetto e che varrebbe la pena di conoscere meglio, lo ripete de Lubac citando ampi brani di dom Vonier. E oggi lo insegna il Papa. Cediamo alla mondanità spirituale tutte le volte che facciamo il bene, compiamo scelte che ci sembrano morali – e talora lo sono davvero, almeno in parte – , rifiutiamo la ricchezza, il lusso e la mondanità materiale ma lo facciamo per umanitarismo, per moralismo, per una religione dell’uomo che sembra avere accenti nobili, ma che non è la religione di Dio e di Gesù Cristo. La Chiesa così, ha detto Papa Francesco, diventa «una ONG [organizzazione non governativa] pietosa». Dietro di cui, come insegna dom Vonier, si nasconde il diavolo. Lo ha spiegato il Papa nella sua prima omelia, il 14 marzo, partendo da una citazione del romanziere francese Léon Bloy (1846-1917) per denunciare subito la mondanità spirituale: «“Chi non prega il Signore, prega il diavolo” Quando non si confessa Gesù Cristo, si confessa la mondanità del diavolo, la mondanità del demonio».(Introvigne)
Lanuovabq

Il Santo Patrono degli internauti?

 

Giovanni Paolo II patrono dei comunicatori digitali, magari in coincidenza con la sua canonizzazione che potrebbe avvenire a ottobre, come san Francesco di Sales lo è dei giornalisti: è la speranza e la richiesta del Sindacato cronisti romani espressa e trasmessa alla Santa Sede il 30 giugno 2011 tramite il Pontificio Consiglio delle Comunicazioni sociali.


La proposta era stata approvata e incoraggiata al presidente del Sindacato Romano Bartoloni anche da Benedetto XVI durante un'udienza generale di alcuni giorni prima. E recentemente è stata ricordata nel corso di uno scambio di lettere dei cronisti con mons. Giovanni Angelo Becciu, sostituto per gli Affari generali della Segreteria di Stato vaticana, in occasione dell'elezione di papa Francesco.

Al beato Giovanni Paolo II si riconosce, tra tutte le altre cose, “particolare sensibilità di apostolato con gli strumenti della moderna comunicazione e coraggiosa e saggia apertura alle tecnologie del digitale».


“Il messaggio evangelico del Papa polacco”, ha scritto in una nota Bartoloni, “non avrebbe raggiunto le più alte vette dell'universalità senza un rapporto franco e sapiente, soprattutto senza frapporre veli, con la macchina mediatica. I viaggi nel villaggio globale – ha aggiunto il presidente del Sindacato cronisti - la televisione e le tecnologie elettroniche sono state il suo pulpito e il mondo, superando le divisioni delle etnie e delle religioni, lo ha riconosciuto come un grande e lungimirante profeta perché ha parlato in presa diretta al cuore di ogni uomo”.


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Domani, 1° maggio, sarà il secondo anniversario della beatificazione di Papa Giovanni Paolo II e il ricordo arriva proprio nei giorni in cui, da più parti, crescono i rumori di una probabile canonizzazione entro il 2013, forse ad ottobre. Al riguardo non è stata data nessuna notizia ufficiale e il desiderio di tale canonizzazione è legato alla notizia diffusa il 23 aprile da "Vatican Insider":
"Nei giorni scorsi - scrive Andrea Tornielli - la consulta medica della Congregazione delle cause dei santi ha infatti riconosciuto come inspiegabile una guarigione di una donna attribuita al beato Giovanni Paolo II. Un presunto «miracolo» che se sarà approvato, com'è molto probabile, anche dai teologi e dai cardinali, porterà il Pontefice polacco scomparso nel 2005 a ottenere l'aureola di santo in tempi record, ad appena otto anni dalla morte. Tutto è avvenuto in gran segreto, nella massima riservatezza. In gennaio il postulatore della causa, monsignor Slawomir Oder, ha presentato per un parere preliminare una presunta guarigione miracolosa alla Congregazione vaticana per i santi. Com'è noto, dopo l'approvazione di un miracolo per la proclamazione a beato, le procedure canoniche prevedono il riconoscimento di un secondo miracolo, che deve essere avvenuto dopo la cerimonia di beatificazione. (...) È ancora prematuro parlare di date per la canonizzazione, ma la rapidità con cui sta avvenendo il processo sul miracolo lascia ancora aperta la possibilità di celebrarla domenica 20 ottobre, a ridosso della festa liturgica stabilita per il beato Wojtyla, fissata il 22 ottobre".
Il 1° maggio 2011, Benedetto XVI così ricordò il nuovo beato: "Cari fratelli e sorelle, oggi risplende ai nostri occhi, nella piena luce spirituale del Cristo risorto, la figura amata e venerata di Giovanni Paolo II. Oggi il suo nome si aggiunge alla schiera di Santi e Beati che egli ha proclamato durante i quasi 27 anni di pontificato, ricordando con forza la vocazione universale alla misura alta della vita cristiana, alla santità, come afferma la Costituzione conciliare Lumen gentium sulla Chiesa. Tutti i membri del Popolo di Dio – Vescovi, sacerdoti, diaconi, fedeli laici, religiosi, religiose – siamo in cammino verso la patria celeste, dove ci ha preceduto la Vergine Maria, associata in modo singolare e perfetto al mistero di Cristo e della Chiesa". Il Sismografo (Omelia)

La grandezza dell’umiltà




Celebrata dall’arcivescovo prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede la memoria liturgica di san Pio V.


 Proseguendo una consuetudine valorizzata soprattutto dal cardinale Joseph Ratzinger, il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ha celebrato la memoria liturgica di san Pio v, patrono del dicastero. Il presule ha presieduto la messa martedì mattina, 30 aprile, nella cappella dedicata al Pontefice, nel palazzo della Congregazione in piazza del Sant’Uffizio, pronunciando l’omelia che pubblichiamo in questa pagina. Tra i concelebranti, l’arcivescovo segretario Luis Francisco Ladaria Ferrer e gli officiali del dicastero. 
 
