domenica 19 maggio 2013

Comunicare al mondo la propria esperienza dell'incontro con Cristo




Riporto il testo dell’intervento di Roberto Fontolan, direttore del Centro Internazionale di Comunione e Liberazione, al Convegno internazionale sulla missione dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità nella formazione e nella diffusione della fede, che si è svolto il 16 maggio all’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. 
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1. La comunicazione come riverbero dell’esperienza.
«Se non proponete […] ciò che vi rende liberi, prima di tutto vuol dire che non l’avete tanto a cuore»1. Così nel 1975, Don Giussani, parlando ai suoi ragazzi, li sfidava su un punto estremamente provocatorio: quanto è importante per voi ciò che avete incontrato? Se conta davvero, dovete dirlo a tutti. Come ricordava Benedetto XVI, «affermare “Io credo in Dio” ci spinge […] a partire, ad uscire continuamente da noi stessi, proprio come Abramo, per portare nella realtà quotidiana in cui viviamo la certezza che ci viene dalla fede: la certezza, cioè, della presenza di Dio nella storia,[…]»2.
Ciascuno di noi che viva un fatto, un’esperienza fondamentale della propria vita, ha, non solo la capacità, ma il dovere di dirlo. La comunicazione non è una questione da “addetti ai lavori” – non c’è qualcuno nella società che abbia il compito di comunicare, e gli altri no- perché ognuno di noi è destinato alla comunicazione. Siamo fatti per comunicare, esattamente come siamo fatti per essere amati e per amare. Nessuno può permettersi di evitare questo punto di consapevolezza: dirsi all’altro è nella nostra natura.
Qual è il problema? Che molto spesso, noi cristiani, ci concentriamo sulla prima parte della frase di Giussani – proporre ciò che ci rende liberi – per dimostrare che è vera la seconda – che l’abbiamo a cuore. Perciò tante volte il problema di comunicare la nostra esperienza si riduce ad un’ansia del far conoscere, al trovare la strategia più adatta, al saper usare le nuove tecnologie, all’ “essere sintonizzati” con i nuovi linguaggi. Senza nulla togliere alla rilevanza, anche importante, di tutti questi particolari, francamente il punto è un altro.
Come nasce una “comunicazione efficace”?
È interessante il fatto che un esempio di questo ci arrivi proprio da un testo, scritto non tenendo conto di una particolare strategia, ma semplicemente con la preoccupazione di «annunciare» quello che si era visto con i propri occhi e che si era toccato con le proprie mani.
C’è un bellissimo commento del grandissimo studioso e filologo della Letteratura occidentale Eric Auerbach all’episodio del tradimento di Pietro, che coglie in maniera acuta il cuore della questione.
Dice Auerbach, parlando di quel racconto: «Si tratta, guardando le cose dal di fuori di un’operazione di polizia e delle sue conseguenze, la quale si svolge in tutto e per tutto tra persone comuni del popolo. Qualche cosa del genere avrebbe fatto agli antichi pensare tutt’al più a una farsa o a una commedia. Ma perché non fu così? Perché suscita la partecipazione più seria e commossa?
Perché rappresenta quanto non è stato mai rappresentato dalla poesia, né dalla storiografia antica, la nascita di un movimento spirituale nelle profondità della vita spirituale del popolo […] davanti ai nostri occhi si risvegliano un cuore e uno spirito nuovi»3. Continua poi Auerbach, e paragona l’impostazione narrativa dei Vangeli con la modalità descrittiva degli autori più in voga del tempo : «[…] quasi tutto il Nuovo Testamento è stato scritto nel mezzo degli avvenimenti e immediatamente per ciascuno. Qui non si ha visione razionalmente ordinata dall’alto, né intenzione d’arte: il sensibile e il concreto che qui appaiono non sono imitazioni consapevoli e, di conseguenza, sono di rado resi completamente; sensibile e concreto appaiono perché sono insiti nei fatti da riferire, si manifestano nei gesti e nelle parole nascendo dall’intimo degli uomini, senza il minimo sforzo di elaborazione.[…]. Tacito e Petronio vogliono renderci sensibili e concreti, l’uno avvenimenti storici, l’altro un certo ceto sociale, e ciò dentro i limiti di una determinata tradizione estetica. L’autore del Vangelo di San Marco non ha quest’intenzione e nulla sa di questa tradizione e, quasi senza suo intervento, puramente per un moto intimo di quello che dice, quello che dice appare davanti ai nostri occhi e ciò che vien detto si rivolge a tutti: ognuno è incitato, anzi costretto a decidersi in favore o contro. Anche la sola indifferenza è una presa di posizione»4.
