giovedì 9 maggio 2013

Papa Francesco: identità e missione della Chiesa




Recentemente papa Francesco, in una delle sue prediche a santa Marta, ha affermato che la Chiesa è la comunità dei sì, perché nasce dall’amore di Cristo. Ha nello stesso tempo criticato l’atteggiamento dei puritani, il moralismo fine a se stesso, per poi aggiungere: “E’ una comunità dei sì, e i no sono conseguenza di questo sì”. Infine ha affermato che la comunità cristiana che vive nell’amore, chiede perdono a Dio dei suoi peccati, perdona le offese e “sente l’obbligo di fedeltà al Signore di fare come (dicono) i comandamenti”.
A chi scrive sembra che queste puntualizzazioni siano di grande importanza. Il mondo, infatti, tende a leggere la morale della Chiesa come un no, su tutto. Ogni intervento in cui si dica no, viene letto dai media con le solite categorie, per le quali la Chiesa “fulmina”, “scomunica”, “tuona”, opponendo, insomma, ad ogni cosa, la sua testarda negazione.
La reazione di molti credenti rischia allora di essere, erroneamente, di due tipi: chi spiega, i più, che non bisogna più dire no, che bisogna “aprirsi”, “aggiornarsi”, viaggiare con il mondo; e chi, al contrario, ritiene che l’atteggiamento da tenere sia quello di un moralismo rigido e un po’ puritano.
La Chiesa, invece, è la comunità dei sì, ed è da questi sì, giova ribadirlo, che conseguono dei no. Il sì di Maria è all’origine della storia della salvezza; il sì alla volontà del padre, quale che essa sia, è il cuore della preghiera insegnata da Cristo (fiat voluntas tua); il sì è il cuore del matrimonio, scelta di amare per sempre; il sì è, ancora, il motore della carità e della missione. E’ la cultura dominante, relativista ed egoista, che, al contrario, mentre accusa la Chiesa di dire sempre no (si veda il libro di Marco Politi, con prefazione di Emma Bonino, “La chiesa dei no”), negando l’amore e il Dio della vita, oppone il suo no pervicace a ciò che è bello e buono. L’egoismo, la vendetta, la prepotenza, sono dei no. E l’aborto, il divorzio, la droga… tutte le altre libertà proposte dai radicali di ogni tipo, cosa sono, se non, anch’essi, un no, pieno, sonoro, alla vita? Un no al disegno di Dio per ognuno di noi? L’esito della cultura odierna è appunto, il no: il nichilismo.
Non serviam, è, infatti, la affermazione di Lucifero, al punto che Arrigo Boito, nel suo “Mefistofele”, prendendo spunto dal Faust di Goethe, gli fa dire: “Son lo spirito che nega/Sempre tutto…”. Mefistofele nega la bellezza della vita, l’importanza del sacrificio, l’ordine della realtà, la struttura divina della famiglia, il senso dell’esistenza terrena, l’orizzonte trascendente…
Il Dio dei cristiani, invece, ci chiede di dire sì, alle circostanze, alle persone, al bene che incontriamo ed anche ai sacrifici che ci sono richiesti. Promettendoci la felicità non nell’aldilà, soltanto, ma anche su questa terra: “il centuplo, quaggiù, e l’eternità”. Non è un caso dunque che nella Rivelazione Dio si definisca per affermazione, non per negazione: “Io sono colui che è”; “Sono la Via, la Verità e la Vita….”.
Il sì, però, comporta anche l’esistenza del no; il Bene, nella caducità terrena, la possibilità del male. Non è sempre facile dire sì, perché ci è spesso offerta la scorciatoia, la fuga, l’illusione della facilità del no.
Per questo la Bibbia è Rivelazione in due parti: nell’Antico Testamento Dio dà i comandamenti: alcuni sono positivi (“Io sono il Signore Dio tuo…”; “Onora il padre e la madre”), altri, i più, sono negativi (“non uccidere, non rubare…”). Dio, mi sembra, agisce con l’umanità come si fa con un figlio: finché è piccolo, occorrono dei no, chiari, precisi; poi il figlio cresce, incomincia sempre più ad avere una sua personalità, una sua libertà, l’uso della ragione. E allora i genitori non possono più limitarsi ai no: devono dargli le ragioni profonde di quei no; devono cioè indicargli uno stile di vita, dei modelli, una tensione ideale, una meta. E’ l’ora del sì, che costruisce la persona. Ai giovani si mostrano le cime, non ci si limita ad additare le valli; si spronano al bene; si indicano gli eroi e i santi… senza dimenticare il male, conoscere il quale, come nell’Inferno di Dante, serve solo a renderne ancora più evidente la bruttezza.
Così al Vecchio Testamento, segue il nuovo, in cui tutta la legge è racchiusa nell’unico comandamento, tutto in positivo, dell’Amore: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti” (Matteo 22,37-40).
Nella pedagogia dei grandi santi educatori, si ritrova questo stesso stile di Dio. Santa Teresa Verzeri, ad esempio, o san Giovanni Bosco prendevano per mano i loro discepoli, insegnando loro il timore, e, soprattutto, l’amore di Dio. Perché, come spiegava un tempo il catechismo di san Pio X, così semplice e chiaro, Dio accetta il nostro “amore servile”, ma desidera che questo amore diventi “filiale”. Vuole che arriviamo a non fare il male, non solo per un giusto timore, della creatura verso il Creatore, ma per amore Suo. Solo così si spiega il detto di sant’Agostino: “Ama, e fai ciò che vuoi”.
Il Foglio, 9 maggio