 di Gerhard Ludwig Müller


Come molti di noi sanno, Michele Ghislieri, divenuto poi Papa con il nome di Pio v, passò — a motivo dell’indigenza della sua famiglia — buona parte della sua prima gioventù in mezzo ai campi, come pastore. Cominciò così la vita di questo grande santo che è il nostro patrono.
Nulla accade a caso nella vita. Sappiamo infatti che il Signore si serve del tempo e parte da lontano per preparare i suoi amici ai compiti che riserva loro. D’altronde le doti di un uomo, come i suoi difetti, hanno una lunga storia. Possiamo chiederci allora quali doti andassero forgiandosi in quel giovane dall’intelligenza vivace, dentro quella condizione apparentemente così distante dalle sue future mansioni. Forse proprio in quegli anni cominciò a sviluppare una propensione al silenzio e alla preghiera, una sensibilità particolare alla bellezza della natura, una certa essenzialità e concretezza nel vivere, una prontezza vigilante nel prendersi cura degli armenti. E chissà se, guardando il gregge a lui affidato, si poteva mai immaginare quali ben altri greggi il Signore avrebbe poi consegnato alle sue cure. Così ci piace rappresentare quei primi quattordici anni della vita di Michele Ghislieri — di cui sappiamo soltanto che furono trascorsi soprattutto nella custodia delle pecore — come una discreta e umile preparazione alle importanti vicende che lo videro poi assoluto protagonista della Chiesa del suo tempo, dapprima come Inquisitore e poi come Pontefice. Perché, sempre, le cose grandi si vanno preparando nell’umiltà.
Oggi si ricorda il Papa san Pio v soprattutto per la sua grande capacità di governo e per la sua fermezza nel tutelare la fede. Egli era proteso a proteggere soprattutto la fede dei semplici, sia nella dottrina che nella disciplina. Difese con tutte le sue forze la Chiesa e il bene del popolo cristiano. Si adoperò con tutto se stesso per l’attuazione del concilio di Trento, in modo particolare per la riforma della curia romana, del clero e degli ordini religiosi.
Tutti lo ricordiamo come il Papa acclamato per la vittoria di Lepanto, ma è bene non dimenticare che da cardinale, il Ghislieri non temette anche di cadere in disgrazia pur di rimanere fedele al bene e alla verità. Amava infatti la verità e il bene più della sua tranquillità. Forse fu proprio per questo che un santo, Filippo Neri, gli profetizzò l’elezione a Pontefice, e che un altro santo, il cardinale Carlo Borromeo, in conclave, divenne suo grande elettore. Perché capita spesso che, fra i santi, nasca una connaturale affinità e un’amicizia.
Pio v fu un tenace assertore sia della fede che dell’unità ecclesiale. Non solo si impegnò per difendere l’integrità della fede dalle eresie, ma fece pubblicare il Catechismo Romano, promuovendone la traduzione in altre lingue. Istituì un comitato per la redazione di un testo ufficiale della Sacra Scrittura. Creò una commissione cardinalizia per organizzare e regolare l’evangelizzazione di America, Africa e Asia. Così si adoperò anche per l’unità della tradizione cristiana d’oriente e d’occidente, decretando per i quattro dottori della Chiesa greci (Basilio, Gregorio Nazianzeno, Gregorio Nisseno e Giovanni Crisostomo) gli stessi onori di quelli latini (Ambrogio, Girolamo, Agostino e Gregorio Magno). Cercò di rinsaldare l’unità della fede attraverso la riforma e l’unificazione della liturgia. È ricordato come il Papa che pubblicò il breviario. E ancora oggi con il suo messale si può celebrare l’eucarestia.
In questo inscindibile e instancabile servizio all’integrità della fede e all’unità della Chiesa, Pio v manifestò uno dei compiti peculiari del Successore di Pietro, il Pontefice Romano, che nello stesso tempo è chiamato a garantire l’autentica fede apostolica e l’unità ecclesiale. Egli non era disposto a negoziare la fede perché sapeva bene che ogni compromesso sulla fede degli Apostoli è una minaccia diretta a quel dono per cui Gesù ha tanto pregato e per cui ha offerto la sua stessa vita (cfr. Giovanni, 17, 21): l’unità dei suoi discepoli.
Questo noi lo abbiamo imparato vedendo all’opera per tanti anni Joseph Ratzinger, dapprima come prefetto di questa Congregazione e poi come Papa. E ce lo ha richiamato di recente anche il nostro Papa Francesco: «la fede non si negozia» — ha detto — perché «quando cominciamo a tagliare la fede, cominciano le apostasie», cioè si lacerano le carni del Corpo risorto del Signore, della sua Chiesa. Nel lavoro che ci è affidato, questo lo vediamo bene ogni giorno.
Perciò la nostra Congregazione, nella sua storia plurisecolare, si è sempre sentita posta in un modo particolare al servizio del Successore di Pietro. La Congregazione per la Dottrina della Fede si sente cioè inscritta, per sua stessa natura e indole, nel compito di aiutare il Papa a promuovere e tutelare la fede dei semplici ed insieme a rinsaldare l’unità visibile della Chiesa, che trova nel ministero petrino-romano la sua garanzia ultima. Perché questi due compiti sono inscindibilmente legati, si tengono, stanno e cadono insieme.
Fede e visibile unità ecclesiale sono due doni che non possono essere separati. È permanere nell’autentica fede apostolica che consente ai discepoli di Gesù di rimanere saldi in quell’unità che è germe e profezia del mondo nuovo, che è «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità del genere umano» (Lumen gentium, 1). Ed è l’unità della Chiesa il luogo genetico della fede dei suoi figli e di quella testimonianza che convince gli uomini di buona volontà, che converte i cuori e suscita gioia nel credere.
Fede e unità ecclesiale sono infatti la terra buona in cui fiorisce la martyría, in cui germogliano gli amici di Dio e i suoi autentici testimoni, in cui il cuore si apre con fiducia e si abbandona con pace al Signore. Laddove la fede degli Apostoli è viva, e l’unità visibile della Chiesa è realizzata, nascono i testimoni e la testimonianza stessa — come aveva preconizzato il Papa Paolo VI — diviene una cattedra che ci introduce alla vita di Dio. Una vita — quella che viene da Dio — che è vivace comunione e nella quale le ricchezze e le diversità si lasciano comporre in un’unità che accoglie la pluriformità ma non negozia la verità. Quando la fede e l’unità sono reali, accade anche che la carità e l’impeto missionario alimentino come linfa il corpo ecclesiale; accade che non si possa più tacere la ricchezza del dono ricevuto; accade che non si può più tacere Colui che si riconosce all’opera nella comunione ecclesiale (cfr. Atti degli apostoli, 4, 20).
Perciò, per sua stessa natura, alla Congregazione per la Dottrina della Fede, nel suo servizio al Successore di Pietro, non solo spetta custodire e tutelare la dottrina e l’integrità della fede ma anche — come afferma per ben tre volte la costituzione apostolica Pastor bonus (numeri 48-50) — operare fattivamente per la loro «promozione».
Appartiene al nostro servizio il «promuovere», perché la fede autentica viene difesa soprattutto laddove essa viene promossa, cioè testimoniata in un modo che è insieme intelligente e appassionato. Come ci ha ricordato il Papa Benedetto XVI nell’ultimo sinodo: la testimonianza non è «solo cosa del cuore e della bocca, ma anche dell’intelligenza; deve essere pensata e così, come pensata e intelligentemente concepita, tocca l’altro» (Meditazione nel corso della prima congregazione generale, 8 ottobre 2012).
All’interno di questa testimonianza si colloca il compito precipuo della Congregazione per la Dottrina della Fede nel suo servizio al ministero petrino. E proprio a questo livello si può comprendere il carattere essenzialmente e connaturalmente «pastorale» del nostro lavoro (cfr. costituzione apostolica Pastor Bonus, n. 33).
Siamo chiamati ad accogliere con generosità ed a farci carico dei grandi doni che Dio ci elargisce con la fede, per servire Pietro. Egli — come ci richiama il Vangelo che abbiamo appena letto — ancora oggi riceve direttamente da Gesù il suo mandato: «pasci il mio gregge…». L’amore per Cristo che sospinge Pietro, ci trascina con sé e ci invita a servire la sua missione: amare e pensare nella verità, donare la vita per i fratelli - «pascere il gregge». Servire con umile fierezza questa missione è il nostro dovere e la nostra ricchezza. Preghiamo san Pio v, chiedendo la sua intercessione affinché — qualunque sia qui la nostra mansione — così sia, davvero, per tutti noi!
L'Osservatore Romano 1° maggio 2013

La riforma di Papa Francesco


 
Il 13 aprile è stata resa pubblica la notizia che Papa Francesco ha costituito un gruppo di otto cardinali per consigliarlo nel governo della Chiesa universale e per studiare un progetto di revisione della costituzione apostolica Pastor bonus sulla Curia romana. La decisione ha destato molto interesse, dando luogo a non poche speculazioni. Di questo ha parlato in un’intervista al nostro giornale l’arcivescovo Angelo Becciu, sostituto della Segreteria di Stato.


Sulla riforma della Curia si sono sentite molte voci: bilanciamento di poteri, moderatori, coordinatori, “superministeri dell’economia”, rivoluzioni...

In effetti è un po’ strano: il Papa non ha ancora incontrato il gruppo di consiglieri che si è scelto e già i consigli piovono. Dopo avere parlato con il Santo Padre, posso dire che in questo momento è assolutamente prematuro avanzare qualsiasi ipotesi circa il futuro assetto della Curia. Papa Francesco sta ascoltando tutti, ma in primo luogo vorrà ascoltare chi ha scelto come consiglieri. Successivamente si imposterà un progetto di riforma della Pastor bonus, che ovviamente dovrà percorrere un suo iter.

Si è parlato molto anche dello Ior, l’Istituto per le opere di religione; qualcuno si è spinto a prevedere una sua soppressione...

Il Papa è rimasto sorpreso nel vedersi attribuite frasi che non ha mai pronunciato e che travisano il suo pensiero. L’unico cenno in merito è stato durante una breve omelia a Santa Marta, fatta a braccio, in cui ha ricordato in modo appassionato come l’essenza della Chiesa consista in una storia di amore tra Dio e gli uomini, e come le varie strutture umane, tra cui lo Ior, siano meno importanti. Il riferimento è stato un cenno di battuta, motivato dalla presenza alla messa di alcuni dipendenti dell’Istituto, nel contesto di un serio invito a non perdere mai di vista l’essenzialità della Chiesa.

Si deve prevedere che non sia imminente una ristrutturazione dell’attuale conformazione dei dicasteri?

Non so prevedere i tempi. Il Papa tuttavia ha chiesto a tutti noi, responsabili dei dicasteri, di continuare nel nostro servizio, senza però voler procedere, per il momento, ad alcuna conferma negli incarichi. Lo stesso vale per i membri delle Congregazioni e dei Pontifici Consigli: il normale ciclo di conferme o nomine, che si verificano alla scadenza dei mandati quinquennali, è per il momento sospeso, e tutti continuano nel proprio incarico «sino a nuova disposizione» (donec aliter provideatur). Ciò indica la volontà del Santo Padre di prendere il tempo necessario di riflessione — e di preghiera, non dovremmo dimenticarlo — per avere un quadro approfondito della situazione.

A proposito del gruppo di consiglieri, qualcuno è arrivato a sostenere che una tale scelta possa mettere in discussione il primato del Papa...

Si tratta di un organo consultivo, non decisionale, e davvero non vedo come la scelta di Papa Francesco possa mettere in discussione il primato. È vero invece che si tratta di un gesto di grande rilevanza, che vuole dare un segnale preciso circa le modalità con cui il Santo Padre vorrà esercitare il suo ministero. Non dobbiamo infatti dimenticare qual è il primo compito assegnato al gruppo degli otto cardinali: assistere il Pontefice nel governo della Chiesa universale. Non vorrei che la curiosità per gli assetti e le strutture della Curia romana facesse passare in secondo piano il senso profondo del gesto compiuto da Papa Francesco.

