martedì 7 maggio 2013

Dov’è il vero io?


Le contraddizioni di Rousseau. 

(NdR) Italia. Bologna - alle ore 18, presso la Chiesa di Santa Cristina, Cortile dei Gentili - La visione di Dio in Rousseau. Introducono: Fabio Roversi-Monaco Presidente di Genus Bononiae. Musei della Città; Ivano Dionigi Magnifico Rettore dell’Alma Mater Studiorum. Intervengono: Cardinal Paul Poupard Presidente Emerito del Pontificio Consiglio della Cultura; Tullio Gregory Storico della filosofia, Accademico dei Lincei; Giovanni Reale Storico della filosofia, Direttore delle collane filosofiche Bompiani: Raymond Trousson Università di Bruxelles.
(Paul Poupard) «Caro Jean-Jacques, siamo veramente così buoni?» titolava il quotidiano «La Vie» in prima pagina nel 2012, in occasione dei trecento anni dalla nascita. Chi non ricorda il suo famoso aforisma: «La natura ha fatto l’uomo felice e buono, ma la società lo deprava e lo rende miserabile». Argomento ampio di confronto e di discussione. A parecchi anni di distanza, ho riletto l’opera polemica del filosofo Jacques Maritain, Trois réformateurs, Luther ou l’avènement du moi, Descartes ou l’incarnation de l’ange, Rousseau ou le saint de la nature (Paris, Plon, 1925), in italiano: Tre riformatori: Lutero, Cartesio, Rousseau (Brescia, Morcelliana, 1928).
Il “contadino della Garonna” non smette di scoccare le sue frecce appuntite, e sono numerose quelle contro la doppiezza di Jean-Jacques: «La ragione di un uomo ha un duplice ufficio. Talora si mette al servizio della passione, esplicando allora una prodigiosa virtuosità nell’argomentazione sofistica; è il Jean-Jacques moralista, stoico, plutarchico, tutto compunto di virtù, censore dei vizi del secolo, il Rousseau dei Discours, della Lettre à d’Alembert e del Contrat social. Talora invece, la ragione, come una lampada impotente, assiste alle ebbrezze del cattivo desiderio, ne discerne con perspicacia la malizia; ma, per parte sua, si guarda bene dall’intervenire, e stando assorta nello spettacolo, essa non fa, in realtà, che aumentarne l’attrattiva dandogli non so quale sapore di perversità intelligente e artistica. Poiché appartiene all’artista, secondo le parole di Aristotele, di rimanere artista quando pecca volendolo. È l’indolente Jean-Jacques, il vero Jean-Jacques, che si abbandona al piacere, che si rende conto di far male e che tiene gli occhi alzati verso l’immagine del bene e che si diletta a un tempo nel bene che egli ama senza farlo e nel male che fa senza odiarlo. L’uomo di Rousseau è l’angelo di Cartesio che si fa brutto. Rousseau ha introdotto nella letteratura e nella realtà della vita, questo tipo d’innocente, che altro non è che la sconfitta mentale di un’umanità che si abbandona. Il che è come dire che non vi è in Rousseau alcuna rettificazione della volontà, donde le sue azioni vili e la sua mollezza morale. Per questa inettitudine davanti al reale essenzialmente si spiegano l’abbandono dei suoi cinque figli, le sue crisi passionali, le sue rotture di amicizia, le sue imbelli frenesie, il narcisismo equivoco dei suoi sentimenti, tutte le vergogne e tutte le miserie della sua vita. Insomma egli è un esempio per l’umanità, un professore di virtù, un riformatore dei costumi, ed è in questo stesso momento che il futuro autore dell’Émile abbandona il suo terzo figliolo. Rousseau è un temperamento religioso. È il Vangelo, è il cristianesimo ch’egli manipola, corrompendolo. Soprattutto, ed ecco il punto capitale, Rousseau ha snaturato il Vangelo strappandolo all’ordine soprannaturale, trasportando alcuni aspetti fondamentali del cristianesimo nel piano della semplice natura. Cosa troviamo all’origine del disordine moderno? Una naturalizzazione del cristianesimo. A lui dobbiamo il cadavere di idee cristiane la cui immensa putrefazione appesta oggi l’universo. La dottrina di Rousseau è una radicale corruzione naturalista del sentimento cristiano. Il vicario savoiardo è il primo prete modernista».
E allora, quale scegliere tra questi due epitaffi, quello del suo ultimo e fedele amico, Bernardin de Saint Pierre: «Egli ha addolcito il destino dei bambini e ha aumentato la felicità dei padri; ha aperto, in Héloïse, la strada al pentimento e ha fatto versare lacrime agli amanti. Egli è vissuto ed è morto nella speranza, comune a tutti gli uomini virtuosi, di una vita migliore. Egli ha perorato la causa dei bambini, degli amanti infelici, degli sfortunati, della virtù ed è stato perseguitato». Oppure, quello del moralista Joseph Joubert che svela i chiaroscuri di un’esistenza e di un’opera ambigua: «Pigrizia a volontà, codardia voluttuosa, attività inutile e pigra che ingrassa l’anima senza renderla migliore, che dona alla coscienza un orgoglio stupido e allo spirito l’attitudine ridicola di un borghese di Neuchâtel che si crede re, l’enfasi del più voluttuoso dei furfanti che si è fatto la sua filosofia e la espone con eloquenza; infine, il pezzente che si riscalda al sole disprezzando il genere umano: così è Jean-Jacques Rousseau».