Mi sembra che Auerbach descriva bene il punto che dobbiamo mettere a fuoco. Perché se viviamo un’esperienza come quella degli apostoli, se viviamo la stessa convivenza con Cristo che loro hanno sperimentato, ci sorprenderemo di come questo fatto contenga in sé la forza, una forza enorme, e questa forza enorme si chiama comunicazione. Esattamente come nell’esempio dei Vangeli, il racconto avviene non per una tecnica, non per uno stile, non per una retorica, non per la padronanza degli strumenti. E nemmeno per qualcosa che viene dopo, che si aggiunge, come se la questione fosse prima vivere e poi porsi il problema di dirlo. La comunicazione avviene perché l’esperienza di un fatto contiene in se stessa il suo racconto e – come nota acutamente Auerbach – questa narrazione è già retorica, è già stile, è già un vero e proprio mezzo di comunicazione. Allora, quand’è così, s’impone, irrompe sulla scena del mondo con una forza inedita e imprevista, magari anche rovesciando regole e canoni, comunque senza preoccuparsene.
Allora, per tornare alla frase di Giussani con cui abbiamo cominciato, il fatto che ci stia a cuore quello che ci rende liberi, non deriva da un nostro impegno o sforzo, ma, come nell’esempio che abbiamo letto, da uno stupore così grande che ridesta tutta la nostra vita, fino al punto che di fronte agli altri non possiamo tacere. Ma questo genere di stupore può essere suscitato – esattamente allo stesso modo in cui lo fu per l’autore del Vangelo di Marco - solo da una presenza eccezionale e contemporanea.
2. Un uomo colto dei nostri giorni può credere?
Ma questo è possibile anche oggi? Verrebbe da chiedersi con Dostoevskij: «Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, credere proprio alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo?»5
Ogni individuo, infatti, viene al mondo dentro il contesto storico di un popolo, che possiede una sua cultura, cioè un suo particolare modo di guardare e concepire la realtà, e ne viene inevitabilmente condizionato. Cosa dice di noi la realtà in cui siamo immersi? Dice che siamo uomini per cui i presupposti della fede - e di conseguenza anche la fede stessa – non sono più scontati. Se questo non si traduce necessariamente in un rifiuto esplicito di essa, tuttavia è desolatamente evidente che venga concepita come irrilevante per la vita “concreta”. Tutt’al più può essere ridotta a “valori etici”, a pietismo, a ritualismo, ma quando si tratta della relazione tra l’uomo e il reale – che poi vuol dire tra l’uomo e l’amore, il dolore, il lavoro, la politica - molto spesso siamo proprio noi cristiani i primi a metterla da parte. Come se con certe questioni la fede, in fondo, non c’entrasse.
Ma allora, tornando nuovamente alla domanda con cui abbiamo aperto, come può starci a cuore qualcosa che non c’entra con gli aspetti più stringenti della nostra vita?
Questa scollatura tra fede e cultura va rinsaldata se vogliamo che il nostro annuncio torni ad essere credibile. Il mondo non potrà riscoprire la convenienza del Cristianesimo se non attraverso qualcuno che gliela testimonia.
3. La natura profonda del desiderio dell’uomo.
E qual è la convenienza del Cristianesimo oggi?
Innanzitutto, il far riscoprire all’uomo la natura vera e profonda del proprio desiderio. L’attuale crisi, infatti, prim’ancora che religiosa è antropologica. Secondo George Steiner, uno tra gli uomini più acuti e colti del nostro tempo «è plausibile che l’homo sia divenuto sapiens e che i processi cerebrali si siano evoluti al di là del riflesso del mero istinto, quando sorse la questione di Dio [...]: Noi siamo le creature abilitate ad affermare o negare l’esistenza di Dio. Siamo – il famoso ergo sum – nella misura in cui ci sforziamo di pensare l’essere, il non essere (la morte) e la relazione di queste polarità con la presenza o l’assenza, la vita o la morte di Dio»6.
Chiunque, anche una persona non di fede, si misuri lealmente con la struttura umana, non può non riconoscere il fatto che l’uomo al fondo sia mosso da un desiderio d’infinito che non può mai essere completamente appagato. Don Giussani chiama “senso religioso” questa capacità della ragione di esprimere la propria natura profonda nell’interrogativo ultimo, interrogativo inevitabile per ciascuno. Ogni cuore umano ha dentro di sé delle esigenze incancellabili – Felicità, Bellezza, Giustizia, Verità – che non sono altro che flessioni della domanda su Dio: chi mi ha voluto? Perché mi ha voluto?