Ma l’espressione “consigliare” non è troppo indefinita?

Al contrario, il consigliare è un’azione importante, che nella Chiesa è definita teologicamente e trova espressione a molti livelli. Si pensi, per esempio, agli organismi di partecipazione nelle diocesi e nelle parrocchie, o ai consigli dei superiori, provinciali e generali, negli Istituti di vita consacrata. La funzione del consigliare va interpretata in chiave teologica: in un’ottica mondana dovremmo dire che un consiglio senza potere deliberativo è irrilevante, ma ciò significherebbe equiparare la Chiesa a un’azienda. Invece, teologicamente il consigliare ha una funzione di assoluto rilievo: aiutare il superiore nell’opera del discernimento, nel comprendere cioè quello che lo Spirito chiede alla Chiesa in un preciso momento storico. Senza questo riferimento, del resto, non si capirebbe nulla nemmeno del significato autentico dell’azione di governo nella Chiesa.

Che sentimenti prova nel collaborare con Papa Francesco?

Ho potuto collaborare da vicino con Papa Benedetto, ora sto continuando il mio servizio con Papa Francesco. Naturalmente ciascuno ha la propria personalità, il proprio stile, e mi sento davvero un privilegiato per questo stretto contatto con due uomini interamente dediti al bene di tutta la Chiesa, distaccati da se stessi, immersi in Dio e con un’unica passione: far conoscere la bellezza del Vangelo alle donne e agli uomini di oggi.
L'Osservatore Romano 1° maggio 2013

Martina (è) già grande!



Mi unisco con tutto il cuore alle ragioni di Massimo Gramellini. Coraggio, Martina!
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Le ragioni dell’odio sono state analizzate a sufficienza. Mi sposterei dall’altra parte del campo, dove abitano le ragioni di Martina. Martina ha ventitré anni e soltanto tre mesi fa ha perso la madre. Si è licenziata per stare accanto al papà carabiniere, che nel tentativo di farle coraggio le diceva: «Siamo un piccolo esercito sgangherato, noi due, ma ce la faremo». Adesso l’esercito è diventato ancora più piccolo. L’esercito è lei, china sul padre intubato in ospedale che la guarda e muove le palpebre, cerca addirittura di parlarle, ma non può. Chissà se vivrà, chissà come vivrà. Le pallottole del pistolero di Palazzo Chigi gli hanno danneggiato il midollo spinale.   
Martina potrebbe inveire o perdonare, per i guardoni del dolore sarebbe la stessa cosa. A loro non interessa la qualità della reazione, ma la sua intensità: superficiale e isterica. Invece la figlia del carabiniere sceglie la strada più dura e più vera: accettare. Tutto, anche l’inaccettabile. «Se riesci a contemplare le cose cui hai dedicato la vita, infrante, e piegarti a ricostruirle con i tuoi arnesi ormai logori». La poesia di Kipling al figlio (*) rivive nella voce gonfia di questa giovane adulta: «Ho perso un’altra volta il lavoro per seguire mio padre. Tutti i miei progetti sono di nuovo saltati. Pazienza. Si ricomincia. Si rifà un altro piano, un’altra speranza, altri obiettivi». Senza saperlo Martina ha dettato il programma di governo delle nostre vite per gli anni a venire. Le do di tutto cuore la mia fiducia.
Da La Stampa del 30/04/2013

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(*): Se (Lettera al figlio, 1910)


 Con questa lettera, datata 1910, Rudyard Kipling cercò di insegnare al figlio a distinguere fra il bene e il male

Se riesci a conservare il controllo quando tutti
Intorno a te lo perdono e te ne fanno una colpa;
Se riesci ad aver fiducia in te quando tutti
Ne dubitano, ma anche a tener conto del dubbio;
Se riesci ad aspettare e non stancarti di aspettare,
O se mentono a tuo riguardo, a non ricambiare in menzogne,
O se ti odiano, a non lasciarti prendere dall'odio,
E tuttavia a non sembrare troppo buono e a non parlare troppo saggio;
Se riesci a sognare e a non fare del sogno il tuo padrone;
Se riesci a pensare e a non fare del pensiero il tuo scopo;
Se riesci a far fronte al Trionfo e alla Rovina
E trattare allo stesso modo quei due impostori;
Se riesci a sopportare di udire la verità che hai detto
Distorta da furfanti per ingannare gli sciocchi
O a contemplare le cose cui hai dedicato la vita, infrante,
E piegarti a ricostruirle con strumenti logori;
Se riesci a fare un mucchio di tutte le tue vincite
E rischiarle in un colpo solo a testa e croce,
E perdere e ricominciare di nuovo dal principio
E non dire una parola sulla perdita;
Se riesci a costringere cuore, tendini e nervi
A servire al tuo scopo quando sono da tempo sfiniti,
E a tener duro quando in te non resta altro
Tranne la Volontà che dice loro: "Tieni duro!".
Se riesci a parlare con la folla e a conservare la tua virtù,
E a camminare con i Re senza perdere il contatto con la gente,
Se non riesce a ferirti il nemico né l'amico più caro,
Se tutti contano per te, ma nessuno troppo;
Se riesci a occupare il minuto inesorabile
Dando valore a ogni minuto che passa,
Tua è la Terra e tutto ciò che è in essa,
E - quel che è di più - sei un Uomo, figlio mio!
Rudyard Kipling

As much freedom as you need.




«Un incontro che nasce dalla speranza di creare una rete ecumenica di giovani in Europa e per discutere sul ruolo dell’idea di libertà nei singoli Paesi, così da promuovere un dialogo che abbia come obiettivo l’unità nella diversità»: con queste parole Hans Hommens, segretario della sezione europea della Federazione mondiale degli studenti cristiani (Wscf-E), ha presentato le finalità dell’iniziativa ecumenica dal titolo «As much freedom as you need. Religious tolerance and diversity in Europe», che si svolge ad Amburgo dal 30 aprile al 5 maggio, con la partecipazione di giovani provenienti da vari Paesi europei.L’evento è stato promosso dal Consiglio ecumenico dei giovani in Europa (Eyce), dalla Federazione della gioventù protestante in Germania e dalla Wscf-E, allo scopo di favorire l’ulteriore approfondimento della riflessione che, da lungo tempo, coinvolge le organizzazioni ecumeniche giovanili sul tema della libertà religiosa nella società contemporanea. Come ha sottolineato il segretario della Wscf-E, le organizzazioni giovanili si sono impegnate, in particolare, nell’agevolare le occasioni di incontro e di dialogo, al fine di creare momenti nei quali, «come giovani e come persone di fede, i partecipanti possono condividere le proprie idee e le proprie speranze sulla libertà religiosa, tenendo conto dei cambiamenti in atto nella società, che sembrano mettere in discussione le radici stesse della libertà, tanto da introdurre una nuova concezione della dignità della persona umana che niente ha a che vedere con i valori cristiani».
Amburgo vuole così essere la tappa di un cammino con il quale definire percorsi di partecipazione ecumenica al dibattito sulla libertà religiosa, che vede coinvolti i cristiani e il loro impegno sia in ambito ecumenico e interreligioso sia in rapporto con le istituzioni politiche europee. L’incontro — si osserva ancora — propone di far conoscere le esperienze a livello locale e di trovare nuove forme per rendere sempre più evidente il contributo che i giovani possono dare nelle comunità cristiane e nella società, affermando l’idea della centralità della libertà religiosa nella costruzione del futuro dell’Europa. Per questo il programma del convegno è stato pensato per sottolineare l’importanza della condivisione delle esperienze locali e per favorire la costruzione di una comune riflessione da parte dei giovani cristiani europei, a partire dalla domanda su cosa sia la libertà religiosa nelle realtà specifiche in cui i giovani si trovano a testimoniare la propria fede.
Il punto di partenza è costituito dalla discussione di una serie di “provocazioni” sulla libertà religiosa: si tratta di questioni che sono state immaginate proprio per porre l’accento sulle contraddizioni della società contemporanea riguardo al tema scelto per la discussione e sulle difficoltà che i cristiani incontrano, anche in Europa, nel vivere la libertà di annunciare e di praticare il Vangelo. I partecipanti saranno chiamati, inoltre, a interrogarsi su quale sia il rapporto tra il modello consumistico che viene proposto quotidianamente nella società e le scelte dei singoli individui, che vedono spesso messa in discussione la libertà di poter operare delle scelte che siano rispettose della propria fede. Un altro aspetto sarà il carattere delle relazioni tra gli Stati, le istituzioni europee e le comunità religiose alla luce dell’attuale contesto, nel quale sembra prevalere l’idea che la libertà venga preservata grazie alla definizione degli ambiti di competenza così da impedire qualunque “interferenza” della religione nella vita pubblica.
Altro punto di analisi sarà l’utilizzo degli edifici di culto che risultano abbandonati e che, secondo alcuni, dovrebbero essere riassegnati tenendo conto delle nuove presenze religiose in Europa, in nome della libertà di culto da garantire a tutti. Infine si parlerà della “lettura” che, talvolta, viene data all’attività missionaria dei cristiani, interpretata come una mancanza di rispetto nei confronti delle idee e dei valori della società.
A questa prima fase del dibattito ne seguirà una seconda nella quale verranno presentate le riflessioni e le proposte dei giovani su aspetti specifici, illustrate da tre gruppi di lavoro. Il primo gruppo affronterà il rapporto tra libertà e scelte cristiane, soffermandosi, in particolare, sulla testimonianza ecumenica per la salvaguardia del creato; il secondo si interrogherà sulle forme dell’impegno cristiano per la libertà religiosa nei diversi contesti europei, mentre il terzo cercherà di definire il ruolo delle comunità cristiane nella partecipazione attiva alla vita democratica e le contraddizioni che emergono da questa partecipazione.
L’ultima parte dell’incontro sarà dedicata all’intervento di un rappresentante cristiano e di una musulmana che lavorano insieme nel campo dell’accoglienza, testimoniando così un impegno che va ben oltre la dimensione ecumenica, per riaffermare come nella lotta per la libertà religiosa i cristiani devono ricercare un’azione comune senza però precludere la strada a una fattiva collaborazione con le altre religioni. Con l’incontro sulla libertà religiosa in Europa — voluto in concomitanza del trentaquattresimo Deutsche Evangelische Kirchentag, che si tiene ad Amburgo dal 1° al 5 maggio — si è quindi voluto creare «uno spazio di discussione tra giovani, così da mostrare quanto la diversità di esperienze e di approcci costituisca una ricchezza, coltivando la speranza che tale ricchezza possa produrre un documento comune dal quale proseguire la riflessione e l’impegno ecumenico per la libertà religiosa», ha concluso Kristine Jansone, segretaria generale della Eyce. L'Osservatore Romano, 30 aprile 2013.

