venerdì 3 maggio 2013

Custode di mio fratello



Ogni cristiano è chiamato alla corresponsabilità.
(Bruno Forte) Custode del creato, l’uomo è anche custode dell’altro, fratello in umanità davanti all’unico Padre celeste. Alle origini della famiglia umana, Caino dimostra di essere consapevole di questa responsabilità, sebbene l’abbia negata nei fatti, quando alla domanda del Signore «Dov’è Abele, tuo fratello?» risponde: «Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?» (Genesi, 4, 9). In realtà, l’essere creati dall’unico Dio e Signore ci rende originariamente uniti in un vincolo di fraternità, che ci chiama a essere “custodi” l’uno dell’altro: “il volto d’altri” che ci guarda è testimone che il nostro “io” non è tutto e deve anzi necessariamente misurarsi con l’altrui bisogno, con l’esigenza che ognuno porta in sé di amare e di essere amato, vivendo l’esodo da sé verso gli altri, e spezzando così l’incanto di ogni totalità presuntuosamente chiusa in se stessa. Scrive Emmanuel Lévinas: «Si può risalire a partire dall’esperienza della totalità a una situazione nella quale la totalità si spezza, mentre questa situazione condiziona la totalità stessa. Questa situazione è lo sfolgorio dell’esteriorità o della trascendenza sul volto d’altri». Il riconoscimento della responsabilità verso l’altro, sollecitato dal suo volto che ci guarda, sta a fondamento della stessa possibilità dell’etica: se si intende motivare l’esigenza di fare il bene e di evitare il male, occorre ancorarla al di fuori dell’arbitrio dispotico del soggetto, in un’esigitività ultima e trascendente, di cui il bene è lo splendore irradiante, l’esigenza amabile, il dono perfetto. Viceversa, il male è la resistenza opposta a questo richiamo, l’appassionato permanere nella negazione, la lotta vissuta in nome di una causa falsa, quella della propria libertà eretta come assoluto contro l’Assoluto. Dall’ethos classico, alla morale delle Dieci Parole, legate al grande codice dell’Alleanza, dal discorso della montagna alle esigenze di giustizia del diritto romano, è quest’impianto di una morale fondata nella trascendenza — e dunque sull’esigitività legata all’altro su cui misurarci, tanto prossimo e immediato, che ultimo e trascendente —, che ha retto le sorti della vita personale e collettiva dell’Occidente.
È con l’emergere moderno dell’attenzione centrale alla soggettività che cambiano i termini del problema morale: dall’eteronomia — in cui si riconosce la fondazione oggettiva e assoluta della morale — si passa all’autonomia, a una morale che si vuole “emancipata”, dove il coraggio di esistere autonomamente si estende dal conoscitivo sapere aude — osa sapere — al decisionistico libere age — agisci secondo il codice di un’assoluta libertà. L’autonomia appare come la sfida su cui misurare qualsivoglia imperativo morale, per verificare se esso renda più o meno liberi, più o meno umani. Farsi norma a se stessi, essere soggetto e non oggetto del proprio destino, appare il progetto da perseguire. L’ebbrezza di questo sogno prende gli spiriti più diversi, in forme borghesi o rivoluzionarie, di progresso o di conservazione. Ben presto, tuttavia, la coscienza dell’impossibilità di un’etica tutta soggettiva s’impone: che bene sarebbe il bene che fosse tale solo per me? E in nome di quale criterio valido per tutti sarebbe da evitare il male? Non è il confine fra la mia libertà e l’altrui anche il limite di ogni autonomia? E perché se una scelta mi risultasse più vantaggiosa — in termini morali o economici o politici — dovrei seguire un criterio diverso dal semplice profitto e agire in maniera differente? Se poi un comportamento scorretto è diffuso — giustificato caso mai dal motivo che “tutti lo fanno” — in nome di quale valore morale dovrei evitarlo, se la scelta è lasciata all’arbitrio personale? Come passare da una filosofia dell’io a una filosofia del Tu, dove sia l’Altro a essere misura della responsabilità morale e gli altri a costituire la rete concreta di essa? Occorre mettersi in ascolto dell’Altro, aprirsi all’avvento del Tu.
