lunedì 20 maggio 2013

Piero Coda: "Perchè tutti siano uno"



La fede in Cristo come fermento di unità. L'intervento di monsignor Piero Coda al convegno internazionale "La primavera della Chiesa e l'azione dello Spirito"


Di seguito il testo dell’intervento di monsignor Piero Coda, preside dell’Istituto Universitario Sophia a Loppiano – Incisa in Val d’Arno (FI), al convegno internazionale "La primavera della Chiesa e l'azione dello Spirito", svoltosi nei giorni scorsi a Roma presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.
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1. Chiesa che cosa dici di te stessa?”, e cioè qual è per grazia e ha da mostrarsi con incisività, nell’oggi della storia, la tua identità e la tua missione? in questa domanda Paolo VI riassumeva il compito cui era chiamato a dar parola il Concilio Vaticano II. Con folgorante e densa sintesi, il Concilio vi rispondi sin dall’incipit della Costituzione dogmatica sulla Chiesa, Lumen gentium: “La Chiesa è, in Cristo, come il sacramento, e cioè il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità del genere umano”.
La Chiesa sacramentum unitatis. E ciò nel contesto drammatico e sfidante della svolta epocale che l’umanità sperimenta nel tempo periglioso ma insieme – per il soffio inesausto dello Spirito di Cristo – promettente, della fine della modernità e dell’annuncio di qualcosa di nuovo e di grande. Così la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et spes:
«L’umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all’intero universo. Provocati dall’intelligenza e dall’attività creative dell’uomo, su di esso si ripercuotono, sui suoi giudizi e desideri individuali e collettivi, sul suo modo di pensare e agire sia nei confronti delle cose che degli uomini. Possiamo così parlare di una vera trasformazione sociale e culturale che ha i suoi riflessi anche nella vita religiosa» (n. 4).
Tanto che oggi più che mai vale per la Chiesa – come scrive Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte – l’invito che sempre di nuovo le viene dal suo Signore: “Duc in altum, prendi il largo” (cf. Lc 5,4; Nmi,1).
Non sorprende – anche se umanamente era del tutto inatteso – che in questo preciso contesto storico ed ecclesiale, lo Spirito Santo abbia donato alla Chiesa un carisma che essa stessa ha riconosciuto come “carisma dell’unità”. E cioè come un dono, di luce e di vita, per servire con un apporto specifico e originale – insieme a tutti gli altri, antichi e recenti –  l’identità e la missione della Chiesa di Cristo oggi quale essa appunto è: sacramentum unitatis.
Chiara Lubich così ne descrive l’imprevisto sbocciare, come di un dono e di una chiamata dall’Alto, nel 1943 a Trento:
«È la guerra. Siamo alcune giovani e io – in un ambiente buio, forse una cantina [per ripararsi dai bombardamenti]. Leggiamo al lume di candela il Testamento di Gesù, la sua preghiera per l’unità. Lo scorriamo tutto. Quelle parole difficili sembrano illuminarsi, a una a una. Abbiamo l’impressione di comprenderle. Avvertiamo, soprattutto, la certezza che quella è la “magna charta” della nostra nuova vita e di tutto ciò che sta per nascere attorno a noi.
Qualche tempo dopo, consce della difficoltà, se non della impossibilità di mettere in pratica un tale programma, ci sentiamo spinte a chiedere a Gesù la grazia d’insegnarci il modo di vivere l’unità.
Inginocchiate attorno a un altare, offriamo a lui le nostre esistenza perché con esse – se crede – egli la possa realizzare. È la festa di Cristo Re. Ci colpiscono le parole della liturgia di quel giorno: “Chiedi a me, ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra” (Sal 2,8).
Abbiamo fede e chiediamo.
Più tardi collegheremo, con gioia e meraviglia, questi episodi e la nostra aspirazione all’unità con l’enciclica che Pio XII, proprio nel 1943, anno di nascita del nostro Movimento, ha lanciato al mondo: la Mystici Corporis.
Nel nostro cuore una cosa è chiara: l’unità è ciò che Dio vuole da noi. Noi viviamo per essere uno con lui e uno fra noi e con tutti. Questa splendida vocazione ci lega al Cielo e ci immerge nella fraternità universale»[1].
