mercoledì 29 maggio 2013

L'eutanasia nelle chiese cristiane




Da sempre, uno degli elementi chiave di ogni religione è la risposta offerta al mistero della morte, sia 
per dare speranza di fronte alla fine della vita, sia per trovare alla morte un posto all'interno dell'esperienza 
umana, sia infine per spiegarne il senso a chi sta per incontrarla o a chi ha perso da poco una persona cara.
Storicamente, le comunità religiose di ogni tipo, epoca e regione del mondo hanno cercato quindi di
fare proprio il momento della morte, di ricondurlo all'interno del ciclo della vita attraverso riti di 
passaggio o di commemorazione. Anzi, l'esperienza della morte e il processo che avvicina ad essa 
sono spesso considerati come occasione per un'esperienza spirituale, un momento chiave per la 
scoperta di sé e per la preparazione alla nuova vita che seguirà la morte.
Proprio per la centralità della morte nell'esperienza religiosa, non deve stupire che la maggior parte 
delle fedi vedano negativamente ogni tentativo umano di regolare i tempi, i modi e i percorsi di 
avvicinamento alla propria morte. Di qui l'opposizione esplicita di gran parte delle religioni al 
suicidio e, in tempi più moderni, all'eutanasia e al suicidio medicalmente assistito.
Questo rifiuto è però quasi sempre accompagnato da un parallelo rifiuto della difesa a oltranza della 
vita biologica fine a se stessa - dell'accanimento terapeutico, si potrebbe dire - nella consapevolezza che
mantenere artificialmente in vita il corpo a volte non permette allo spirito di continuare a vivere.
I motivi di questa opposizione sono molteplici: alcune religioni affermano esplicitamente che Dio 
proibisce di togliere la vita ad altri esseri umani, e quasi tutte le fedi sottoscrivono in un modo o
nell'altro il principio della sacralità della vita umana, che proprio perché creata da Dio appartiene a 
lui, e non agli uomini, e va quindi protetta e preservata in ogni caso. Alla vita umana viene quindi 
riconosciuta una dignità unica, che l'individuo non può permettersi di toccare nemmeno in se stesso.
Negli ultimi anni, con il progresso della medicina, molte religioni hanno approfondito le complesse 
questioni suscitate dall'allungamento artificiale della vita e dallo sfumarsi del confine tra la vita e la 
morte. Nel presente saggio saranno passate in rassegna, in particolare, le posizioni espresse dalle varie 
Chiese e confessioni cristiane. Non tutte, in effetti, hanno preso il cammino di radicale negazione di 
ogni interferenza con il corso naturale della vita verso la sua fine preso dalla Chiesa cattolica, che rifiuta 
ugualmente eutanasia, suicidio assistito e accanimento terapeutico, e subordina il diritto individuale 
all'autodeterminazione al principio della sacralità della vita.

valdesi
In Italia, la principale voce cristiana che ha offerto un controcanto alle posizioni cattoliche è 
naturalmente quella della Chiesa evangelica valdese (Unione delle Chiese metodiste e valdesi). Negli 
ultimi anni, soprattutto tramite la loro Commissione bioetica, i valdesi sono intervenuti sui casi che 
hanno portato all'attenzione dell'opinione pubblica italiana i temi del fine vita, quelli di Eluana 
Englaro e di Piergiorgio Welby.
Nel luglio 2008, pochi mesi prima della morte della ragazza lecchese in stato vegetativo permanente,
la Commissione bioetica valdese aveva ribadito che il punto di partenza per affrontare i temi del fine 
vita alla luce dei progressi della scienza medica fosse «un'idea della medicina come terapia rivolta a
soggetti in grado di autodeterminarsi e in grado di decidere il proprio destino». «La libertà 
individuale non va guardata con sospetto e identificata con l'arbitrio», ribadiva il documento, 
riaffermando il sostegno valdese a una legge sulle direttive anticipate di fine vita. Un punto, questo, 
sostenuto già un anno prima, nel pieno di un dibattito parlamentare che non avrebbe però portato da 
nessuna parte.
La centralità dell'autonomia della persona, che «non può essere limitata per asserire particolari 
visioni appartenenti a tradizioni filosofiche o religiose», era oggetto della riflessione sui «Problemi 
etici posti dalla scienza» messa in campo dal sinodo valdese già dal 2000. Respingendo l'idea che la 
sofferenza abbia un «valore intrinseco», ma senza entrare nello specifico delle diverse opzioni etiche e
mediche, vi si affermava che «l'essere umano ha diritto a un accompagnamento alla morte, nonché a una 
morte dignitosa» e che nella «fase terminale della malattia» le decisioni devono essere prese «alla luce 
del principio di libertà di scelta del malato stesso».