A qualunque latitudine, in qualunque epoca storica gli uomini hanno cercato risposte alle stesse inesorabili domande. Siamo fatti della stessa stoffa, dello stesso cuore, della stessa ragione, della stessa inquietudine.
Il primo passo che noi cristiani siamo tenuti a compiere nel comunicare l’esperienza del nostro incontro con Cristo oggi è riscoprire –noi per primi, perché abbiamo visto che è un problema che ci riguarda direttamente- e dire poi a tutti, che con Lui nulla della nostra umanità deve essere censurato. Che attraverso di Lui scopriamo veramente la nostra statura umana più profonda:
«Quando ho incontrato Cristo mi sono scoperto uomo»7, diceva Mario Vittorino.
Prima di qualsiasi messaggio e contenuto è necessaria la rinascita di un soggetto umano consapevole, che utilizzando la ragione secondo tutta la sua ampiezza, si metta al lavoro allertato, mobilitato da quelle esigenze fondamentali e universali.«Non sarebbe possibile rendersi conto di che cosa voglia dire Gesù Cristo se prima non ci si rendesse ben conto della natura di quel dinamismo che rende uomo l’uomo. Cristo, infatti, si pone come risposta a ciò che “io” sono e solo una presa di coscienza attenta e anche tenera e appassionata di me stesso mi può spalancare e disporre a riconoscere, ad ammirare, a ringraziare, a vivere Cristo. Senza questa coscienza quella di Gesù Cristo diventa un puro nome»8.
Ma è possibile questo? È possibile per un uomo plasmato da questa cultura, in cui tutto sembra cospirare per far tacere delle sue domande più profonde, riscoprire la parte più vera che lo costituisce, questo desiderio d’infinito che non può essere messo a tacere?

NOTE 
1 L. Giussani, Dall’utopia alla presenza (1975-1978), BUR, Milano 2006, p. 39
2 Benedetto XVI, Udienza generale, Aula Paolo VI, 23 gennaio 2013
3 E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 2000
Ibidem
5 Cfr. F. M. Dostevskij, I demoni; Taccuini per “I demoni”, a cura di E. Lo Gatto, Sansoni, Firenze, 1958, p.1011
6 G. Steiner, Dieci (Possibili) ragioni della tristezza del pensiero, Garzanti, Milano 2007
7 MARIO VITTORINO, In epist. ad Ephesios, libro II, cap. 4, v. 14, in Marii Victorini Opera exegetica, ed. F. Gori, Vindobone 1986, II 16
8 L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2001, p.3

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4. Allargare la ragione.
Qui si capisce tutta la portata della battaglia, che Benedetto XVI ha condotto per l’intera durata del suo pontificato, ad allargare la ragione.
Perché questa cultura in cui oggi siamo immersi, non deriva tanto dall’aver abbandonato i principi che la Chiesa propone, quanto da un uso ridotto della ragione in chiave esclusivamente positivista, dalla quale viene escluso tutto ciò che non rientri nel campo del verificabile o del falsificabile.
Ma è del tutto evidente la limitatezza di un simile concetto di ragione. A questo proposito non possiamo dimenticare la geniale metafora del bunker, usata da Benedetto XVI durante il suo viaggio in Germania, per cui « la ragione positivista, che si presenta in modo esclusivista e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose del mondo vasto di Dio»9. Soltanto una ragione aperta al linguaggio dell’Essere può lasciare lo spazio per una fede non percepita come un’aggiunta irrilevante. E solo se noi accettiamo di usare la ragione secondo tutta la sua ampiezza - e non ridotta al misurabile, al dimostrabile o al logico – possiamo superare quel dualismo che condanna la fede come priva d’interesse per la vita di ogni uomo.
Occorrono testimoni in cui possa risplendere la bellezza, la ragionevolezza, l’intelligenza di una vita che sfidi la cultura della secolarizzazione: un soggetto umano che viva il reale in modo diverso.
In questo senso diventa ancora più stringente quella verifica della fede che Luigi Giussani profeticamente evocava: « […] una fede che non potesse essere reperta e trovata nell’esperienza presente, confermata da essa, utile a rispondere alle sue esigenze, non sarebbe stata una fede in grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto, diceva l’opposto»10.