Il cammino verso l'umanità




(Fiorenzo Facchini) «Via humanitatis» ovvero «Sul cammino verso l’umanità» è il tema del workshop internazionale che si è svolto dal 19 al 21 aprile alla Pontificia Accademia delle Scienze grazie a un comitato formato dal cardinale Roger Etchegaray, vice decano del Collegio cardinalizio, da Henry de Lumley (presidente dell’Institut de Paléontologie Humaine di Parigi) e il vescovo Marcelo Sánchez Sorondo, cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze e della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. L'incontro ha visto riuniti specialisti di vari settori della paleoantropologia e della preistoria — i quali sono stati anche ricevuti dal Papa — ed ha affrontato il tema dell’emergenza dell’uomo, dei vari stadi evolutivi morfologici e dello sviluppo della cultura. Conoscere quando l’uomo è comparso sulla terra non è solo una curiosità. Esso fa riflettere sull’identità dell’uomo che non può ricercarsi solo sul piano morfologico, ma va vista nel suo comportamento, rivelatore di uno psichismo diverso da quello dell’animale. Le radici biologiche dell’uomo sono nel mondo animale; la parentela con forme preumane, diverse dalle scimmie che conosciamo, e oggi non più viventi, è fuori discussione. La comparsa dell’uomo è stata preceduta e preparata dalla separazione di una linea da quella delle antropomorfe, avvenuta intorno a sette milioni di anni fa in Africa. In questa linea riconosciamo le forme australopitecine che praticavano il bipedismo e anche l’arrampicamento e la sospensione agli alberi. Esso ha determinato un cambiamento sostanziale nel rapporto con l’ambiente ed è stato favorito da un ambiente aperto, creatosi per nuove condizioni climatiche nelle regioni orientali dell’Africa.
Passeranno ancora oltre quattro milioni di anni, che hanno visto nelle regioni dell’Africa numerosi rappresentanti di ominidi, tra cui l’Ardipiteco, l’Australopiteco afarense (Lucy) e l’Australopiteco anamense, per trovare le più antiche testimonianze del genere Homo, documentato da resti scheletrici e dalla cultura litica del ciottolo risalenti a 2-2,5 milioni di anni fa a Kada Gona e Fejei, in Etiopia, e Lokalalei (Kenya) (Henry e Antoinette de Lumley). Ciò mentre ancora sopravvivevano in alcune regioni ominidi non umani, come l’Australopiteco Sediba nel Sud Africa.
La prima uscita dall’Africa viene fatta risalire a Homo habilis, come attestano i reperti di Dmanissi in Georgia di 1,8 milioni di anni. Destano stupore per le piccole dimensioni. Questa località può essere vista come un crocevia per la diffusione dell’uomo in Europa e in Asia. A questa prima uscita ne seguirono altre in epoche diverse (Homo ergaster, erectus, antecessor). A esse vengono collegati i fossili umani di oltre un milione di anni ritrovati in varie località dell’Europa (Atapuerca) e dell’Asia (Israele, Siria, Cina). Per l’Europa i giacimenti di Atapuerca (Spagna) e Tautavel (Francia) documentano la presenza dell’uomo nell’arco di alcune centinaia di migliaia di anni.
Nel colloquio ha avuto una particolare attenzione la tecnologia impiegata dall’uomo, a partire dalle sue espressioni più antiche, quelle dell’industria preolduvana e olduvana, che si evolveranno nel bifacciale. Nei loro artefici va riconosciuta la capacità di progetto e di simbolizzazione, la quale non deve essere vista solo nel linguaggio, nell’arte e nella religiosità, ma anche nei prodotti della tecnologia (simbolismo funzionale). Il bifacciale (la nota scheggia amigdaloide, lavorata su entrambe le facce e sui margini), identificato nelle sue più antiche espressioni, in depositi di 1,6-1,7 milioni di anni fa con Homo ergaster, risulta anche più antico, essendo stato segnalato recentemente in Etiopia in un deposito di 1,8 milioni (Beyene). Nel bifacciale, al di là della funzione, viene riconosciuta una grande forza evocativa per l’armonia espressa nella simmetria della lavorazione che gli conferisce un valore estetico. È un’armonia che l’uomo coglie in tanti aspetti della natura ed esprime il gusto del bello.
Nella tecnologia strumentale rientra la domesticazione del fuoco, forse a partire già da oltre un milione di anni, certamente da oltre quattrocentomila anni. Essa ha avuto grande importanza nella ominizzazione per la protezione, la dieta e la vita sociale.
Negli studi della preistoria le manifestazioni di ordine spirituale (sepolture, arte) hanno sempre ricevuto particolare attenzione. Pratiche funerarie vengono segnalate nei resti di Atapuerca (Spagna) di trecentocinquantamila anni fa e nei neandertaliani. Sepolture con corredo sono state ritrovate con neandertaliani e le prime forme moderne in Israele e in Europa. Esse sono interpretabili in una società che dava spazio al trascendente.
Scoperte recenti hanno arricchito il quadro delle conoscenze sull’arte portando le prime manifestazioni dell’arte mobiliare indietro nel tempo, rispetto a qualche tempo fa. Incisioni su ossa di animali di quattrocentomila anni fa, statuette di duecentomila anni fa, decorazioni e collane di conchiglie centotrentamila anni fa, attestano interessi di ordine spirituale. Ma è negli ultimi trentamila anni che l’arte presenta quasi una esplosione nelle raffigurazioni delle grotte. Le conseguenze della sedentarizzazione tra diecimila e cinquemila anni fa in Europa e il fenomeno del megalitismo possono essere visti nel quadro di una crescente socializzazione caratteristica del Neolitico.
Nel colloquio dell’Accademia non poteva mancare la domanda sulla trascendenza dell’essere umano. L’emergere dell’autocoscienza va visto in una prospettiva di coevoluzione tra genoma e cultura. Si apre il vasto campo delle interazioni tra attività cognitive e reti neuronali. Con la comparsa dell’uomo c’è un trascendimento dell’evoluzione biologica, senza che siano messe da parte le leggi dell’evoluzione. In ogni caso quando si parla di origini dell’uomo deve essere tenuta presente la distinzione tra il principio fondativo dell’uomo, che è di ordine ontologico e lo fa immagine di Dio e capax Dei, e l’origine filogenetica che vede l’uomo in una certa continuità con gli altri viventi. Questi approcci si incontrano nel mondo simbolico e spirituale, ma si sviluppano su piani diversi, in un concorso speciale del Creatore agli inizi dell’umanità come per ogni essere umano, come ha sottolineato il vescovo Sánchez Sorondo.
La prospettiva del futuro dell’umanità e delle responsabilità dell’uomo per l’ambiente e nella globalizzazione è emersa negli interventi finali (Arber, Sabourin), mentre non è mancato un richiamo alla questione del transumanesimo, una minaccia alla dignità dell’uomo (Capelle-Dumont).
Nell’intervento conclusivo del cardinale Etchegaray è riecheggiato ottimisticamente il richiamo alla grande figura di Pierre Teilhard de Chardin che prospetta una visione incentrata sull’uomo, nella sua capacità di dare significato a tutta la creazione e di costruire il futuro alla luce di Cristo, Alfa e Omega. L'Osservatore Romano, 30 aprile 2013.