Gli anglicani
Nell'anglicanesimo, l'analisi della questione è in larga misura simile a quella cattolica. La Chiesa 
anglicana d'Inghilterra spiega concisamente sul suo sito di essere «contraria ad ogni cambiamento 
nelle leggi o nella pratica medica che renda il suicidio assistito ammissibile o accettabile».
Rowan Williams, l'ex arcivescovo di Canterbury — che in quanto primate della Chiesa d'Inghilterra 
riveste un ruolo di leadership spirituale, una sorta di primus inter pares, per le altre Chiese anglicane nel 
mondo — ha ammesso che chi presenta la morte medicalmente assistita come un atto compassionevole 
avanza un «argomento molto solido».
Tuttavia, nel febbraio 2012, nell'ambito del dibattito inglese sul suicidio assistito, lo stesso Williams 
ha affermato senza mezzi termini che la sua legalizzazione sarebbe un «disastro» per la società. E la 
tesi rimane la posizione accettata da parte della larga maggioranza della Chiesa anglicana.
Per Williams, che parlava al sinodo della Chiesa d'Inghilterra, assicurare ai malati terminali il «diritto 
di morire» sottoporrebbe a una pressione — anzi a una «minaccia», per usare le sue parole — difficilmente 
valutabile tanto i medici quanto gli stessi malati. Williams ha quindi sposato la tesi classica degli 
oppositori della "dolce morte", paragonandola esplicitamente all'aborto, e ha messo in guardia il 
parlamento britannico dall'approvare una legge che creerebbe circostanze in cui la vita viene 
«ufficialmente dichiarata non degna di essere vissuta».
Nel 2009, un documento della Chiesa d'Inghilterra su suicidio assistito ed eutanasia riconosceva che 
coloro che vogliono legalizzare queste misure sono «spesso motivati da compassione e da un desiderio 
di vedere le persone trattate con dignità e rispetto». Tuttavia, già allora si affermava che, anche se la 
Chiesa anglicana condivideva queste motivazioni, e in particolare il «desiderio di alleviare il dolore 
fisico e psicologico, [...] il suicidio assistito e l'eutanasia volontaria non sono mezzi accettabili di 
raggiungere questi nobili obiettivi».
Sul piano etico, per la Chiesa anglicana i princìpi dell'autonomia della persona e della protezione 
della vita sono spesso complementari. Ma quando vengono in conflitto deve essere il secondo a 
prevalere, anche perché la dignità e il valore unico di ogni essere umano sono alla base non solo del 
«diritto alla vita», ma anche di buona parte dell'ordinamento penale su cui si regge la società. D'altra 
parte, argomentava il documento, se il suicidio assistito diventasse legale, i medici e il personale sanitario si 
troverebbero a giocare un ruolo «indesiderato» nella società, se non altro perché sarebbe praticamente 
impossibile, sul piano pratico, stabilire protezioni sufficienti contro gli abusi dell'eutanasia legalizzata. 
Ogni legge, anche quella formulata nel modo più cristallino, va interpretata e questo aprirebbe il fianco a 
«interpretazioni elastiche», sottolineava la Chiesa anglicana. Allo stesso tempo, sarebbe impossibile 
evitare che i pazienti e i medici si ritrovino soggetti a «pressioni occulte»: i malati terminali «si 
sentirebbero costretti dalla pressione morale, economica e sociale ad accettare il suicidio assistito». 
Quindi, la legalizzazione del suicidio assistito avrebbe cambiato «in maniera fondamentale e 
irrevocabile» il rapporto tra medici e pazienti.
Anche la Chiesa anglicana statunitense nota come Chiesa episcopaliana — generalmente condanna 
ogni forma di eutanasia attiva, anche se motivata dalle «sofferenze di una malattia incurabile». Tuttavia, si legge
in un documento del 1991, «le cure palliative per alleviare il dolore di pazienti con malattie degenerative 
incurabili, anche se somministrate con la consapevolezza che potrebbero accelerare l'arrivo della morte, 
sono compatibili con la dottrina teologica della santità della vita umana» e «non c'è obbligo morale di 
prolungare il momento della morte con mezzi straordinari e a tutti i costi [...] se non ci sono 
ragionevoli possibilità di ripresa».
Nello stesso documento, la Chiesa episcopaliana riconosce che, nel caso di pazienti non più coscienti, 
le leggi sul «diritto a morire» devono rispettare il diritto degli individui di «formulare scelte informate» e
che le dichiarazioni anticipate devono poter prevedere esplicitamente la sospensione o il rifiuto delle 
cure.