5. Afferrati dalla Verità.
Ma perché noi cristiani possiamo portare una novità liberante e ragionevole? Forse perché siamo i detentori della verità? No, perché nessuno possiede la verità, ma è la verità che ci possiede Esponendo questo concetto di fronte ai suoi ex- alunni riuniti a Castel Gandolfo, Benedetto XVI usava un termine a mio parere interessante. Diceva che noi siamo «afferrati» dalla verità. Questa parola – afferrati – è la medesima con cui il presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, don Julián Carrón, ha voluto commentare la decisione del Pontefice di rinunciare al ministero petrino, parlando dell’«incredibile libertà di un uomo afferrato da Cristo»11.
La conseguenza di chi si lascia “afferrare” e guidare da Cristo, dalla verità fatta carne, ce l’ha testimoniata il Papa con la sua stessa persona, sorprendendoci «per una mossa di libertà senza precedenti, che privilegia innanzitutto il bene della Chiesa», mostrando al mondo intero «di essere totalmente affidato al disegno misterioso di un Altro.[…]. Il gesto del Papa è un richiamo potente a rinunciare a ogni sicurezza umana, confidando esclusivamente nella forza dello spirito[…]»12.
E si è trattato di un richiamo talmente potente che ha colpito non soltanto i cattolici, ma tutta l’umanità, che per un momento si è fermata.
E qui torniamo nuovamente al punto con cui abbiamo cominciato: non è stata una strategia comunicativa a creare lo stupore dello scorso 11 febbraio, ma il rapporto decisivo e totalizzante del Papa con il Signore della vita.
Benedetto XVI ci mostra in prima persona quale sia l’unico modo di comunicare al mondo l’incontro con Cristo: lasciarsi afferrare da Lui. È necessaria quindi una nostra continua riconversione a Lui, un ritorno costante alla sua persona. «A nulla fuorché a Gesù il cristiano è attaccato»13.
6.La vera speranza poggia su Cristo.
E con la stessa chiarezza, il suo successore, fin dalla scelta del nome Francesco, ci indica «dove occorre fissare lo sguardo. Come il poverello di Assisi, il Pontefice dichiara di non avere altra ricchezza che Cristo, e non conosce altro modo di comunicarla che la semplice testimonianza della propria vita»14. Francesco ci mostra dove può poggiare la vera Speranza: «Non lasciatevi prendere mai dallo scoraggiamento! La nostra non è una gioia che nasce dal possedere tante cose, ma nasce dall’aver incontrato una Persona: Gesù, che è in mezzo a noi; nasce dal sapere che con Lui non siamo mai soli, anche nei momenti difficili, anche quando il cammino della vita si scontra con problemi e ostacoli che sembrano insormontabili, e ce ne sono tanti! […] Noi accompagniamo, seguiamo Gesù, ma soprattutto sappiamo che Lui ci accompagna e ci carica sulle sue spalle: qui sta la nostra gioia, la speranza che dobbiamo portare in questo nostro mondo. E, per favore, non lasciatevi rubare la speranza! Non lasciate rubare la speranza! Quella che ci dà Gesù»15.
Mi sembra interessante che il Papa, tra i primi gesti dopo la sua elezione, abbia voluto esortare –in modo particolare i giovani – a non perdere la speranza. La stessa cosa aveva fatto Giovanni Paolo II, nel suo discorso d’inizio pontificato, con la frase, divenuta poi celebre, «Non abbiate paura, aprite, anzi spalancate le porte a Cristo»16. E anche Benedetto XVI aveva voluto riprendere l’invito dell’amato predecessore, proprio in occasione della sua prima celebrazione da Vescovo di Roma17.
Ma perché gli ultimi tre papi hanno voluto cominciare in questo modo i rispettivi pontificati? E soprattutto, nella realtà per tanti aspetti drammatica che oggi ci troviamo a vivere, chi altri ha il coraggio di fare un’affermazione del genere, specie se indirizzata ai giovani? Queste esortazioni alla speranza e al non avere paura, nascono non dal censurare tutta la problematicità che il nostro tempo porta con sé, ma perché, pur vivendo la stessa condizione che vivono tutti, può essere ragionevolmente affermare una positività.
Perché? Perché la nostra speranza non poggia sulla fiducia nella capacità o nella coerenza umana, ma sul fatto che Cristo ha già vinto.
E questo crea una certezza così grande che è in grado di «renderci liberi» da ogni paura e che non può non avere come riverbero il desiderio di comunicarlo a tutti. Non a caso Giussani affermava che la missione è «il modo originale di dialogo dei cristiani»18. Un dialogo che nasce dalla certezza di essere legati tutti da un comune destino. E questa, infatti, è un’altra grande scoperta dell’incontro con Cristo: che nell’unità con Lui nulla ci rimane estraneo. Il rapporto con Lui ci apre a tutto e a tutti, per questo la missione ha una tensione universale e non è autentica se non è aperta a tutti.