2. Ma che cos’è una carisma nella vita della Chiesa, che cosa specifica oggi questo carisma per la Chiesa, qual è lo stile di educazione e di testimonianza e annuncio della fede che esso propizia?
Hans Urs von Balthasar, uno dei giganti del pensiero teologico del ventesimo secolo, nella sua Teo-logica descrive i carismi che, lungo i secoli, illustrano e dispiegano, per impulso dello Spirito, la luce di Cristo nel quale risplende al mondo la Parola di Dio che «carne si è fatta» (Gv 1,14), come sguardi saettanti «verso il centro della Rivelazione»[2].
Grazie ad essi gli occhi del cuore e della mente si fanno capaci di penetrare più a fondo, attingendovi sempre nuove e più efficaci energie di vita e progettazione storica, nell’originario e progrediente dono attraverso il quale Dio, in Cristo, comunica agli uomini la sua stessa vita che è luce per gli uomini (cf. Gv 1,4).
Chiara, come ho accennato, nel momento più oscuro del secondo conflitto mondiale, accoglie e si lascia interiormente plasmare da quel raggio di luce e di vita che presto porterà il nome di carisma dell’unità. Da subito irradiandolo attorno a sé, e così dando vita alla prima comunità dei Focolari[3].
Quest’evento assume rilevanza simbolica di portata persino universale – quale prodromo prima e poi quale conseguenza del Vaticano II – come attesta la rapida, benché sempre discreta, diffusione e dei Focolari nel mondo. Accade infatti nel momento in cui la disintegrazione dell’equilibrio spirituale, culturale e sociale su cui sino ad allora s’era retta l’umana convivenza, e che si palese nella tragedia bellica, si fa spazio sofferto, aperto e desiderante nel cuore di una giovane assetata di verità e di amore. In esso germoglia, e prende rapidamente figura, un Ideale cristiano che è schiettamente evangelico nella sua origine e nella sua intenzionalità e che, proprio per questo, è da cima a fondo universale: ut unum sint – «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi uno in noi» (Gv 17,21).
Quest’Ideale, per Chiara, nel contesto della notte oscura “epocale” e “collettiva”[4] in cui, in quegli anni, piomba l’umanità, non è un fatto solo spirituale né si cristallizza in una mera utopia. Diventa principio di una storia e di una evangelizzazione nuova: perché nasce dalla condivisione sincera della vertiginosa piaga in cui pare risucchiata, nei gorghi paurosi della guerra e dell’odio, la vicenda dell’umanità. Per capovolgerla dal fondo più fondo, calandovisi dentro per amore. Chiara, infatti, intende assumerla e attraversarla, questa piaga, nella sequela appassionata di Gesù che, nella fede del Padre e per amore dei fratelli, s’è calato non solo nella carne viva della storia ma persino nel buio dolorante dell’assenza d’ogni senso e della separazione da Dio e dai fratelli. Per riaccendervi la luce della speranza e operarvi la grazia della riconciliazione.
Nel gennaio del 1944, ella è affascinata dalla scoperta della piaga nascosta che ferisce l’anima del Cristo quando, affisso al legno della croce, fatto voce del “perché?” d’ogni creatura, lancia angosciato illancinante grido: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (cf. Mc 15,34; Mt 27,46). È la stessa piaga che, in quegli anni, calámita l’anelito di verità e giustizia di uomini e donne – penso a Dietrich Bonhoeffer ed Edith Stein, Simone Weil e Pavel Florenskij – che sperimentano in tutta la loro spietata crudezza le conseguenze rovinose di quella morte di Dio che si rovescia ineluttabilmente nell’agonia e nella morte dell’uomo.
Nella piaga e nel grido di Gesù, che in sé raccoglie le piaghe e le grida che salgono dal «rovescio della storia»[5], Chiara ritrova non solo il centro verso cui rivolgere lo sguardo, ma di più – direi – il centro da cui dischiudere uno sguardo capace di storia nuova. A qualche anno appena dalla conclusione della seconda guerra mondiale, nell’estate del 1949[6], verga una pagina in cui con limpidezza ed energia è descritto il focus di questo sguardo nuovo – eppure antico come il Vangelo – sulla realtà che è custodito dalla Chiesa:
«Ho un solo Sposo sulla terra: Gesù Abbandonato: non ho altro Dio fuori di Lui. In Lui è tutto il Paradiso con la Trinità e tutta la terra con l’umanità».