Pronto a cambiare casa


Mancano poche ore al ritorno di Benedetto XVI in Vaticano. Da quando il Papa emerito metterà piede nel suo nuovo alloggio, il monastero Mater Ecclesiae*, inizierà entro le mura leonine l’inedita “coabitazione” col suo successore Papa Francesco.
S’incontreranno i due? Bergoglio, quando ne sentirà il bisogno, lascerà la residenza di Santa Marta per andare dall’altra parte dei giardini vaticani a trovare il suo predecessore? Difficile rispondere. Di certo c’è che una certa collaborazione fra i due è già iniziata, almeno sul piano teologico.
Infatti, come Ratzinger scrisse la sua prima enciclica, la “Deus caritas est”, nel Natale del 2005, rimodellando un testo sul quale stava lavorando il suo predecessore Giovanni Paolo II, così Papa Francesco potrebbe dare presto alle stampe – si dice entro il prossimo autunno – la sua prima lettera enciclica intervenendo su una bozza dedicata la tema della fede che Benedetto XVI gli ha consegnato durante il loro ultimo incontro avvenuto a Castel Gandolfo il 23 marzo. Se la pubblicazione avverrà, potrebbe essere l’inizio di una collaborazione, seppur discreta, anche su altri temi. Ratzinger, infatti, entra al Mater Ecclesiae insieme alla maggior parte dei suoi libri – altri rimarranno nell’archivio segreto – per i quali è stato creato un ampio studio, e seppure non si dedicherà a scrivere, consigli anche teologici al suo successore sarà ben attrezzato per darne.
La “bozza Ratzinger” di questa nuova enciclica, un testo di circa 30-40 cartelle, ha avuto una genesi fulminea. Lo scorso ottobre Benedetto XVI, aprendo un anno dedicato alla fede, ha chiesto all’ufficio dottrinale dell’ex Sant’Uffizio di lavorare su una prima bozza che avesse al centro il tema della fede alla luce dei suoi interventi in merito, non soltanto i testi papali ma anche i libri, su tutti il volume del 1968 “Introduzione al cristianesimo”.
I teologi vaticani, dopo poche settimane, gli hanno inviato un testo che egli ha rimandato indietro chiedendo un ulteriore lavoro. La seconda bozza gli è stata consegnata circa un mese prima dell’annuncio della rinuncia al soglio di Pietro. Egli l’ha tenuta con sé, per poi consegnarla a Bergoglio – evidentemente soddisfatto del lavoro dei teologi vaticani – dicendogli di decidere lui cosa farne. Dicono oltre il Tevere: «Il testo è completo. Non è stato scritto di suo pugno da Ratzinger ma è ratzingeriano in tutto. Dottrinalmente è ineccepibile e ben fatto».
La fede è stato il tema principale del pontificato di Ratzinger. “Dove c’è Dio, là c’è futuro”, fu non a caso il titolo che egli volle dare alla sua terza visita in Germania, nel 2011. Il programma del pontificato aveva al centro il tentativo di riavvicinare gli uomini a Dio. Ma la sfida riguardava e riguarda anche la Chiesa, nella consapevolezza più volte esplicitata che la crisi profonda della Chiesa odierna «è una crisi di fede». È anzitutto la Chiesa ad aver perso la bussola, quasi a non conoscere più l’abc della fede. Di qui un anno dedicato al tema. Di qui un’enciclica ora nelle mani di Bergoglio che, dopo un suo intervento, potrebbe renderla pubblica. (P. Rodari)

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NC Register
(Benjamin Wiker) Perhaps it may seem a bit premature, but here goes: Benedict XVI should be declared a Doctor of the Church. There are, if I count correctly, 33 such esteemed Doctors, the most recent being St. Thérèse of Lisieux, who died in 1897, and the most (...)

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(*): Secondo quanto precisato dal portavoce vaticano, p. Federico Lombardi, Benedetto XVI, che risiede a Castel Gandolfo dal 28 febbraio, dovrebbe trasferirsi nei prossimi giorni alla sua residenza definitiva presso il monastero "Mater Ecclesiae" in Vaticano. Vi proponiamo una sintesi della storia di questa singolare realtà all'interno delle mura vaticana, sorta nel 1994, di Giulia Galeotti pubblicata sull'Osservatore Romano giorni fa.
Il monastero "Mater Ecclesiae"  fu pensato e voluto da Giovanni Paolo II alla fine degli anni Ottanta. In questi giorni di aprile un sole benevolo ha accompagnato gli ultimi interventi di ristrutturazione in un monastero unico nella cristianità per collocazione e carisma. Unico in quel che sarà, ma anche unico in ciò che è stato nella sua breve ma, insieme, antica storia.
Il monastero Mater Ecclesiae è qui, moderno e regolare, quasi al centro del minuscolo territorio vaticano. Dinnanzi, un raro esemplare di Erythrina crista-galli, il cosiddetto albero del corallo originario di Argentina, Uruguay, Brasile e Paraguay, con le sue inconfondibili infiorescenze rosso vivo.
«Scopo specifico di questa comunità è il ministero della preghiera, dell’adorazione, della lode e della riparazione. Per essere così preghiera orante nel silenzio e nella solitudine, a sostegno del Santo Padre nella Sua quotidiana sollecitudine per tutta la Chiesa». Così si legge negli statuti di fondazione del monastero, pensato e voluto oltre vent’anni fa da Giovanni Paolo II, a mezza costa del colle vaticano, nella parte che digrada verso la basilica, tra l’odierno viale dell’Osservatorio e le antiche mura leonine.
Era il 13 maggio 1994: quel giorno, nei giardini vaticani, la neonata comunità femminile di vita contemplativa assumeva su di sé un compito nuovo ma al contempo antico. In forma inedita, infatti, il Mater Ecclesiae si inseriva nella lunga tradizione di donne che — sin dal Calvario — hanno sostenuto, pregando, il cammino di Gesù, prima, e poi degli apostoli e dei successori di Pietro.
I primi studi per il progetto erano stati avviati nel 1989, mentre datano al 1992 i lavori veri e propri per convertire in monastero di clausura — e ampliare con un nuovo corpo di fabbrica — la palazzina prescelta. Costruita a inizio del Novecento e conosciuta come Casetta Giardini, il piccolo e semplice edificio era stato pensato per la gendarmeria. Poi, la destinazione è cambiata più volte, da residenza dei gesuiti direttori della Radio Vaticana a sede di uffici.
Tra cappella, coro, laboratorio, cucina, refettorio, celle, biblioteca, piccola foresteria, parlatorio, infermeria e altri locali di disimpegno, ciclicamente la comunità femminile ospitata sarebbe variata: si decise infatti che il convento avrebbe ospitato a rotazione ogni cinque anni (poi scesi a tre) una comunità religiosa di clausura e di dedizione alla vita contemplativa, scelta dal Papa su indicazione della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica.
Parte importante della struttura, il piccolo orto adiacente, per diciotto anni dissodato, curato, coltivato e amato dalle religiose per rifornire la tavola del Pontefice e la loro. Verdura e frutta fatte crescere in modo naturale, ma anche marmellate e conserve. Nel segno della preghiera e del lavoro, le religiose si sono adoperate tra l’altro per il restauro di pergamene, la confezione di mitrie e casule per i vescovi e per il Papa, la cura delle sue vesti, il ricamo. Con un amore tutto particolare per la coltivazione dei fiori: tra i preferiti di Benedetto XVI, le profumatissime rose bianche dedicate al suo predecessore.
Dal 1994 al 2012 si sono dunque succeduti nel monastero vaticano quattro tra i più noti ordini claustrali: clarisse, carmelitane scalze, benedettine e visitandine. E se ciascuno di loro ha portato il proprio spirito e tradizioni, lo ha fatto però osservando regole e costituzioni in diretta dipendenza dal Papa. E sotto l’egida di Maria, raffigurata al culmine della facciata esterna del monastero. Questo legame con la Vergine madre della Chiesa sarà poi ribadito solennemente in due occasioni: nell’anno del giubileo e nel 2006; nel venticinquesimo anniversario dell’attentato a Papa Wojtyla, infatti, il Mater Ecclesiae accolse l’immagine della Madonna di Fátima.
Nella tarda mattinata di venerdì 13 maggio 1994, giorno dell’anniversario delle apparizioni ai tre pastorelli e dell’attentato in piazza San Pietro, giunsero le clarisse. Manifestazione della internazionalità espressamente voluta da Giovanni Paolo II, le sette religiose arrivarono da Nicaragua, Italia, Croazia, Bosnia, Canada e Filippine. L’ottava, ruandese, fu temporaneamente bloccata dalla guerra che dilaniava il suo Paese. Cinque anni dopo, il 15 ottobre — giorno della memoria liturgica di santa Teresa di Gesù — fecero il loro ingresso nove monache carmelitane scalze; provenivano da Italia, Spagna, Polonia, Belgio e Israele.
Nel 2004 fu quindi la volta di otto monache benedettine, giunte da Filippine, Italia, Francia e Stati Uniti. Il loro ingresso avvenne il 7 ottobre, memoria liturgica della beata Maria Vergine del Rosario. Benedetto XVI celebrò due volte la messa da loro e con loro, alle 7.30 del mattino, ogni volta in un clima di grande gioia. La festa del 7 ottobre fu scelta anche cinque anni dopo, nel 2009, in occasione dell’ultimo passaggio di testimone, quando fecero il loro ingresso nel monastero le visitandine, a cui il Papa diede pubblicamente il benvenuto il successivo 24 novembre. Erano sette le religiose dell’ordine della Visitazione di Santa Maria (fondato da Francesco di Sales e da Jeanne-Françoise Fremyot de Chantal): sei spagnole e un’italiana. «La vostra preghiera, care sorelle, è molto preziosa per il mio ministero» disse loro il Papa quella domenica, dopo aver recitato la preghiera mariana dell’Angelus.
Nei suoi diciotto anni di vita, dal monastero Mater Ecclesiae è dunque brillata la ricchezza e la varietà della Chiesa. Nella vocazione e nella provenienza geografica, si è manifestata la sua autentica cattolicità. Visitate quotidianamente da cardinali, vescovi, religiosi e laici, negli anni le religiose hanno raccontato la profondità di un’esperienza ineguagliata di Chiesa, di vicinanza al Pontefice e di condivisione comunitaria. Preghiera, incontro, sguardo sul mondo e sulla cristianità con occhi differenti: nella riscoperta del proprio carisma e della dimensione universale della Chiesa.
Quando Papa Ratzinger «è venuto da noi per la prima volta — raccontò nel 2008 la priora benedettina madre Maria Sofia Cichetti al nostro collega Nicola Gori — ci ha chiesto con molta umiltà e con sofferenza paterna di pregare in particolare per lui, perché, disse, “la croce del Papato è talvolta pesante e quindi da solo non ce la faccio a portarla. Ho bisogno del sostegno e della preghiera di tutta la Chiesa, ma in particolare (…) di voi che avete questa missione specifica”».
Cinque anni dopo Benedetto XVI ha deciso di assumere direttamente sulle proprie spalle quella «missione specifica». E da quello stesso monastero dove tanto si è pregato per lui, sarà lui a pregare per il suo successore e per la Chiesa tutta.
A Pietro che secondo il vangelo di Matteo (19, 27-29) gli chiede cosa ne avremo, noi che «abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito», Gesù risponde: «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà la vita eterna».
Giulia Galeotti