7.Una conversione continua nel rapporto costante con Lui.
Ma per essere portatori di questa novità, dobbiamo essere noi, in un certo senso, ogni volta, i primi destinatari di questo nostro annuncio. La via della conversione, difatti, non giunge mai ad un punto di arrivo definitivo. Per quale motivo? Perché il percorso del cristiano è un continuo «protendersi nella corsa per afferrare» di uno che «è già stato afferrato». Proprio in quanto non ci confrontiamo con un fatto del passato, ma con Gesù vivo oggi nella sua Chiesa è necessario un rapporto con Lui, un ritorno continuo a Lui. È necessaria una convivenza con Lui, dal momento che è questo il metodo che Gesù ha scelto per comunicarsi all’uomo.
In fondo cosa raccontano i quattro vangeli se non com’era la vita con Lui? Sono riportati anche fatti eccezionali, è vero, ma lo stupore per il miracolo è destinato a scemare se si ferma alla meraviglia e rifiuta di impegnarsi in un rapporto con Lui.
È solo nella convivenza che noi veniamo approfondendo quel fascino di cui abbiamo sentito il contraccolpo iniziale, che però sbiadirà in un bel ricordo del passato se ci rifiutiamo di cominciare il cammino che questo contraccolpo implica e che Lui ci propone.
Come osservava Romano Guardini, «Questa rivelazione della divinità che si palesa nell’esistenza viva di Gesù, non però con manifestazioni irruenti e con azioni grandiose, ma con un continuo, silenzioso trascendere i limiti delle umane possibilità, in una grandezza e in una vastità che si percepiscono dapprima solo come una naturalità benefica, come una libertà che appare naturale, come umanità semplicemente sensibile – espresse nel nome meraviglioso di “Figlio dell’uomo”, che egli stesso tanto volentieri si attribuiva – finisce per rivelarsi semplicemente come un miracolo […] un passo silenzioso che trascende i limiti segnati dalle umane possibilità ma ben più portentoso della immobilità del sole e del tremare della terre»19.
Per annunciare l’esperienza dell’incontro con Cristo non dobbiamo riportare fatti eccezionali e sensazionali: essi possono avere una grande risonanza immediata, ma sono ben presto destinati all’oblio, perché al mondo non serve questo. Quello di cui davvero il mondo oggi ha bisogno – e che è realmente convincente del messaggio evangelico – è una quotidianità, che diventa sì eccezionale, ma non perché accadano fenomeni paranormali. Diventa eccezionale perché, pur rimanendo quotidianità, viene rinnovata dalla presenza di Cristo.
Chi riconosce la presenza di Cristo nella vita, chi accetta la Sua contemporaneità ha in sé una forza comunicativa che parla da sé. E lo vediamo bene, perché ciascuno di noi è attratto da quegli uomini e quelle donne che si rendono trasparenti a Cristo. Giriamo lo sguardo verso di loro, li cerchiamo, vediamo in loro una pienezza umana, una capacità d’amore, una verità d’animo che ci fa dire: «anch’io voglio essere così». Ma il bello del Cristianesimo è che ciascuno può essere così. E non perché uno diventi improvvisamente coerente, non ci sono esami da superare per giungere ad una tale pienezza e luminosità. Non si arriva a Cristo perché si è cambiati, si arriva a Lui perché si è bisognosi. Allora, di fronte a questo invito, nessuno può sentirsi escluso. 
(La prima parte è stata pubblicata ieri, sabato 18 maggio)
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NOTE 
9 Benedetto XVI, Discorso durante la visita al Parlamento Federale nel Reichstag di Berlin,22 settembre 2011
10 L. Giussani, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, p. 20
11 Comunicato stampa – Carron (CL):«L’incredibile libertà di un uomo afferrato da Cristo»
12 Ibidem
13 L. Giussani, Quella grande forza del Papa in ginocchio, Repubblica 15 marzo 2000
14 J. Carron, Francesco ci indica dove occorre fissare lo sguardo, Avvenire 16 marzo 2013
15 Francesco, Omelia per la Celebrazione della Domenica delle Palme e della Passione del Signore, Roma, 24 marzo 2013
16 Giovanni Paolo II, Omelia di inizio Pontificato, Roma, 22 ottobre 1978
17 Benedetto XVI, Omelia di inizio Pontificato, Roma, 24 aprile 2005
18 L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, Rizzoli, Milano 2006, p. 188
19 R. Guardini, La figura di Gesù Cristo nel nuovo testamento, Morcelliana, Brescia 1964, p. 98