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NOTE
[1] C. Lubich, Due facce di una sola medaglia, in Id., La dottrina spirituale, Città Nuova, Roma 20092, pp. 52-65, qui p. 53. [Originalmente pubblicato in C. Lubich, L’unità e Gesù abbandonato, Città Nuova, Roma 1984, 19989, pp. 50-69.]
[2] H.U. von Balthasar, Teo-logica, vol. III: Lo Spirito della verità, tr. it., Jaca Book, Milano 1992, p. 22: «Grandi carismi come quelli di Agostino, Francesco, Ignazio possono ricevere donati dallo Spirito sguardi nel centro della rivelazione, sguardi che arricchiscono la Chiesa in modo quanto mai inaspettato e tuttavia perenne. Sono ogni volta carismi in cui intelligenza, amore e imitazione sono inseparabili. Si riconosce di qui che lo Spirito spiegatore è a un tempo divina sapienza e divino amore, e in nessun caso pura teoria, ma sempre anche prassi vivente. Un ultimo tratto è tipico per lo Spirito: egli diffonde la divina pienezza nell’infinito, ma solo sempre in modo da unificarla sempre di nuovo e di più».
[3] Cf. in proposito gli studi di B. Callebaut, Tradition, charisme et prophétie dans le mouvement international des Focolari. Analyse sociologique, Nouvelle Cité, Bruyères-le-Châtel 2010, e di L. Abignente, Memoria e presente. La spiritualità del Movimenti dei Focolari in prospettiva storica, Città Nuova, Roma 2010, di taglio storico-teologico. Significativa anche la delineazione, a più voci e sotto più profili, del contesto ecclesiale, culturale e sociale del tempo (con riferimento soprattutto alla città di Trento) in A. Leonardi (ed.), Comunione e innovazione sociale. Il contributo di Chiara Lubich, Città Nuova – Università degli Studi di Trento, Roma 2012.
[4] Giovanni Paolo II ha descritto proprio in questi termini la qualità spirituale e culturale del nostro tempo. Egli, rievocando in Spagna la figura e la dottrina di San Giovanni della Croce («dottore della Chiesa perché grande maestro della verità viva su Dio e sull’uomo»), riferendosi all’interpretazione data da quest’ultimo al grido dell’abbandono lanciato da Cristo verso il Padre sulla croce, ha detto: «La notte oscura, la prova che fa toccare il mistero del male ed esige l’apertura della fede, acquista a volte dimensioni di epoca e proporzioni collettive», ed ha ravvisato una simile notte oscura epocale e collettiva «nell’abisso di abbandono, nella tentazione del nichilismo, nell’assurdità di tante sofferenze fisiche, morali e spirituali» che piagano l’uomo contemporaneo. Per questo, ha concluso, «anche il cristiano e la stessa Chiesa possono sentirsi identificati con il Cristo di San Giovanni della Croce, al culmine del suo dolore e del suo abbandono», per dischiudere al mondo contemporaneo nella fede, nella speranza e soprattutto nell’amore, dall’interno stesso di questa notte oscura, l’alba di una nuova resurrezione (cf. Omelia, Segovia, 4 novembre 1982, n. 7). Chiara, riferendosi a questo discorso, ha utilizzato un’espressione simile, negli ultimi anni della sua vita, per descrivere la prova che si è oggi chiamati ad attraversare per riaccendere la luce della risurrezione nel carne viva della cultura contemporanea: cf. C. Lubich, Gesù abbandonato e la notte collettiva e culturale, in “Unità e Carismi”, (2007/n. 3-4), p. 6ss.
[5] La formula esprime la storia di dolore, ingiustizia e miseria di molti, a partire dalla quale, troppo spesso, è stata ed è costruita la storia di successo, progresso e ricchezza di pochi: cf. G. Gutiérrez, La forza storica dei poveri, tr. it., (Biblioteca di teologia contemporanea, 40) Queriniana, Brescia 1981, parte IV: La prospettiva dal rovescio della storia, pp. 209-287.
