venerdì 17 maggio 2013

Da una liturgia di ferro ad una liturgia di caucciù


Il tema della liturgia è stato centrale nel magistero di Benedetto XVI, che ha sempre combattuto contro abusi e degenerazioni del periodo post-conciliare. Chi ha mal sopportato quegli interventi pensa ora, in questo inizio di pontificato di Francesco, all'insegna della semplicità, di tornare indietro. Così che espressioni come "vivere la liturgia con semplicità e senza sovrastrutture" si sentono sempre più spesso, equivocando il concetto di semplicità. Per capire bene il valore della semplicità nella liturgia e il rapporto con la fede abbiamo chiesto l'intervento di un esperto di liturgia come monsignor Nicola Bux.

Cosa vuol dire vivere il rapporto con la liturgia e con la fede con semplicità e senza sovrastrutture? Cominciamo con la struttura: la fede ha una struttura come la liturgia, in quanto c'è un rapporto tra le due (lex orandi-lex credendi). Per esempio, nella Messa ci sono le litanie (preghiere di invocazione), dal greco liti, processione; preghiere che si fanno procedendo da un luogo di culto ad un altro o all'interno del medesimo; si pensi alle stationes descritte da Egeria a Gerusalemme. Oppure al movimento dei neofiti dal battistero, all'esterno della Chiesa, dopo il battesimo, verso l'interno della Chiesa, per partecipare all'Eucaristia. Questo movimento processionale esprimeva l'idea del pellegrinaggio del popolo cristiano verso l'eternità.

Dunque, le litanie (chiamate ectenie, dal greco: supplica) sono sequenze di invocazioni a Dio per varie necessità di carattere universale (per i vivi e i defunti, la Chiesa e il mondo...). Esaminando l'unità liturgica della litania possiamo risalire alla sua origine storica. Quando, per esempio, il diacono dice:... "preghiamo", poi  "inginocchiamoci" e tutti pregano in silenzio, poi "tutti in piedi"... e il sacerdote raccoglie le intenzioni in una colletta, dopo che tutti hanno pregato individualmente... abbiamo la forma primitiva della litania; ancora oggi noi abbiamo le preghiere-collette all'inizio della Messa. Col tempo, questa forma si è sviluppata in un novero di intenzioni, di invocazioni, alle quali si aggiungono le risposte del popolo. Nella Messa di rito bizantino se ne contano almeno quattro, mentre nella Messa latina è costituita essenzialmente dalla oratio fidelium o preghiera universale. Oggi è presente nella forma ordinaria del rito romano, ma era rimasta nella forma più solenne il Venerdì Santo, attestando così ulteriormente la sua antichità.

La litania o preghiera universale, che accompagnava il movimento processionale, non ha condiviso la sorte del resto del rito a cui apparteneva con la messa, ma ha seguito un suo percorso e questo fenomeno, gli studiosi lo chiamano "fenomeno strutturale". Cioè, la struttura della liturgia non è rigida, non lasciando spazio alle singole unità di modularsi o adattarsi alle situazioni storiche. Per esempio, la recita del Credo non avviene sempre: come mai? Ci sono senz'altro ragioni storiche, ma anche il Credo è una 'unità liturgica' che si è ricavata uno spazio e si comporta in maniera relativamente autonoma dal resto. La struttura in definitiva è il rito e la sovrastruttura il suo splendore.

Il discorso sulla struttura porta a comprendere che l'uomo ha bisogno di riti (nascita, sposalizio, funerali, apoteosi...), che servono ad eternare l'oggi. Ma con Cristo, l'eterno è disceso nel tempo, il sacro nel profano, consacrando quanti l'hanno accolto e aiutandoli ad ascendere con lui in alto - di discesa e ascesa è fatta la liturgia - ponendo il criterio di distinzione tra sacro e profano: nel Nuovo Testamento (1 Cor 11) la distinzione è stata sancita da Paolo quando ha separato dalla celebrazione eucaristica il pasto o agape da fare a casa.