Ed è proprio negli Stati Uniti - dove il dibattito è esploso già negli anni Settanta e Ottanta con le
vicende di Karen Ann Quinlan e Nancy Ann Cruzan, per poi diventare notizia da prima pagina con il 
caso di Terri Schiavo nel 2005 - che le diverse denominazioni e Chiese cristiane registrano le posizioni 
più esplicite, articolate e varie.
Tra i cristiani battisti, ad esempio, è possibile riscontrare uno spettro abbastanza ampio di posizioni.
Da una parte, ci sono le American Baptist Churches - che contano circa 5.200 comunità e 1 milione 
e 300 mila fedeli - che hanno approvato un documento ufficiale che chiede ai suoi membri di «adoperarsi 
all'interno della comunità medica per una maggiore enfasi sul fine assistenziale della medicina, per 
preservare la dignità umana e minimizzare la sofferenza dell'individuo, nel rispetto delle scelte 
personali sui trattamenti da ricevere al termine della vita».
Dall'altra, invece, c'è la Southern Baptist Convention, molto più numerosa e con circa 16 milioni di 
affiliati che ne fanno la più grande Chiesa protestante degli Stati Uniti, tradizionalmente di stampo 
evangelico e marcatamente conservatore. La Convention rifiuta l'eutanasia e il suicidio assistito come 
una violazione della santità della vita umana. Anzi, una risoluzione del 1992 non solo afferma 
esplicitamente che acqua e cibo non possono essere considerati un «trattamento medico straordinario»
e che quindi «l'alimentazione e l'idratazione devono continuare a essere visti come mezzi ordinari e 
compassionevoli di cura medica e di trattamento umano», ma chiede addirittura ai governi di 
condannare penalmente i medici che praticano l'eutanasia o aiutano i loro pazienti a commettere il 
suicidio.
Un discorso leggermente diverso viene fatto invece da parte di altri gruppi evangelici. La National 
Association of Evangelicals, che riunisce 45 mila Chiese locali di 40 diverse denominazioni tutte legate al
movimento evangelico, da una parte rifiuta esplicitamente l'eutanasia e il suicidio medicalmente assistito . 
Dall'altra, però, afferma che «in casi in cui i pazienti siano malati terminali, la morte appaia imminente e le 
cure non offrano alcuna speranza medica di una ripresa, è moralmente appropriato richiedere di staccare 
le macchine per il sostegno vitale per permettere alla morte naturale di verificarsi». Il documento 
tuttavia sottolinea che «in questi casi va presa ogni misura necessaria perché i pazienti non soffrano 
fisicamente e va offerto al paziente sostegno spirituale ed emotivo fino al momento del trapasso».