[6] Sul significato dell’estate del ’49 nella storia di Chiara e dei Focolari si veda, in particolare, il volume frutto dello studio della Scuola Abbà, Il Patto del’49 nell’esperienza di Chiara Lubich. Percorsi interdisciplinari, (Studi della Scuola Abbà, 1) Città Nuova, Roma 2012. Questo evento è narrato, in sintesi pregnante, da Chiara stessa nel racconto pubblicato dalla rivista “Nuova Umanità”, Paradiso ‘49 (XXX [2008/3], 177, pp. 285-296).

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3. Ecco il centro! ritrovato in quanto gratuitamente ricevuto e risolutamente assunto. Chiara, quando scrive queste parole, è reduce da un intenso periodo di luce (l’estate del 1949) in cui ha contemplato, vissuto e condiviso con le sue prime compagne e i suoi primi compagni lo splendore del disegno d’amore di Dio sull’umanità intera, rivelato in Gesù.
Ora, tornando alla vita d’ogni giorno, la luce e la vita nuova che scaturiscono dall’amore di Dio per l’uomo le vede concentrarsi in Gesù che sulla croce patisce l’abbandono identificandosi così, sino all’abisso, con ogni persona umana, in qualunque situazione possa trovarsi. È attraversando in Gesù, oggi, fianco a fianco con ogni altro, questa piaga che germoglia una storia nuova e il Vangelo si rivela e si fa fermento di unità. Non è un caso che, ad accompagnarla in questa “divina avventura”, sia un uomo di vasta e aperta cultura e di convinta e generosa azione politica, in quei decisivi anni di ricostruzione morale e civile dopo il secondo conflitto mondiale: Igino Giordani[1].
Chiara, dunque, riscopre il centro della fede in cui abitare e costruire una casa nuova. Ma non come in un rifugio di quiete o in una fortezza inespugnabile, bensì come in una tenda aperta e pellegrinante, destinata ad accogliere chiunque abbia sete di verità e fame di giustizia. La piaga di Gesù Abbandonato (questa designazione è – si direbbe – un “segno dei tempi” nuovi che s’annunciano)[2], per Chiara è la porta d’ingresso nella casa in cui tutti sono chiamati ad abitare, per sperimentare – attraversandone insieme la soglia nell’esperienza dell’amore ricevuto, riconsegnato e a larghe mani ovunque disseminato – la convivialità e la gioia di una vita riconciliata. Riacquistando speranza e ritrovando senso e direzione di vita.
Si può intuire, di qui, come il carisma dell’unità, per l’intima sua origine dallo Spirito e per l’originale figura che laicamente viene via via ad assumere nel seno della Chiesa, spalanchi il cuore e la mente a uno sguardo in cui tutti – a partire da chi, in qualunque forma, è ferito o emarginato dalla prova dura dell’esistenza o dall’impietoso procedere della storia – possono ritrovarsi, e che tutti insieme con tutti possono condividere a partire dalla tradizione d’esperienza e pensiero di cui vivono.
Nella piaga del Cristo Abbandonato è infatti ricapitolata, nella sua multiforme diversità e nella sua magnifica e drammatica vicenda, la storia degli uomini e delle civiltà. E non solo, in linea diacronica, nel suo dispiegarsi nel tempo; ma anche, in linea sincronica, nell’incontro di dialogo, scambio e sinergia cui oggi son chiamate le molteplici espressioni dell’esperienza umana. Gesù Abbandonato, per Chiara, è il volto di fronte al quale e lo spazio entro il quale ciascuno può ritrovare se stesso nella reciprocità con ogni altro. Egli è la “chiave” e il “segreto” dell’ut unum sint”. E così, in concreto, il Maestro[3] di quel dialogo a tutto campo che Paolo VI, nell’enciclica Ecclesiam suam (1964), al cuore del Concilio, propone con energia profetica alla coscienza dell’umanità come l’imperativo del tempo[4].