Questo Tu altro e sovrano la fede lo riconosce nel Dio vivente in tutta la sua alterità, libero di una libertà irriducibile a ogni cattura, sorgente di un’etica del dono in cui il Suo destinarsi a noi suscita il nostro destinarci a Lui e agli altri nella libertà. In questo esistere l’uno-per-l’altro regola suprema è l’amore: oltre il tramonto delle pretese assolute di una certa modernità e l’incompiutezza del nichilismo della post-modernità, ritorna in tutta la sua forza la parola antica e nuova del Vangelo: «Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi» (Giovanni, 13, 34). L’essere l’uno-per-l’altro è retto da quel “come”. L’etica della trascendenza lascia trasparire la trascendente sorgente del dono. Si profilano così quattro tesi per un’etica caratterizzata dalla custodia dell’altro. La prima tesi può essere formulata così: non c’è etica senza trascendenza. Non può esserci agire morale, lì dove non ci sia l’altro, riconosciuto in tutto lo spessore irriducibile della sua alterità. La fondazione dell’etica è inseparabile da questo riconoscimento: chi afferma se stesso al punto da negare ogni altro su cui misurarsi, nell’atto stesso di quest’affermazione idolatrica, nega se stesso come soggetto morale, nega anzi la possibilità stessa di una scelta etica fra bene e male, perché annega ogni differenza nell’oceano asfissiante della propria identità. In questo senso, nessun uomo è un’isola: e chi pensasse o volesse essere tale, nel pensarsi o volersi così annullerebbe se stesso come soggetto di relazione, e perciò di vita e di storia reale. Fare dell’altro lo “straniero morale” è farsi stranieri alla verità di se stessi, è rinnegare la più profonda dignità del proprio essere personale e del proprio destino. Non c’è responsabilità e vita morale senza un movimento di esodo da sé per andare verso l’altro, soprattutto se debole, indifeso e senza voce.
La seconda tesi di un’etica della custodia dell’altro suona così: non c’è etica senza gratuità e responsabilità. Il movimento di trascendenza, costitutivo della responsabilità, ha un carattere gratuito e potenzialmente infinito: uscire da sé in vista di un ritorno, calcolare con l’altro al fine di un proprio interesse è svuotare di ogni valore la scelta morale, facendone un commercio o uno scambio tra pari. La lezione di Kant conserva tutta la sua verità: l’imperativo morale o è categorico, e dunque incondizionato, o non è. Il destinarsi ad altri è un atto gratuito e senza condizioni, da null’altro motivato che dall’esigenza e dall’indigenza dell’altro, o non è auto-trascendenza, ma riflesso, proiezione di sé fuori di sé in vista dell’egoistico ritorno a sé. In questo carattere gratuito e potenzialmente infinito della trascendenza etica si coglie come l’anima più profonda di essa sia l’amore, il dare senza calcolo e senza misura per la sola forza irradiante del dono. L’etica della trascendenza è null’altro che l’etica dell’amore responsabile, la morale della carità vissuta con consapevolezza e libertà. Il bene è ragione a se stesso.
La terza tesi può formularsi in questi termini: non c’è etica senza solidarietà e giustizia. In questo stesso movimento di trascendenza si scopre la rete degli altri che circonda l’io come sorgente di un insieme di esigenze etiche: contemperarle in modo che il dono compiuto all’uno non sia ferita o chiusura ad altri è coniugare la morale con la giustizia, che è la forma della trascendenza etica vissuta nella comunità dei volti che si guardano. Regolare in forma collettiva questa rete di esigenze di giustizia è misurarsi sul bisogno del diritto: non l’astratta oggettività della norma, né il dispotismo del sovrano fonda l’autorità della legge, ma l’urgenza di contemperare le relazioni etiche perché nessuna sia a vantaggio esclusivo di alcuni e a scapito della dignità di altri. Il bene comune è misura e norma dell’agire individuale, specialmente nel campo dei doveri civili.
Infine, la quarta tesi di un’etica della custodia dell’altro uomo suona così: l’etica rimanda alla Trascendenza libera e sovrana, ultima e assoluta. Quando si riconosce che il movimento di trascendenza verso l’altro e la rete d’altri in cui siamo posti presentano un carattere di esigenza infinita, sull’orizzonte dell’etica si profila l’altra trascendenza, ultima e sovrana, di cui quella prossima e penultima è traccia e rinvio. Nel volto d’altri è l’imperativo categorico dell’amore assoluto che mi raggiunge, e nell’assolutezza dell’urgenza della solidarietà con il più debole è un amore infinitamente indigente che mi chiama. Questa trascendenza assoluta, questo assoluto bisogno d’amore sono la soglia che salda l’etica filosofica all’etica teologica: qui l’esigenza dell’essere l’uno-per-l’altro rimanda a una più profonda e sorgiva relazione dei Tre che sono Uno, nel loro reciproco darsi e accogliersi. Qui l’etica della responsabilità e l’etica della solidarietà appellano all’etica del dono, alla morale della Grazia. Qui l’amore — sovrana esigenza morale — rimanda all’Amore come eterno evento interpersonale dell’unico Dio in tre Persone. Qui, nelle forme dell’essere l’uno-per-l’altro è il possibile-impossibile amore, gratuitamente donato dall’alto, che viene a narrarsi nel tempo: la carità, che «non avrà mai fine» (1 Corinzi, 13, 8). Su di essa si misurerà la verità profonda delle nostre scelte: alla sera della vita saremo giudicati sull’amore.
La Chiesa che Gesù è venuto a fondare sulla terra è la comunità dei figli resi tali nel Figlio: come tale è una fraternità, la fraternità cristiana. Proprio così, essa è l’icona viva della comunione trinitaria, in cui ciascuno è “custode” dell’altro nel reciproco accogliersi e donarsi. L'Osservatore Romano, 3 maggio 2013.