I luterani
Ancora più esplicita è la Chiesa evangelica luterana d'America, che conta 10 mila comunità e oltre 4 
milioni di fedeli. Un documento sul fine vita approvato nel 1992 approva esplicitamente la morte 
medicalmente assistita. «Il personale medico non deve usare tutti i trattamenti medici a disposizione in 
ogni circostanza. Le cure possono essere limitate in alcuni casi, in modo da permettere alla morte di avere
luogo». Anche la Chiesa evangelica luterana d'America, però, si oppone nettamente all'eutanasia perché
«distruggere deliberatamente la vita creata a immagine e somiglianza di Dio è contrario alla nostra 
coscienza cristiana». Il documento della Chiesa, ad ogni modo, riconosce la difficoltà delle scelte di 
fronte a cui si trovano i medici, chiamati spesso a scegliere il «male minore» in situazioni complesse e 
posti di fronte a dilemmi spinosi e paralizzanti - ad esempio, quei casi in cui il dolore di un paziente è così 
forte da rendere «la vita indistinguibile dalla tortura». In caso di direttive anticipate lasciate dal 
paziente o di rifiuto delle cure, i medici devono rispettare la volontà dell'individuo, anche quando sono in 
disaccordo.
In Germania, la Chiesa evangelico-luterana ha elaborato insieme ai vescovi cattolici un documento
sulle «Dichiarazioni anticipate del paziente cristiano». Questo documento, preparato nel 1999 e rivisto
nel 2003 e di nuovo nel 2009, da una parte dice «no» all'eutanasia attiva, ma dall'altra ritiene 
giuridicamente ed eticamente ammissibili tanto l'eutanasia passiva - ovvero l'interruzione o la non 
somministrazione di cure volte al prolungamento della vita nel caso di malati inguaribili - quanto 
quella indiretta - ossia quando al morente vengono prescritti dal medico «farmaci sedativi del dolore 
che [...] come effetto secondario involontario possono accorciare la vita del paziente». Nei due casi 
dell'eutanasia passiva e indiretta, secondo luterani e cattolici tedeschi, è possibile formulare un 
testamento biologico.
Anche in Italia, nel 2004, i luterani si sono pronunciati sul tema. Ma lo hanno fatto con accenti 
leggermente diversi dai loro «cugini» tedeschi. Il punto di partenza è il riconoscimento che «le paure 

umane di non poter morire con dignità vanno prese seriamente».

La risposta, però, «non può essere cercata nella liberalizzazione dell'eutanasia attiva, ma nel 
miglioramento di misure palliative, lotta effettiva al dolore, organizzazione della cura domiciliare e 
negli ospizi, come in un'attenzione maggiore alla volontà del paziente». Tanto più che «in questi 
tempi di riduzione delle spese sociali in tutta l'Europa» la «soluzione tecnica e a buon mercato 
dell'eutanasia» può finire per «controbilanciare la ricerca di un accompagnamento umano del morente». E
se è vero che i «testamenti [biologici] dei pazienti possono dare, in persone non coscienti, informazioni 
importanti su una possibile volontà [...] il medico non è l'esecutore testamentario del paziente: non ci si
può attendere da lui un'azione contraria all'etica come l'uccisione su richiesta».