Venendo alla sovra-struttura della liturgia dobbiamo parlare della Bellezza: il Catechismo della Chiesa Cattolica (no.1157) indica tre criteri: la bellezza espressiva della preghiera, l'unanime partecipazione dell'assemblea nei momenti previsti, il carattere solenne della celebrazione, al fine di rendere gloria a Dio e favorire la santificazione dei fedeli. Benedetto XVI ha insegnato che la liturgia è strettamente legata alla bellezza, come sperimentata da Pietro, Giacomo e Giovanni alla Trasfigurazione del Signore: "com'è bello stare qui...". La sovra-struttura non è stata abolita, perché la Costituzione Sacrosanctum Concilium al no. 34 parla di 'nobile semplicità': sembra un ossimoro, la nobiltà non è un di più della semplicità, una sovrastruttura da abolire appunto perché rifulga la semplicità? Ecco come la interpreta l'Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis al no. 41: è necessario che "in tutto ciò che riguarda l'Eucaristia vi sia gusto per la bellezza. Rispetto e cura dei paramenti, arredi, vasi sacri, affinché collegati in modo organico e ordinato fra loro, alimentino lo stupore per il mistero di Dio, manifestino l'unità della fede e rafforzino la devozione"; potremmo commentarlo con un passaggio della sequenza Lauda Sion: Quantum potes tantum aude: quia maior omni laude, nec laudare sufficit.

A questo punto si può affermare che il sacro si fa presente in una bellezza 'normativa' (rito = ordo) a cui bisogna prestare servizio; cioè i ministri possono solo amministrarla, servirla, non fare da padroni, a tutto vantaggio della cattolicità del culto; qui l'ordo del rito diventa ethos. Giustamente la liturgia è basata sul dogma e non su opinioni teologiche: cosa garantita dall'ordo.

Questa sovra-struttura, per dir così, la 'nobile semplicità' della liturgia, si può eliminare in nome dell'adattamento? O piuttosto vivere il rapporto con la liturgia e con la fede con semplicità e senza sovrastrutture, significa eliminare nel rito, nella musica e nell'arte, il profano e il desacralizzante, perché favoriscono il disordine, lo spontaneismo, la creatività e persino l'immoralità?

Proprio san Francesco raccomanda il massimo rispetto del Sacramento e che i calici, i corporali, gli ornamenti dell'altare e tutto ciò che serve al sacrificio, debbano averli di materia preziosa (cfr Fonti Francescane, Prima lettera ai custodi, 241,3); prescrive che il Santissimo Sacramento sia posto e custodito in luogo prezioso (4) e quelli che non lo faranno dovranno rendere ragione davanti al Signore nel giorno del giudizio (Lettera a tutti i chierici, 14).

Se, come ha affermato Benedetto XVI, nella liturgia assistiamo a deformazioni al limite del sopportabile, bisogna ammettere che ciò è divenuto possibile perché, dopo il Concilio Vaticano II, siamo passati da una liturgia di ferro ad una liturgia di caucciù (cfr. Civiltà Cattolica, Editoriale 20.12.2003).

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Il direttore dei Musei Vaticani sui nuovi edifici di culto. 
Ancora manca il modello