4. Chiara, in una parola, scopre in Gesù Abbandonato – ecco una lancinante metafora, che sembra condensare l’intuizione del carisma –
«la pupilla dell’Occhio di Dio sul mondo: un vuoto Infinito attraverso il quale Dio guarda noi: la finestra di Dio spalancata sul mondo e la finestra attraverso la quale si vede Dio».
Nella sua intuizione evangelica lo sguardo nostro, giusto e bello e produttivo, sul mondo, scaturisce dallo sguardo di Dio su di noi. Gesù Abbandonato ne è la figura e il focus. Perché si tratta di uno sguardo (ecco l’occhio) che passa attraverso il vuoto, e cioè il dono senza misura, di sé[5] (ecco la pupilla) per accogliere l’altro e rigenerarsi insieme a lui nell’amore, dono dello Spirito.
E questa – dicevo – non è un’intuizione religiosa e spirituale soltanto. È, piuttosto, il principio e la chiave teor-etica[6] – e cioè dottrinale e pratica a un tempo – di un fermento di rinnovamento culturale e di riconciliazione universale quello che così viene rinvenuto e proposto[7]. Si tratta di guardare a Dio, all’uomo, al cosmo, con gli occhi con cui li guarda Gesù: e cioè da e in quell’amore senza condizioni e senza misura, che sono “la” vita e “il” destino dell’uomo. Si dischiude così un orizzonte imprevisto e fascinoso, rispondente alla nostalgia che abita ogni autentica cultura e vigorosamente la sospinge verso l’attingimento di quella meta, faticosamente costruita e pregustata nella storia, cui tutti aneliamo e che pure è già donata “una volta per tutte” in Cristo Gesù.
«Certe cose – così non è molto ho ascoltato dire da uno studente dell’Istituto Universitario Sophia, proveniente da un Paese martoriato dalla guerra – le vedono soltanto gli occhi che hanno pianto». Sì: il paesaggio su cui apre lo sguardo la “finestra” che è Gesù Abbandonato, è quello d’una visione altra e performativa che accoglie e trasforma quanto vede e contempla nella condivisione del pianto di chi piange e del desiderio di chi cerca.
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NOTE
[1] Cf., per una rapida ma rigorosa e documentata introduzione alla sua figura, T. Sorgi, Giordani. Segno di tempi nuovi, Città Nuova, Roma 19942. Né si può dimenticare il decisivo apporto che, a partire da quegli anni, andrà dando all’incarnazione del carisma dell’unità Pasquale Foresi, anch’egli, come Giordani, considerato da Chiara co-fondatore del Movimento di Focolari.
[2] Cf., di Chiara stessa, Il grido,(Verso l’unità) Città Nuova, Roma 2000; per un approfondimento biblico, G. Rossé, Il grido di Gesù in croce. Approccio biblico, in “Sophia”, 1 (2008/0), pp. 47-60; per un approfondimento teologico, S. Tobler, Jesu Gottverlassenheit als Heilsereignis in der Spiritualität Chiara Lubichs, Walter de Gruyter, Berlin 2003, tr. it., Tutto il vangelo in quel grido. Gesù abbandonato nei testi di Chiara Lubich, (Teologia, 64) Città Nuova, Roma 2009.
[3] Cf. soprattutto il penetrante saggio di G.M. Zanghì, Gesù Abbandonato maestro di pensiero,(Universitas, 5) Città Nuova, Roma 2008.
[4] Paolo VI vi scrive, innanzi tutto che «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio» (n. 67), e questo perché, dal punto di vista teologico, «La storia della salvezza narra appunto questo lungo e vario dialogo che parte da Dio, e intesse con l'uomo varia e mirabile conversazione. È in questa conversazione di Cristo fra gli uomini che Dio lascia capire qualche cosa di Sé, il mistero della sua vita, unicissima nell'essenza, trinitaria nelle Persone; e dice finalmente come vuol essere conosciuto; Amore Egli è; e come vuole da noi essere onorato e servito: amore è il nostro comandamento supremo» (n. 72); ciò fa sì che, «Dovunque è l'uomo in cerca di comprendere se stesso e il mondo, noi possiamo comunicare con lui» (n. 101), e che «Nel dialogo si scopre come diverse sono le vie che conducono alla luce della fede, e come sia possibile farle convergere allo stesso fine. Anche se divergenti, possono diventare complementari, spingendo il nostro ragionamento fuori dei sentieri comuni e obbligandolo ad approfondire le sue ricerche, a rinnovare le sue espressioni. La dialettica di questo esercizio di pensiero e di pazienza ci farà scoprire elementi di verità anche nelle opinioni altrui, ci obbligherà ad esprimere con grande lealtà il nostro insegnamento e ci darà merito per la fatica d'averlo esposto all'altrui obiezione, all'altrui lenta assimilazione» (n. 86).