Altre posizioni protestanti
I metodisti, ovvero i cristiani che si rifanno all'insegnamento del teologo inglese John Wesley, 
vissuto nel XVIII secolo, in genere, accettano la libertà di coscienza dell'individuo, anche quando si 
tratta di determinare il momento e le modalità della propria morte. Negli Stati Uniti, anzi, alcuni 
gruppi regionali di metodisti si sono pronunciati espressamente a favore della legalizzazione del 
suicidio assistito.
In generale, però, la maggioranza delle Chiese nate dalla Riforma protestante condannano l'eutanasia 
e il suicidio assistito. La Chiesa cristiana riformata del Nordamerica - una Chiesa di impronta 
calvinista con circa 300 mila membri negli Stati Uniti - durante un sinodo tenutosi nel 1972 ha approvato 
una risoluzione che condanna, in nome del comandamento «Non uccidere», «la distruzione insensata e 
arbitraria di ogni essere umano ad ogni stadio del suo sviluppo dal momento del concepimento al 
momento della morte». Anche se il documento era originariamente riferito all'aborto, la sua 
interpretazione è stata successivamente estesa anche al fine vita .
I presbiteriani equiparano senza mezzi termini l'eutanasia - e le altre misure di «dolce morte» - 
all'«omicidio». Tuttavia, si legge in un documento del 1988 sui «Provvedimenti eroici», «rifiutare o 
sospendere le cure [...] non costituisce eutanasia», ma solo quando questa decisione deriva 
dall'impossibilità di un pieno recupero e non viena presa con l'obiettivo di «alleviare il dolore». 
Anzi, il documento afferma esplicitamente che «ridurre la sofferenza non è mai un motivo che 
giustifichi l'abbreviamento della vita di una persona».
Anche i mormoni condannano l'eutanasia, definita come «l'atto di mettere deliberatamente a morte 
una persona che soffre di una condizione o malattia incurabile» e anzi affermano che chiunque 
cooperi con la fine volontaria della vita di un altro individuo, anche nel caso del suicidio assistito, 
«viola i comandamenti di Dio». Tuttavia, la Chiesa dei santi degli ultimi giorni riconosce che 
quando una persona arriva alle fasi finali di una malattia incurabile ci si trova di fronte a decisioni 
difficili, che possono portare a scelte che vanno nella direzione della riduzione dell'accanimento 
terapeutico. In quei casi, si legge nell'edizione 2010 del manuale «L'amministrazione della Chiesa» 
rivolto ai membri della Chiesa, «quando la morte è inevitabile, dovrà essere considerata una 
benedizione e una parte dell'esistenza eterna con un suo preciso scopo. I fedeli non devono sentirsi 
obbligati a prolungare questa vita mediante il ricorso a mezzi irragionevoli». Il manuale spiega che 
«questa decisione può essere presa al meglio dai familiari dopo aver ricevuto consigli medici saggi 
e competenti e dopo aver chiesto la guida divina mediante il digiuno e la preghiera».
Il cristianesimo scientista - Christian Science, uno dei pochissimi movimenti cristiani fondato da 
una donna, Mary Baker Eddy, nel 1879 - sottolinea che la missione della Chiesa è la guarigione. Per
questo motivo, affrettare il momento della morte non è espressione di fede genuina ed è anzi una 
negazione della presenza e del potere curativo di Dio. Allo stesso modo, la Chiesa dei discepoli di 
Cristo - un'altra denominazione protestante americana, risalente alla prima metà dell'Ottocento e che
conta circa 600 mila aderenti - rifiuta l'eutanasia perché le ragioni generalmente addotte da chi cerca
o sostiene la «dolce morte», come la sofferenza o una condizione incurabile, sono in contraddizione
con la testimonianza biblica che dà senso e valore al dolore e schiude al credente la possibilità di 
una guarigione miracolosa.
Stesso discorso, non sorprendentemente, viene fatto anche dall'Esercito della salvezza e dai 
Testimoni di Geova.
C'è però una Chiesa protestante per cui il suicidio medicalmente assistito non solo è una scelta morale ma che arriva addirittura a teorizzare l'obbligo religioso dei credenti di richiedere 
l'approvazione di leggi che assicurino questo diritto. Si tratta della Chiesa unitariana universalista, 
nata nel 1961 dall'unificazione di due tradizioni cristiane nordamericane, gli unitariani e gli 
universalisti. Si tratta di una Chiesa che si autodefinisce liberal, che si riconosce nella tradizione 
giudaico-cristiana ma che non ha un credo definito. Nel 1988, la Chiesa ha adottato la risoluzione 
sul «Diritto a morire con dignità» che difende il diritto «all'autodeterminazione nella morte» e 
chiede la depenalizzazione dei reati commessi da chi ha agito per «onorare il diritto dei malati 
terminali di scegliere il momento della loro morte». Gli unitariani universalisti si impegnano quindi 
a sostenere leggi che «offrano protezione legale al diritto di morire con dignità, in accordo con le 
proprie scelte».