Qualunque o quale sia la nostra lettura di Jean-Jacques, questo visionario, innamorato dell’individualismo, traboccante di emozioni e tormentato dalla complessità dell’amore, ci appare come l’inventore della soggettività moderna, secondo l’epiteto di Charles Pépin. Egli ci porta a interrogarci sulla pertinenza delle sue intuizioni e la coerenza del suo discorso, e a domandarci se la sua sorprendente sincerità non ricopra con un mantello cangiante le sue luminose intuizioni, che sono tali da suscitare forti dibattiti su Dio o sulla natura umana. La sua sorprendente modernità può insegnarci molto sugli abissi della natura umana, sempre che non rimaniamo prigionieri delle sue premesse per lo meno discutibili.
Questo sognatore si iscrive con originalità nel solco prodigioso degli autori, la cui prosa incanta, a partire dal loro capo scuola incontestato, sant’Agostino, nelle Confessioni. Nel preambolo dell’opera si legge: «Non sono fatto come nessuno di quanti ho incontrati; oso credere di non essere fatto come nessuno di quanti esistono. Se pure non valgo di più, quanto meno sono diverso». Di tutt’altro tenore la massima fondamentale presentata nell’Émile: «L’uomo veramente libero non vuole altro di ciò che può e fa ciò che gli piace».
Rousseau viveva, di fatto, «una religione a modo mio» come lui stesso la definiva, noi diremmo oggi una religione “fai da te”. Mentre il razionalismo trionfa intorno a lui, il vicario savoiardo rivendica la forza delle emozioni, come in La Nuova Eloisa: «O sentimento, sentimento, dolce vita dell’anima!». La contemplazione della primavera che fiorisce, la messe che matura e la vendemmia abbondante, suscita in lui una preghiera così lontana dalle sue oscillazioni cristiane, dal protestantesimo al cattolicesimo, rigettate inoltre, alla fine della sua vita, e che lui descrive — questa preghiera — come «una sincera elevazione del cuore all’autore di questa amabile natura, le cui bellezze erano sotto i miei occhi».
La sua arte di contraddizione, giunta all’estremo, gli fa elaborare nell’Émile la prima grande teoria moderna dell’educazione, mentre abbandona i suoi cinque bambini, senza scrupoli. Questa palpazione del cuore, le sue lacrime infinite sono fonte di soddisfazione egoistica. Come scrive Olivier Gazalé nel suo Je t’aime à la philo (Robert Laffont), «Rousseau era lo specialista dell’amore impossibile. Se, del suo grande amore per Mme de Warens, una donna molto più anziana di lui, egli scrive: “Io non me ne allontanavo se non per pensarne”, nello stesso momento egli sposa Thérèse Levasseur, una donna che non l’amava ma che gli donò cinque figli, ciò non gli impedì di amare Sophie d’Houdetot, una donna purtroppo già impegnata, poiché era sposata con un capitano della gendarmeria: “Rousseau si è appassionato a donne con le quali la felicità armoniosa era inconcepibile. Si è chiuso in una problematica piuttosto desolante: sposare una donna che non si ama o sposare una donna non sposabile”».
Paradossi infiniti di Jean-Jacques: se egli ha l’intuizione delle più recenti scoperte nel campo della psicologia sociale, compresi quelli sull’empatia, il suo mito del buon selvaggio e un’epoca precedente alla vita in società durante la quale l’uomo, essenzialmente solitario, avrebbe vissuto senza morale interpersonale nell’innocenza, gli antropologi hanno scoperto invece, al contrario, che tutti i popoli primitivi studiati, a partire da Rousseau, vivevano in società, e che, lungi dall’esserne corrotti, nella maggior parte dei casi, soprattutto tra i migliori — i cacciatori — era la pace e il senso di condivisione che dominavano. Anche durante i periodi di carestia, l’aiuto reciproco s’imponeva. Jacques Leconte conclude il suo saggio su La bonté humaine, Altruisme, Empathie, Générosité (Odile Jacob): «Rousseau si è sbagliato, sia per eccesso d’ottimismo, — immaginando un uomo solo e innocente —, ma anche per troppo pessimismo —, attribuendo tutti i mali alla vita in società».
Inoltre, se la strategia individualista vince sempre in Rousseau, le più recenti scoperte nel campo delle neuroscienze ci dimostrano che sperimentiamo, piuttosto, il piacere di collaborare. L’immagine cerebrale mostra che le zone di soddisfazione vengono attivate quando siamo generosi, mentre, nel cervello, le zone d’avversione reagiscono alla vista di un’ingiustizia.
Infine, se il filosofo raccomandava la solitudine del bambino per favorire il suo apprendimento, in realtà, come sanno tutti i genitori e i veri educatori, l’apprendimento cooperativo dà risultati migliori dell’apprendimento competitivo.
Quali conclusioni? «Mio simile, mio fratello» diceva Baudelaire a colui che lo chiamava «l’ipocrita lettore». Confesso senza mezzi termini: io non ho letto tutte le opere di Jean-Jacques Rousseau. E se ho camminato sui suoi passi, dalla foresta d’Ermenonville all’isola Rousseau sul lago Lemano, io, per lo più, l’ho frequentato nei miei studi passati, in tutti i compendi, storie, trattati, enciclopedie, dizionari di filosofia, dove è onnipresente, senza averlo veramente incontrato. Come potrebbe biasimarmi, lui che non smetteva mai di ripetere «Voglio che tutti leggano nel mio cuore», ma che scriveva in Le Persiffleur: «Nulla è così dissimile da me di me stesso».
Dov’è il vero io? Qualunque sia la nostra risposta, grazie a Jean-Jacques, a tre secoli di distanza, perché ci invita a porci la domanda nel più profondo di noi stessi e, per i credenti, davanti a Dio.
L'Osservatore Romano, 7 maggio 2013.