domenica 12 maggio 2013

Nel nostro mondo disincantato educare alla fede è un'arte




di Enzo Bianchi
in “La Stampa” del 12 maggio 2013
Un brano dal nuovo saggio di Enzo Bianchi “Fede e fiducia”, ed. Einaudi, in libreria la prossima
settimana. «Le parole di questo libro - spiega il Priore di Bose - sono parole incrociate in un
dialogo con pensatori ai quali mi sono trovato accanto, in confronto, in Francia e in Italia». Sono
Massimo Cacciari, Claude Geffré, Christoph Theobald, Adolphe Gesché, Remo Bodei, Luc Ferry,
André ComteSponville, Régis Debray, Julia Kristeva e Joseph Moingt.
Viviamo in una stagione contrassegnata da molti ostacoli, da diverse contraddizioni recate alla fede,
sicché la fede sembra incapace di interessare gli uomini e le donne di oggi, che vivono
nell’indifferenza riguardo al cristianesimo e, più in generale, a ogni ricerca di Dio. Non solo,
proprio in coloro che si dicono credenti e cristiani di fatto la fede appare esile, di corto respiro,
incapace di manifestare quella forza che cambia la vita, il modo di pensare, sentire e agire: magari
la religiosità appare forte, ma la fede debole! Anche per questo i cristiani sono letti come una
minoranza in una società sempre più plurale per credenze religiose ed etiche ed espressioni
spirituali che non fanno alcun riferimento a Dio o a vie tradizionali.
Il mondo di oggi, secolarizzato, è un mondo «disincantato»; per molti, Dio non appare evidente e
nemmeno necessario. Si può vivere senza credere in Dio e costruire un’umanità capace di scegliere
una vita sensata, contraddistinta da pace, giustizia, libertà? Si può negare Dio o fare a meno di lui
senza pensare a se stessi come Dio? Un tempo, domande di questo tipo non erano nemmeno
formulabili, perché Dio era evidente e necessario, oggi invece riusciamo a porle e a porcele.
Alcuni, incapaci di accettare l’attuale situazione e di farsene carico, nutrono nostalgia per il passato
della christianitas e vorrebbero a ogni costo rifiutare la contemporaneità, ma altri cristiani ritengono
che la «non evidenza» e la «non necessità» di Dio oggi possano rivelare qualcosa di Dio stesso, del
Dio dei cristiani, e dunque che sia possibile continuare a credere senza angosce e senza paure in
colui che costantemente fa della nostra storia una storia di salvezza dove egli agisce con amore e
solo per amore.
André Comte-Sponville ha affermato che «possiamo fare a meno della religione, ma non della
comunione, né della fedeltà, né dell’amore». Parole che mi trovano consenziente, ma con la
precisazione che non si può fare a meno neanche della fiducia-fede, dell’atto di credere, da cui
possono nascere comunione, fedeltà e amore. Ecco la vera patologia che oggi affligge l’intera
società occidentale: affievolimento,depressione dell’atto di credere, carenza di fiducia in se stessi e
negli altri, nel futuro e nella terra. Credere, fare fiducia, è diventato faticoso ed è un atteggiamento
raro. Il discorso sulla fede, allora, non riguarda solo i cristiani o i cosiddetti credenti: debitori di una
certa visione manichea che separa credenti e non credenti, siamo incapaci di individuare i temi
brucianti che riguardano tutti gli uomini e che determinano i rapporti degli uni con gli altri. Eppure,
per tutta la vita, ognuno di noi si domanda se il vivere abbia un senso, se si possa credere, fare
affidamento su una parola, su Qualcuno!
Ecco dunque la grande responsabilità dei cristiani che, avendo come prima vocazione la vocazione
alla fede e conoscendo l’esercizio della fede, possono essere uomini e donne che infondono fiducia
negli altri, quella fiducia-fede di cui fanno l’esperienza senza vantare alcuna superiorità su quanti, a
loro volta esercitati nella fiducia-fede, non riescono ad accogliere il dono di credere nel Dio di Gesú
Cristo. Ciò che davvero dovrebbe stare davanti a noi come l’urgenza delle urgenze, è che l’uomo sia
consapevole che «si passa dalla morte alla vita amando i fratelli», ma questa verità va conosciuta,accolta, creduta.
Oggi, però, anche la trasmissione della fede è diventata difficile, e le nuove generazioni – definite
dalla sociologa Danièle Hervieu- Léger «en rupture de mémoire» – sembrano incapaci di ricevere
quelle eredità anche culturali che per secoli hanno contrassegnato le nostre terre. Se è vero che
«cristiani si diventa, non si nasce» (Tertulliano, Apologetico 18,4), è altrettanto vero che fino a
qualche decennio fa si «nasceva», per così dire, cristiani, si cresceva più o meno come cristiani, e il
tessuto familiare, ecclesiale e culturale assicurava un cammino che portava la maggior parte delle
persone a definirsi tali. Adesso invece il quadro è profondamente cambiato: per questo la Chiesa,
anche in Italia, si interroga sulla trasmissione della fede e sull’educazione alla fede come primo
compito da assumere, e richiama spesso l’attenzione sull’emergenza educativa. Comunicare il
Vangelo in un mondo che cambia – per riprendere il titolo dato dai vescovi italiani agli
Orientamenti pastorali per il primo decennio del 2000 –, trasmettere la fede in nuove comprensioni
antropologiche è dunque una sfida, un compito che non si può evadere. In questa situazione difficile
e critica dobbiamo però tenere presente che cattive consigliere sono la paura e l’ansia per il futuro
della fede: questi sentimenti, infatti, non portano ad avere fede ma, semmai, ad assumere posizioni
difensive, a chiudersi in una cittadella che si sente assediata e minacciata, a munirsi di identità forti
e intransigenti; oppure a confidare in un buon metodo o in una strategia astuta, entrambi ricercati
con affanno.
In questa riflessione vorrei percorrere un’altra via; o meglio, vorrei adottare semplicemente quella
percorsa da Gesù stesso, di cui danno ampia testimonianza le Sante Scritture del Nuovo Testamento.
Perché, come aveva già compreso la Chiesa primitiva nell’ora in cui quale «piccolo gregge» (Luca
12,32 ) si impegnava nella missione tra le genti del Mediterraneo, Gesù è stato e resta un pedagogo,
un iniziatore alla fede.
Fu Clemente di Alessandria, vissuto tra la metà del II e l’inizio del III secolo, a definire Gesù Cristo
«pedagogo», invitando i cristiani a guardare a lui non solo come modello di vita ma anche, appunto,
come educatore alla fede: c’è in Gesù un’arte nell’incontrare l’altro, nel comunicare e nel tessere
con lui una relazione, l’arte di educare alla fede.