[5] Un tale “svuotarsi” richiama la kenosi (svuotamento, appunto) cui fa riferimento l’apostolo Paolo nella lettera ai Filippesi (2,7) per descrivere l’atto con cui il Figlio di Dio si è spogliato della sua uguaglianza con Dio per divenire in tutto simile agli uomini e per partecipare così ad essi, attraverso questa povertà, la sua ricchezza (cf. 2Cor 8,9).
[6] Traggo la parola dal titolo del saggio di A. Fabris, TeorEtica. Filosofia della relazione, (Filosofia) Morcelliana, Brescia 2009.
[7] Di essa dà conto, come in un seme che però già dispiega le direttrici di sviluppo della sua ricca virtualità, il volume che raccoglie alcuni dei testi più significativi di Chiara: La dottrina spirituale, (Verso l’unità – Sezione Spiritualità) Città Nuova, Roma 2006.

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5. Contempla Dio, innanzi tutto, come Colui che è tutto e solo e sempre Agápe[1]: dono e comunicazione di Sé affinché l’altro sia e possa diventare pienamente se stesso. «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi uno in noi» (Gv 17,21).
È questo, per Chiara, il significato di verità e di salvezza racchiuso nella fede in un Dio che è Padre, Figlio e Spirito Santo. Contemplare Dio come Trinità d’amore significa, infatti, non soltanto che Dio dice, a fatti: «è assolutamente bene che l’altro sia»[2], ma anche, e più ancora, che Egli vuole che l’altro diventi, in libero dono di risposta, “un altro se stesso”. Dio – scrive – è il primo che vive nei confronti dell’uomo il comandamento principe che gli ha proposto: «ama il prossimo tuo come te stesso». Perché Dio, appunto, è Amore: e amare è voler portare l’altro all’altezza di sé[3]– nella libertà e nella gioia della condivisione di tutto ciò che si è e di ciò che si ha.
Questa è la vita di unità del Dio Trinità d’amore[4] comunicata al mondo in Cristo. E con questo sguardo si può guardare agli uomini, alla storia, al cosmo, in tutto decifrando e promuovendo la grammatica e la sintassi di questo amore: l’amore umano e sociale che vive e si costruisce nel ritmo dell’amore trinitario. Amore che ama, è amato e fa uno in quella vita che è libertà e gioia: «Padre, che tutti siano uno come Io e Te siamo uno, affinché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21). L’unità via privilegiata della nuova evangelizzazione. Amore che ama anche là dove il senso è oscurato, stravolto, persino respinto, là e dove le relazioni son piagate dal conflitto, dall’indifferenza, dall’odio. Perché Dio stesso, nel Figlio fatto carne che ha condiviso la vicenda dell’uomo sino al grido dell’abbandono – vi s’è calato dentro, in tutto per riaccendere il senso e la vita.
Anche se ciò che questo provoca e chiede, spesso, lo possiamo solo credere e sperare – con fiducia e perseveranza – senza ancora vederlo in atto e senza intuire il come e il quando del suo dispiegarsi. Scrive Chiara:
«Ho sentito che sono stata creata in dono a chi mi sta vicino e chi mi sta vicino è stato creato da Dio in dono per me. Come il Padre della Trinità è tutto per il Figlio ed il Figlio è tutto per il Padre. Sulla terra tutto è in rapporto di amore con tutto: ogni cosa con ogni cosa. Bisogna esser l’Amore per trovar il filo d’oro fra gli esseri».