Peres al Papa: "Tutto Israele l'aspetta a Gerusalemme!"

Shimon Peres con papa Francesco

  Intervista al presidente dello Stato d’Israele Shimon Peres. Dialogo per una regione formata da minoranze


(Luca M. Possati) Dall’attuale situazione dello Stato di Israele, agli sforzi per giungere alla pace con i palestinesi; dal ruolo delle organizzazioni internazionali, alle relazioni tra cristiani ed ebrei. Sono questi alcuni dei temi toccati dal presidente israeliano, Shimon Peres, nell’intervista rilasciata in esclusiva al nostro giornale.


A oltre quaranta anni dalla nascita dello Stato d’Israele, crede che il progetto originario dei padri fondatori sia ancora vivo? Che tipo di Paese è, oggi, Israele?

Non tutto ciò che abbiamo sognato è stato realizzato, ma quanto è stato realizzato ha superato di gran lunga le nostre aspettative. Sessantacinque anni fa, quando venne fondato lo Stato d’Israele, non avremmo mai immaginato di potere trasformare una terra arida e inospitale in un leader mondiale nell’ambito dell’agricoltura, dell’alta tecnologia, della medicina, della ricerca sul cervello e di tanto altro ancora. Abbiamo fatto pace con i nostri due vicini più grandi, l’Egitto e la Giordania, e desideriamo completare la pace con i palestinesi. Non penso che fossero in tanti a crederci. Ma abbiamo fatto tutto questo e anche di più. Israele è diventato un Paese basato sulle risorse umane piuttosto che su quelle naturali. Siamo arrivati nella terra promessa e desideriamo farne una terra di promessa; comportarci conformemente ai dieci comandamenti e costruire la nostra vita sulla scienza e sulla pace.

Quale può essere il contributo degli israeliani in una prospettiva di dialogo con i palestinesi in vista di una soluzione pacifica del contenzioso? 

Dovremmo completare il processo di pace tra noi e i palestinesi. Abbiamo già compiuti validi progressi, abbiamo offerto loro uno Stato indipendente e una vita in pace e cooperazione da buoni vicini. Di fatto, la soluzione è già evidente: due Stati per due popoli; uno Stato ebraico, Israele, e uno Stato arabo, la Palestina. Siamo partiti dagli Accordi di Oslo, e ora dobbiamo superare il divario che ancora rimane. Ciò è possibile, e il modo per farlo è attraverso il dialogo e i negoziati, in spirito di tolleranza, coesistenza e pace tra i popoli.

Quale, a suo avviso, può essere attualmente il ruolo di istanze internazionali quali le Nazioni Unite? 

Le Nazioni Unite e altri organismi internazionali possono aiutare a stabilizzare il Medio Oriente, che sta vivendo importanti cambiamenti. Ritengo che i problemi del Medio Oriente siano esistenziali più che politici. La gente ha bisogno di cibo, di lavoro, di educazione, di assistenza sanitaria. La comunità internazionale può avere un profondo impatto in questi ambiti, aiutando i Paesi della regione a trovare soluzioni.

La crisi siriana è sempre più grave. Qual è l’impatto degli aspetti umanitari e quali sono le possibilità d’intervento della comunità internazionale? 

Quella in Siria è anzitutto una crisi umanitaria. È drammatico assistere allo spargimento di sangue. Il popolo della Siria merita un futuro più luminoso, basato sulla libertà, l’indipendenza, i diritti umani e la prosperità. Ritengo che le Nazioni Unite dovrebbero dare alla Lega Araba un mandato per inviare un contingente di caschi blu per stabilizzare il Paese e consentire la formazione di un Governo di transizione. La Siria è un problema arabo, e la soluzione dovrebbe essere una soluzione araba, con il sostegno del mondo intero, compreso Israele. Il pericolo costituito dalle armi siriane, inoltre, è tra i più gravi nel mondo.

Anche Israele sta subendo gli effetti della crisi economica mondiale. Come trovare una via d’uscita all’attuale congiuntura negativa?

Israele ha affrontato la propria crisi economica in modo positivo. La via di uscita dalle attuali difficoltà economiche, non solo per noi, ma per il mondo intero, è quella che passa per la scienza e la tecnologia, la ricerca e lo sviluppo dell’alta tecnologia. Stiamo vivendo in un mondo nuovo, ma ancora gestito con una mentalità vecchia. Oggi il mondo è globale, e penso che molte soluzioni si trovino proprio dentro il mondo globalizzato.

Qual è lo stato delle relazioni tra cattolici ed ebrei dopo l’impulso ricevuto durante il pontificato di Benedetto XVI, con i suoi viaggi in Vicino Oriente, e quali prospettive si possono ancora aprire, allargando il dialogo stesso ai musulmani?

Le relazioni tra Israele e la Santa Sede e tra il popolo ebraico e i cattolici non sono mai state così buone negli ultimi due millenni. Continuano a migliorare costantemente, e spero che la mia visita e una futura visita da parte di Papa Francesco in Israele possano servire a rafforzarle ulteriormente. Il dialogo è fondamentale per ridurre le tensioni e migliorare la comprensione. Non importa se si tratta di ebrei, cristiani, musulmani o di credenti di altre religioni. C’è già un dialogo, ma certamente andrebbe allargato. Il Medio Oriente è costituito più da minoranze che da maggioranze. Dovremo rispettarle tutte; la gente ha diritto non solo all’uguaglianza, ma anche alla diversità. È questa la democrazia ai giorni nostri: l’uguale diritto a essere diversi.

Quali sono le responsabilità dei credenti e degli uomini di buona volontà di fronte all’intolleranza crescente verso le minoranze religiose? 