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Mancano pochi giorni al secondo mese dall’elezione di Papa Francesco. Una delle novità più feconde di questo inizio Pontificato sono le Messe che il Papa celebra la mattina alla Casa Santa Marta, le cui omelie vengono riferite in sintesi dalla nostra emittente e dall’Osservatore Romano. Prendendo spesso spunto dai brani degli Atti degli Apostoli, e dunque dalla vita della prima comunità cristiana a Gerusalemme, il Pontefice sta tracciando un affresco sulla Chiesa, sulla sua identità e missione.
Una Chiesa umile e coraggiosa in ascolto dello Spirito Santo. Una Chiesa che esce da se stessa per andare nelle periferie del mondo. Una Chiesa che è madre, non baby sitter, che costruisce ponti e non muri. Una Chiesa dalle porte aperte, che è comunità di amore non una Ong. In meno di due mesi, Papa Francesco ha offerto numerosi spunti di riflessione ai fedeli su cosa vuol dire vivere nella Chiesa, essere Chiesa. Con il suo linguaggio semplice e diretto, ma al tempo stesso profondo, il Papa sta ricordando, innanzitutto, che ogni battezzato ha una “grande responsabilità”: annunciare Cristo e così “portare avanti la Chiesa”. Essere cristiano, infatti, avverte, “non è fare carriera in uno studio per diventare un avvocato”. Essere cristiano è “un dono che ci fa andare avanti con la forza dello Spirito nell’annuncio di Gesù Cristo”. Ecco perché, il cristiano deve essere sempre in cammino, mai fermo:

“Quando la Chiesa perde il coraggio, entra nella Chiesa l’atmosfera di tepore. I tiepidi, i cristiani tiepidi, senza coraggio… Quello fa tanto male alla Chiesa, perché il tepore ti porta dentro, incominciano i problemi fra noi; non abbiamo orizzonti, non abbiamo coraggio, né il coraggio della preghiera verso il cielo e neppure il coraggio di annunciare il Vangelo”. (Messa, 3 maggio)

Un coraggio, avverte Francesco, che troviamo solo se sappiamo accogliere la Parola di Dio con cuore umile, se siamo docili e non opponiamo resistenza allo Spirito Santo. Ecco allora che la Chiesa diventa davvero una comunità del “sì” che rimane nell’amore di Cristo:

“Noi, donne e uomini di Chiesa, siamo in mezzo ad una storia d’amore: ognuno di noi è un anello in questa catena d’amore. E se non capiamo questo, non capiamo nulla di cosa sia la Chiesa”. (Messa, 24 aprile)

Il Papa mette in guardia dai rischi che corriamo nell’allontanarci da Cristo, quando siamo tentati di voler costruire una Chiesa a nostra misura. La strada di Gesù non è quella delle ideologie e dei moralismi che falsificano il Vangelo. E indica nella “mondanità” il pericolo più grave per la Chiesa:

“Quando la Chiesa diventa mondana, quando ha dentro sé lo spirito del mondo, quando ha quella pace che non è quella del Signore (…) la Chiesa è una Chiesa debole, una Chiesa che sarà vinta e incapace di portare proprio il Vangelo, il messaggio della Croce, lo scandalo della Croce… Non può portarlo avanti se è mondana”. (Messa, 30 aprile)

E se è mondana, la Chiesa non va avanti ma torna indietro. Questo, osserva Papa Francesco, lo si vede anche rispetto al Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII. A 50 anni di distanza, si chiede il Santo Padre, “abbiamo fatto tutto quello che ci ha detto lo Spirito Santo nel Concilio?”:

“No. Festeggiamo questo anniversario, facciamo un monumento che non dia fastidio. Non vogliamo cambiare. Di più: ci sono voci che vogliono andare indietro. Questo si chiama essere testardi, questo si chiama voler addomesticare lo Spirito Santo, questo si chiama diventare stolti e lenti di cuore”. (Messa, 16 aprile)

“Per dirlo chiaramente”, avverte Francesco, “lo Spirito Santo ci dà fastidio, perché ci muove, ci fa camminare, spinge la Chiesa ad andare avanti”. Certo, sottolinea, la Chiesa “sempre va tra la Croce e la Risurrezione, tra le persecuzioni e le consolazioni del Signore”. Ma, rassicura, “questo è il cammino, chi va per questa strada non si sbaglia”. La Chiesa, ripete tante volte il Papa, è una storia d’amore, non un’organizzazione burocratica. In definitiva, la Chiesa è madre:

“Qui ci sono tante mamme, in questa Messa. Che sentite voi se qualcuno dice: ‘Ma…lei è un’organizzatrice della sua casa’? ‘No: io sono la mamma! E la Chiesa è Madre. E noi siamo in mezzo ad una storia d’amore che va avanti con la forza dello Spirito Santo e noi, tutti insieme, siamo una famiglia nella Chiesa che è la nostra Madre”. (Messa, 24 aprile)

Radio Vaticana