6. È questa la radice dell’umanesimo cristiano, l’umanesimo dell’ut unum sint, chiamato a fermentare la storia tutta degli uomini. Si tratta di risvegliare e portare a efficacia di esperienza e di prassi la logica del dono che abita la nostra coscienza e illumina la nostra mente di discepoli di Gesù. Quella logica che ci fa uomini e donne responsabili gli uni degli altri nel concreto della vita sociale, culturale, economica, politica. Sempre guardando al “chi è” di ogni persona nella sua straordinaria dignità e nel suo straordinario destino. Come scrive Benedetto XVI nella Caritas in veritate:
«La carità nella verità pone l’uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono. (...) L’essere umano è fatto per il dono, che ne esprime ed attua la dimensione di trascendenza. (...) La carità nella verità è una forza che costituisce la comunità, unifica gli uomini secondo modalità in cui non ci sono barriere né confini. La comunità degli uomini può essere costituita da noi stessi, ma non potrà mai con le sole sue forze essere una comunità pienamente fraterna né essere spinta oltre ogni confine, ossia diventare una comunità veramente universale: l'unità del genere umano, una comunione fraterna oltre ogni divisione, nasce dalla con-vocazione della parola di Dio-Amore» (n. 34).
Nello sguardo di Gesù, è questo l’umanesimo del «come in cielo così in terra», ch’egli invita a invocare con fiducia e a perseguire con determinazione nella preghiera del “Padre nostro” (cf. Mt 6,10). Umanesimo ingaggiato, nello stupore del dono così ricevuto, a edificare nelle opere e nei giorni dell’uomo non solo il “castello interiore” che custodisce e contempla la presenza di Dio nel cuore del singolo, ma insieme il “castello esteriore”[5] in cui l’“amore vero e il vero amore” viene ad abitare non soltanto in ciascuno di noi, ma anche tra noi: uomini e donne che credono nella grandezza del comune destino disvelato al mondo in Cristo. Come insegna la Gaudium et spes:
«Iddio, che ha cura paterna di tutti, ha voluto che tutti gli uomini formassero una sola famiglia e si trattassero tra loro come fratelli. Tutti, infatti, creati ad immagine di Dio “che da un solo uomo ha prodotto l'intero genere umano affinché popolasse tutta la terra” (At 17,26), sono chiamati al medesimo fine, che è Dio stesso. (...) È evidente che ciò è di grande importanza per degli uomini sempre più dipendenti gli uni dagli altri e per un mondo che va sempre più verso l'unificazione. Anzi, il Signore Gesù, quando prega il Padre perché “tutti siano una cosa sola, come io e tu siamo una cosa sola” (Gv 17,21), aprendoci prospettive inaccessibili alla ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra l’unione delle Persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nell’amore. Questa similitudine manifesta che l’uomo, il quale in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso, non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé» (n. 24).
Qui – sottolinea Giovanni Paolo II – è il cuore dell’antropologia cristiana:
«Dio uno e trino, che in se stesso “esiste” come trascendente realtà di dono interpersonale, comunicandosi nello Spirito Santo come dono all'uomo, trasforma il mondo umano dal di dentro, dall'interno dei cuori e delle coscienze. Su questa via il mondo, reso partecipe del dono divino, diventa - come insegna il Concilio – “sempre più umano, sempre più profondamente umano”, mentre in esso matura, mediante i cuori e le coscienze degli uomini, il Regno in cui Dio sarà definitivamente “tutto in tutti”: come dono e amore. Dono e amore: è questa l'eterna potenza dell'aprirsi di Dio uno e trino all'uomo e al mondo, nello Spirito Santo» (Dominum et vivificantem, n. 59).
Certo, tale fede s’incarna qui ed ora nella realtà penultima e provvisoria del nostro cammino sempre tentativo e arrischiato. Un cammino che però è accompagnato e sostenuto dalla presenza dell’amore del Padre ed è destinato, in Gesù che ha vinto il peccato e la morte “una volta per tutte”, a sfociare in «cieli nuovi e terra nuova».
Un cammino che a tutti, in ogni caso, chiede non tanto e non solo di gestire ciò che siamo e viviamo e operiamo: ma di gestarlo insieme, e cioè, per così dire, di partorire in reciprocità d’intenti e azioni, passo dopo passo, incontro dopo incontro, progetto dopo progetto, la crescita di ciascuno e di tutti verso la statura matura e perfetta dell’Uomo compiuto (cf. Ef 4,13).