Le persone sono libere di avere credenze diverse o di non averne affatto, ma devono rispettare gli altri. È questo un elemento fondamentale dei nostri valori. Il razzismo e l’intolleranza sono una malattia. La nostra responsabilità è di essere tolleranti verso gli altri, di mostrare loro amore, compassione e fratellanza. Papa Francesco è un esempio straordinario di questo amore per gli altri. Provo profondo rispetto per lui. Nel suo dialogo con il rabbino Abraham Skorka afferma che la torre di Babele è stata un errore perché coloro che l’hanno costruita volevano essere il più possibile vicini al cielo, ignorando però la gente. Il Papa suggerisce che dobbiamo essere modesti, rispettare il cielo ma anche amare le persone e tutti i loro interlocutori nel mondo presente.
L'Osservatore Romano 1°maggio 2013

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Un incontro cordiale, di trenta minuti, al termine del quale il presidente Shimon Peres ha invitato Papa Francesco a Gerusalemme: «Non l'aspetto solo io - ha detto il capo dello Stato ebraico - ma tutto il popolo di Israele». All'inizio dell'udienza, al momento della prima stretta di mano, Peres ha chiesto a Bergoglio: «Preghi per tutti noi». E al momento del commiato, il presidente ha assicurato al Pontefice la sua preghiera: «Domani andrò ad Assisi e pregherò per lei». Successivamente Peres ha incontrato il Segretario di Stato Tarcisio Bertone e il «ministro degli Esteri» Dominique Mambert

Nel corso dei «cordiali colloqui», informa un comunicato della Santa Sede, «è stata affrontata la situazione politica e sociale del Medio Oriente, dove perdurano non poche realtà conflittuali. Si è auspicata una pronta ripresa dei negoziati tra israeliani e palestinesi affinché, con decisioni coraggiose e disponibilità da ambedue le parti, nonché con il sostegno della comunità internazionale, si possa raggiungere un accordo rispettoso delle legittime aspirazioni dei due Popoli e così contribuire risolutamente alla pace e alla stabilità della regione». Non è mancato, continua la nota, «un riferimento all’importante questione della città di Gerusalemme».



«Si è manifestata particolare preoccupazione per il conflitto che affligge la Siria per il quale si è auspicato una soluzione politica, che privilegi la logica della riconciliazione e del dialogo». Non sono mancati accenni ai rapporti tra lo Stato d'Israele e la Santa Sede e tra le «autorità statali e le comunità cattoliche locali». Infine, «sono stati apprezzati i notevoli progressi fatti dalla Commissione bilaterale di lavoro, impegnata nell’elaborazione di un accordo su questioni di comune interesse, per il quale si auspica - spiega il Vaticano - una pronta conclusione».



Sui lavori della commissione - un processo lungo e farraginoso, sempre sul punto di concludersi ma finora mai concluso - Peres era intervenuto in un'intervista al «Corriere della Sera», spiegando che «abbiamo appianato il 99 per cento delle questioni». Nel corso dell'udienza il presidente avrebbe assicurato a Francesco che da parte israeliana c'è la volontà di concludere l'accordo, anche sull'annosa questione del Cenacolo, che anticamente apparteneva alla Custodia francescana di Terra Santa. Israele potrebbe concedere ai cristiani di tornare a celebrare la messa nel luogo dove secondo la tradizione Gesù celebrò l'Ultima Cena.



Secondo quanto emerso a suo tempo, la soluzione alla quale si lavorava negli anni scorsi tra la delegazione vaticana e quella israeliana, prevedeva che il possesso della sala del Cenacolo, delle due salette attigue e della scala di accesso venisse trasferito alla Custodia di Terra Santa. Lo Stato israeliano avrebbe invece mantenuto la proprietà del convento costruito dai francescani (impegnandosi a non concedere spazi a nuovi affittuari rispetto a quelli già esistenti) e dell'area della Tomba di Davide, che si trova nella zona sottostante il Cenacolo. Ma a quanto pare questa potrebbe non essere la soluzione finale, a lungo sperata dal Vaticano. Come del resto traspare dalle parole dello stesso Peres che a proposito del Cenacolo e della possibilità di tornare a celebrarvi la messa, concessa da Israele a una «speciale autorità» del Pontefice. Lasciando così intendere che il uno dei più importanti luoghi santi non sarebbe restituito ai cristiani come proprietà.



Il Papa ha donato a Peres delle medaglie, mentre il presidente israeliano ha regalato una copia della Bibbia di Gerusalemme, nota traduzione curata dalla Ecole Biblique de Jerusalem dei domenicani, in inglese e ebraico. «Le auguro di prosperare in tutto quello che lei fa e dovunque vada, con profonda stima, Shimon Peres» è la dedica che il presidente ha apposto a mano sul volume. Il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, ha assicurato che l'invito di Peres è stato accolto con gioia da Papa Francesco, perché i Pontefici si recano sempre volentieri in Terra Santa, ma ha anche aggiunto che non ci sono date per l'eventuale trasferta. Bergoglio era già stato invitato a Gerusalemme dal patriarca latino Fouad Twal. Mentre il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I aveva accennato a Francesco la possibilità di commemorare, mezzo secolo dopo, lo storico abbraccio avvenuto tra Paolo VI e Atenagora a Gerusalemme nel gennaio 1964. (A. Tornielli)
Vatican Insider

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 Comunicato della Santa Sede sull'Udienza di Papa Francesco al Presidente d'Israele Shimon Peres
[Text: Italiano, English] 
Sala stampa della Santa Sede

Oggi, nel Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in Udienza Sua Eccellenza il Sig. Shimon Peres, Presidente dello Stato d’Israele, che ha incontrato successivamente anche l’Em.mo Segretario di Stato, Card. Tarcisio Bertone, accompagnato dall’Ecc.mo Segretario per i Rapporti con gli Stati, Mons. Dominique Mamberti.
Durante i cordiali colloqui è stata affrontata la situazione politica e sociale del Medio Oriente, dove perdurano non poche realtà conflittuali. Si è auspicata una pronta ripresa dei negoziati tra Israeliani e Palestinesi affinché, con decisioni coraggiose e disponibilità da ambedue le Parti, nonché con il sostegno della comunità internazionale, si possa raggiungere un accordo rispettoso delle legittime aspirazioni dei due Popoli e così contribuire risolutamente alla pace e alla stabilità della Regione. Non è mancato un riferimento all’importante questione della Città di Gerusalemme. Si è manifestata particolare preoccupazione per il conflitto che affligge la Siria per il quale si è auspicato una soluzione politica, che privilegi la logica della riconciliazione e del dialogo. Sono state affrontate anche alcune questioni riguardanti i rapporti tra lo Stato d’Israele e la Santa Sede e tra le Autorità statali e le comunità cattoliche locali. 
Sono stati apprezzati infine i notevoli progressi fatti dalla Commissione bilaterale di lavoro, impegnata nell’elaborazione di un Accordo su questioni di comune interesse, per il quale si auspica una pronta conclusione.


Traduzione in lingua inglese
 
Today in the Vatican Apostolic Palace, the Holy Father Francis received in audience His Excellency Mr. Shimon Peres, President of the State of Israel. President Peres then went on to meet with the Secretary of State, Cardinal Tarcisio Bertone, S.D.B., accompanied by Archbishop Dominique Mamberti, secretary for Relations with States. 
During the cordial talks, the political and social situation in the Middle East—where more than a few conflicts persist—was addressed. A speedy resumption of negotiations between Israelis and Palestinians is hoped for, so that, with the courageous decisions and availability of both sides as well as support from the international community, an agreement may be reached that respects the legitimate aspirations of the two Peoples, thus decisively contributing to the peace and stability of the region. Reference to the important issue of the City of Jerusalem was not overlooked. Particular worry for the conflict that plagues Syria was expressed, for which a political solution is hoped for that privileges the logic of reconciliation and dialogue. 
A number of issues concerning relations between the State of Israel and the Holy See and between state authorities and the local Catholic communities were also addressed. In conclusion, the significant progress made by the Bilateral Working Commission, which is preparing an agreement regarding issues of common interest, was appreciated and its rapid conclusion is foreseen.

Relativismo assoluto o assolutismo relativista?

L'assolutismo relativista ci chiede di tollerare menzogne come se fossero verità belle e buone, per non tollerare le verità come se fossero menzogne

Di don Anderson Alves, sacerdote della diocesi di Petropolis – Brasile. Dottorando in Filosofia presso la Pontificia Università della Santa Croce a Roma.