I cristiani ortodossi
Come per i cattolici, anche per i cristiani ortodossi, tanto l'eutanasia quanto ogni altra forma di 
morte medicalmente assistita è moralmente e teologicamente inaccettabile, perché in contrasto con 
la sovranità di Dio e con la santità inviolabile della vita.
Il patriarcato di Mosca, da cui dipendono poco più della metà degli ortodossi al mondo, per un 
totale di circa 150 milioni di persone, condanna l'eutanasia come una «combinazione di omicidio e 
suicidio», come spiegato nel 2011 dal portavoce, arciprete Vsevolod Chaplin. Anche se chi non è in 
grado di sopportare il dolore fino alla fine non va condannato, «conosciamo molti casi di persone a 
cui i medici non avevano dato alcuna speranza ma che sono stati curati da Dio, spesso con un 
miracolo». «Questo», secondo Chaplin, «ci insegna a mantenere la speranza fino agli ultimi istanti, 
a obbedire a Dio e a continuare a combattere per la vita. Credo che in questi casi sia molto più etico,
in un certo senso, conservare la vita della persona e incoraggiarla a combattere per la propria vita». 
Il patriarcato moscovita, come la maggior parte delle altre Chiese cristiane europee, a cominciare da
quelle cattolica e anglicana, mette anche in guardia dal rischio, «nelle società moderne, di 
trasformare l'eutanasia in un modo per risolvere problemi economici e sociali: è facile immaginare 
una situazione in cui si mette pressione a pazienti non abbienti per convincerli a mettere fine alla 
loro vita. Questa pressione è assolutamente immorale».
Tuttavia, due anni prima, lo stesso Chaplin aveva offerto all'agenzia Interfax una posizione più 
sfumata, almeno nei casi di pazienti in stato vegetativo irreversibile. Chiamato a commentare il caso
di Eluana Englaro, il portavoce del patriarcato di Mosca aveva infatti trovato ingiustificato 
mantenere in vita artificialmente per molti anni una persona senza possibilità di ripresa, sostenendo 
che in questo caso non si poteva parlare di eutanasia. «Certamente ci sono casi in cui non è chiaro 
se l'anima è ancora presente nel corpo quando da molti anni il corpo non dà segni di coscienza, 
anche se alcuni organi e funzioni sono ancora attivi», aveva osservato Chaplin.
Anche la Chiesa greco-ortodossa, che riconosce la leadership spirituale del patriarca ecumenico di 
Costantinopoli Bartolomeo I, condanna l'eutanasia come un'«alienazione morale», mettendola sullo 
stesso piano dell'omosessualità e dell'aborto. Nell'ortodossia greca, scrive Stanley S. Harakas, 
sacerdote ortodosso esperto di bioetica che ha lavorato anche al Consiglio ecumenico delle Chiese, 
«la morte è considerata il male in sé, un simbolo di tutte quelle forze che si oppongono alla vita 
donata da Dio e alla sua pienezza. La salvezza e la redenzione sono generalmente intese nel 
cristianesimo orientale come una condivisione della vittoria di Gesù Cristo sulla morte, il peccato e 
il male tramite la sua crocifissione e resurrezione. La Chiesa [greco-]ortodossa ha una posizione 
nettamente pro-life che si esprime, tra l'altro, nell'opposizione a chi promuove l'eutanasia». Allo 
stesso tempo, però, la Chiesa greco-ortodossa, alla luce degli avanzamenti della scienza medica, 
rifiuta l'accanimento terapeutico e ogni atteggiamento che «ignori l'inevitabilità della morte 

corporale».
A. Speciale
in “Micromega” n. 4 del maggio 2013