Questo, del resto, è lo stile ed è l’opera di Maria: che ha dato le sue carni e la sua vita al seme di una nuova umanità. E con ciò risplende ai nostri occhi come la Madre della Chiesa e la Madre dell’unità.

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NOTE
[1] Cf. M. Cerini, Dio Amore. Nell’esperienza e nel pensiero di Chiara Lubich, (I Prismi) Città Nuova, Roma 1995.
[2] Così si esprime H.U. von Balthasar nella sua Teo-drammatica, V, tr. it., Jaca Book, Milano 1996, p. 70.
[3] «Tutto ciò che Dio fa – spiega Chiara nel ’49 - è opera perfetta, perfetta come Dio, perciò trinitaria, che significa: Amorosa, cioè: portare il fratello, l’altro all’altezza di sé comunicando sé all’altro», e commenta: «L’amore, infatti, non può essere che trinitario».
[4] Per un’illustrazione della visione trinitaria di Chiara nel suo radicamento nella tradizione dogmatica e teologica e nella scia di luce tracciata dai grandi carismi, mi permetto rinviare al percorso tracciato nel breve saggio L’esperienza e l’intelligenza della fede in Dio Trinità. Da Sant'Agostino a Chiara Lubich, in “Nuova Umanità”, XXVIII (2006/5), 167, pp. 527-552, sviluppato in Dio che dice Amore. Lezioni di teologia, Città Nuova, Roma 2007 e Dalla Trinità. L'avvento di Dio tra storia e profezia, (Per-corsi di Sophia, 1) Città Nuova, Roma 2011, e più di recente ripreso, sotto il profilo socio-culturale, in Se l’uno è anche il suo altro, in P. Coda – M. Donà, La Trinità e il destino d’Europa, Città Nuova, Roma 2013. Di particolare luce, in proposito, l’opera di K. Hemmerle (che dall’inizio ha partecipato alla Scuola Abbà): dalle Tesi di ontologia trinitaria. Per un rinnovamento della filosofia cristiana, tr. it., Città Nuova, Roma 1986, sino all’ultimo suo libro, pubblicato postumo, Partire dall’unità. La Trinità come stile di vita e forma di pensiero,Città Nuova, Roma 1998, e il volume di G.M. Zanghì, Dio che è Amore. Trinità e vita in Cristo, Città Nuova, Roma 1991. Degno d’attenzione il fatto che la grande enciclica sociale di Benedetto XVI, Caritas in veritate (2009), pubblicata a commemorazione della Populorum progressio di Paolo VI, indichi nel mistero del Dio trinitario il focus, in ottica cristiana, di quel «nuovo slancio del pensiero» oggi necessario per affrontare la crisi del mondo contemporaneo dischiudendo un orizzonte spendibile di trasformazione (cf. nn. 54-55).
[5] L’espressione è di Chiara stessa e già ricorre nei suoi scritti del 1949. Richiama il simbolo del “castello interiore” creato da Teresa d’Avila per designare la mistica tesa ad accogliere nell’interiorità dell’anima – vista appunto come un “castello interiore” – la presenza di Dio Trinità promessa da Gesù (cf. Gv 14,23). Con il simbolo del “castello esteriore” Chiara intende esprimere l’originalità della mistica propiziata dal carisma dell’unità: dove Dio Trinità non viene ad abitare solo nell’anima di ciascuno, ma tra coloro che – anche qui secondo la promessa di Gesù – sono uniti nel suo Nome (cf. Mt 18,20) nella comunicazione piena, spiega Chiara, di Dio in sé a Dio nel fratello. Il che ha – come evidente – rilevanti implicazioni a livello culturale e sociale. Cf., su questo tema, la densa sintesi di G.M. Zanghì, Il castello esteriore, in “Nuova Umanità”, XXVI (2004/3-4), 153-154, pp. 371-376; e i saggi di J. Castellano Cervera, Il castello esteriore. Il “nuovo” nella spiritualità di Chiara Lubich, a cura di F. Ciardi, (Carismi, 2) Città Nuova, Roma 2011.