L’ateismo e il relativismo sono essenzialmente contraddittori [I]. L’ateismo per il fatto di pretendere d’essere vero e relativista allo stesso tempo, “decostruendo” ogni verità e norme morali a partire da una verità certa: la non-esistenza di Dio. Da questa verità l’ateismo ne deduce una regola morale assoluta, cioè quella di proibire il porsi delle regole. L’ateismo relativista vuole così negare il valore di ogni dogma e certezze morali partendo invece da un dogma nuovo che dovrebbe creare una nuova moralità.
A sua volta il relativismo è contraddittorio perché insiste sul fatto che ogni affermazione, incluse quelle contraddittorie, sono sempre vere o sempre false. Chi però sostiene che due affermazioni contraddittorie possano essere vere, deve in ogni caso accettare che due contraddizioni non possano essere vere. Tale evidente contraddizione condurrebbe colui che la sostiene a rinunciare di vivere come essere umano: pensando, dialogando e vivendo in società. Peraltro chi non accettasse il principio di non-contraddizione, diventerebbe simile ad un vegetale. Le conseguenze di tutto ciò portano sia il relativismo che l’ateismo assoluti ad escludersi reciprocamente. Il relativismo infatti può essere solo vero quando è parziale al modo di esprimere una verità, e non alla verità stessa.
Tali considerazioni ci inducono a sostenere il giusto relativismo della verità, sempre relativa rispetto all’intelligenza di chi conosce [II]. La verità d’altronde è unica solo nell’intelligenza divina, giacché Dio, nel conoscere se stesso, conosce ogni cosa. La verità umana è molteplice poiché ogni cosa possiede la sua intrinseca verità; tuttavia si conosce tale verità solo parzialmente mediante molti giudizi veri. Infatti la conoscenza umana è progressiva e sino ad oggi nessuna scienza può affermare di conoscere perfettamente l’oggetto studiato. La realtà che ci sta dinanzi è sempre più ricca di quanto ci appare, il che la rende come una finestra attraverso la quale ci arriva la luce della verità e della bontà divine.
Peraltro non possiamo non constatare che viviamo in un ambiente culturale impregnato di relativismo: non però un relativismo assoluto, contrario alla radice e alla ragione umana, piuttosto di un assolutismo relativista. In effetti le filosofie relativiste non hanno ancora distrutto la razionalità umana; si continua a ragionare nella convinzione che è possibile conoscere la verità e che le affermazioni contraddittorie non possono essere allo stesso tempo vere. Anche in questo modo il relativismo dilaga nella cultura attuale, non attraverso la Logica, ma mediante la forza della ripetizione superficiale di alcune idee. Non c’è dubbio che non viviamo in un ambiente dove regna un relativismo assoluto, ma dove regna invece un assolutismo relativista.
Assolutismo relativista significa, in fondo, sforzarsi per imporre una cultura mondiale che tenta di distruggere i valori tradizionali. Tale cultura pretende di convincere i popoli del relativismo di ogni cosa, poiché la verità non esiste (o tutto è verità, il che è lo stesso) e ogni comportamento morale è tanto buono quanto cattivo. Quanto è contraddittorio sembra essere, al giorno d’oggi, sempre più valido e tollerabile. L’unica cosa a non essere tollerata è che le contraddizioni vengono ad essere rivelate insieme all’irrazionalità dello stesso relativismo. L’assolutismo relativista ci chiede di tollerare le menzogne come se fossero delle verità belle e buone, per non “tollerare” le verità come se fossero delle menzogne.
In Etica, l’assolutismo relativista si manifesta in due modi: nel cosiddetto positivismo e nel pensiero debole. Entrambi dicono che l’Etica può essere solo descrittiva giacché può narrare come vivono i popoli, senza dettare norme morali concrete. Il Positivismo afferma che il metodo delle scienze sperimentali deve essere applicato ad ogni scienza. E le scienze descrivono unicamente la realtà, senza prescrivere nulla. Per questo l’Etica deve dire come la gente si comporta.
L’altro sistema etico importante è definito “pensiero debole”. Sostiene che il filosofo morale deve descrivere i modelli di comportamento per poter facilitare il dialogo fra le culture. Si forma così una tavola rotonda, simile ad un gioco di carte dove non si raggiunge alcuna conclusione. Questo sembra essere un’esigenza della “democrazia”. E l’argomento che utilizzano dice: gli uomini sono tutti uguali; quando due uomini hanno opinioni diverse, entrambe devono essere accettate, giacché sarebbe antidemocratico o politicamente scorretto dire che alcuni uomini hanno ragione ed altri si sbagliano [III].
Chi pensa in questo modo dovrebbe prima di tutto chiarire cosa significhi l’affermazione “gli uomini sono tutti uguali”. Se significa che ognuno possiede una stessa dignità, siamo d’accordo; ma se si sostiene che tutto ciò che gli uomini affermano sia sempre vero in virtù di una comune dignità, ciò è assurdo!
Dalla dignità della natura umana non si deduce che la conoscenza di ogni essere umano sia sempre vera; ma neppure che si dica sempre la verità. L’uomo, infatti, non solo può sbagliarsi, ma anche mentire, manipolare e tentare di dominare chi gli sembra più debole. Non è chiaro quindi come l’errore o la menzogna possano aiutare a sostenere la “democrazia”.
Pertanto sia il positivismo sia il pensiero debole rivelano bene l’attuale assolutismo relativista, ovvero il tentativo di imporre, con la forza della ripetizione, affermazioni contraddittorie come se fossero verità assolute, negando quanto di vero e di buono.
L’assolutismo relativista, ultima forma di pensiero universale, non rispetta affatto le culture davvero umane che sono sempre alla ricerca della verità. Ciò costituisce una reale minaccia alla vita sociale che si possa dire veramente umana: infatti se l’Etica fosse soltanto descrittiva, i filosofi potrebbero parlare sulle diverse culture, ma non parlare con esse. Viene offesa dunque la dignità e la razionalità umana, che rimane aperta al dialogo sincero alla ricerca di una verità condivisibile per tutti gli uomini [IV].
Don Anderson Alves è sacerdote della diocesi di Petrópolis, Brasile. È dottorando in Filosofia presso alla Pontificia Università della Santa Croce a Roma.
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NOTE
[I] Cfr. http://www.zenit.org/it/articles/l-ateismo-e-una-scelta-razionale; cfr. anche: http://www.zenit.org/it/articles/il-relativismo-puo-essere-assoluto
[II] Cfr. http://www.zenit.org/it/articles/il-relativismo-relativo-o-la-corretta-relativita-della-verita
[III] Cfr. A. Vendemiati, In prima persona. Lineamenti di etica generale, 3ª ed., UUP, Città del Vaticano 2008, cap. 1.
[IV] Cfr. R. Spaemann, ¿Qué es la ética filosófica? Em Limites, acerca de la dimensión ética del actuar, Ediciones Internacionales Universitarias, Madrid 2003, pp. 19-20.
Zenit

Scola all'Islam: «Non bastioni da abbattere ma strade da percorrere»




Al via domani a Londra il 3° Incontro dei vescovi e delegati per le relazioni con i musulmani in Europa



L’esperienza del continente europeo nel dialogo interreligioso, specie con i musulmani, ha una lunga tradizione ed è, in alcune parti del continente una realtà secolare con felici esperienze e risultati. La velocità dei cambiamenti delle nostre società impone tuttavia a ripresentare in termini pastorali nuovi ed efficaci, le modalità del vero dialogo interreligioso, specie alle nuove generazioni che faticano a destreggiarsi tra tendenze relativistiche o sincretistiche, tra fondamentalismo o chiusure difensive. Che valore dare allora al dialogo interreligioso? e a che condizioni esso è possibile? 

“Il dialogo concreto tra persone di diverse religioni è possibile e necessario”, afferma mons. Duarte da Cunha, Segretario generale del CCEE. “Il dialogo esistenziale che vicini di casa, colleghi di lavoro, compagni di classe hanno in tutta l’Europa, costituisce una reale rete di rapporti e spesso anche di amicizia. Le persone, infatti, non vivono da sole, ma nel contesto di famiglie, comunità e associazioni. L’incontro tra cristiani e musulmani in Europa è anche possibile a questo livello. E’ infatti nel contesto di un rapporto sincero e reale che si trova la possibilità, e per noi cristiani il mandato divino, di testimoniare la propria fede. Si sente, però, che spesso i giovani sono in ricerca della propria identità. Da qui, la sfida della Chiesa nell’aiutare i giovani cristiani a conoscere innanzitutto se stessi e le ‘regole’ del vero dialogo. Infatti, il dialogo è un processo complesso, che richiede disponibilità all’ascolto, a conoscere profondamente la religione dell’altro ma anche una chiara identità religiosa. Solo in questo mondo il dialogo risulterà un esperienza arricchente per tutti e sarà anche un’occasione per vivere insieme e testimoniare la propria fede.”
L’incontro, guidato per il CCEE dal cardinale Jean-Pierre Ricard, arcivescovo di Bordeaux, si svolgerà presso la Fondazione reale di Santa Caterina (2 Butcher Row – London E14 8DS).
Vi prenderanno parte i vescovi e i delegati per le relazioni con i musulmani di 20 Conferenze episcopali, delegati di organismi ecclesiali o culturali continentali, il Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, il cardinale Jean-Louis Tauran, il Presidente della Conferenza episcopale d’Inghilterra e del Galles, mons. Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster, e diversi esperti dell’Islam.
Zenit

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