(Antonio Paolucci) Quando un edificio destinato al culto (si tratti di una chiesa cristiana o di una sinagoga, di una moschea islamica o di un tempio scintoista) è “giusto”? Quando cioè lo possiamo definire allo stesso tempo bello, funzionale e simbolicamente efficace? La risposta è una sola, non ammette deviazioni né varianti.Un edificio destinato al culto si può dire riuscito e diventare perciò un’opera d’arte quando la cultura dell’epoca che lo ha voluto si identifica con le forme architettoniche e artistiche tipiche di quel culto, quando ne sostanzia e ne sostiene, significandoli e trasfigurandoli, i sentimenti, le idee e la dottrina.
Prendiamo l’età del Barocco. Il Barocco che è stato l’ultimo grande stile internazionale di matrice cattolica. Ci sarà pure una ragione se San Marcello al Corso o San Carlino alle Quattro Fontane a Roma hanno i loro cloni a Lima e all’Avana, a Santiago del Cile e a Santo Domingo, se le chiese conventuali di Napoli o di Palermo le incontriamo uguali, nella planimetria, nel decoro artistico, nella organizzazione simbolica a Goa in India, a Macao in Cina, a Cracovia in Polonia? Questo succede per una ragione precisa. La cultura del Seicento è immaginifica, metaforica, teatrale, vuole toccare il cuore, accarezzare i sensi, sollecitare insieme le passioni e la fantasia.
Ebbene, quella cultura è entrata nell’immaginario religioso ed è diventata arte sacra.
Se entrate in una chiesa barocca vedrete l’altare maggiore alto sui gradini intarsiati di marmi policromi sovrastati dal Ciborio che custodisce il Corpus Christi. Questo perché l’altare tridentino è figura del Golgota che il sacerdote sale per celebrare il sacrificio eucaristico: Introibo ad altarem Dei recita o piuttosto recitava la formula liturgica.
Se entrate in una chiesa barocca vedrete dipinti nei pennacchi della volta gli evangelisti o i dottori maggiori. Essi stanno lì a certificare ex libris la storicità e la veridicità di quello che avviene sotto di loro, nel presbiterio e sulla mensa dell’altare.
Se entrate in una chiesa barocca vedrete gli affreschi della volta e della cupola offrire al fedele visioni di Paradiso: la Vergine assunta in Cielo, la glorificazione dei santi e dei martiri. Ma il Paradiso è fatto di nuvole colorate, di lampi di luce, di angeli belli, biondissimi e sorridenti. E infatti la visione dell’aldilà ha da essere seduttiva, sensuale, coinvolgente come la musica e l’architettura di quell’epoca. Così voleva la cultura dominante e quella cultura è stata fatta propria dalla Chiesa al punto da sostanziarne le forme simboliche.
Spesso la “forma” della chiesa è, nella percezione del popolo, la Chiesa stessa come dottrina e come istituzione.
Perché, dopo settant’anni di ateismo di stato, la religione è sopravvissuta in Russia? Non per i teologi, per gli uomini di Dio, i quali se avevano qualcosa di libero e di forte da dire finivano nei campi di concentramento oppure fucilati come il povero Florenskij nel 1938. Non per il magistero perché vescovi e igumeni dovevano, per sopravvivere, scendere a patti con il Regime al punto di trasformarsi spesso in docili funzionari del Governo.
La religione in Russia si è salvata perché sono rimaste le chiese, quelle poche che Lenin e Stalin non hanno distrutto o trasformato in musei o in uffici pubblici. Chiese dai colori di pastello, verde chiaro, rosa, azzurro, con le cupole a bulbo tempestate di stelle d’oro, chiese immaginate come materializzazioni della Gerusalemme celeste scesa sulla terra per consolare i poveri e gli afflitti: chiese all’interno delle quali si celebrano liturgie immemoriali, messe che durano ore, inni incomprensibili in slavonico antico, le iconostasi grondanti d’oro gremite di icone dalle quali appaiono, nei fumi dell’incenso, i preti salmodianti. Così si apriranno un giorno, al credente, le porte del Paradiso.
Le chiese e la liturgia (che Stalin non ha abolito né modificato forse perché da ragazzo era stato seminarista a Tiblis) hanno salvato la religione in Russia.
Queste cose ho detto il 14 maggio scorso in Campidoglio, presenti il sindaco Gianni Alemanno e il cardinale vicario Agostino Vallini, parlando del volume Electa curato da Liberio Andreatta, Marco Petreschi e Nilda Valentin che illustra le 45 nuove chiese costruite nella diocesi di Roma fra il 2000 e il 2013.
Il libro è bello e importante, deve essere considerato una vera e propria antologia, o piuttosto un manuale, di edilizia sacra italiana contemporanea. Organizzato in schede, ognuna fornita di eccellente documentazione fotografica a colori, il volume presenta una serie di opere di indubbia qualità.
È ormai entrato nei manuali l’edificio di Meier, impropriamente noto come le Vele. Non di vele in realtà si tratta ma di tre gusci in cemento bianco che qualificano un edificio assolutamente pregevole ma che potrebbe funzionare altrettanto bene per un museo in Texas o per un auditorium a Melbourne.
Mi piace di più, non foss’altro perché ha tentato di dare una connotazione trascendente allo spazio presbiteriale, il Santo Volto di Gesù di Piero Sartogo con quella copertura leggera aerea che innerva lo spazio alludendo alla forma simbolica di un grande rosone gotico fuori scala.
Altre volte la chiesa è concepita come un blocco organico, articolato in spazio del culto e in servizi parrocchiali; la chiesa intesa come una specie di fortino chiamato a presidiare il deserto multiculturale e multietnico delle sterminate periferie romane. Penso alla parrocchia dei Santi Elisabetta e Zaccaria di Giuliano Panieri.
n qualche caso intervengono suggestioni neobarocche (il San Pio da Pietrelcina di Alessandro Anselmi) oppure si propongono assetti più tradizionali anche se modulati nelle forme e nelle proporzioni della contemporaneità. Così Sandro Benedetti in Santa Maria a Setteville.
Gli esempi potrebbero continuare e i risultati sono quasi sempre di pregio. Manca però — questa è in estrema sintesi la mia impressione — la “forma chiesa”.
L’edificio bello, funzionale, simbolicamente efficace in grado di servire da modello, ancora non c’è. Almeno io non l’ho trovato.
L'Osservatore Romano