domenica 19 maggio 2013

Rendere ragione della speranza


Nella sua I lettera l’apostolo Pietro invita i cristiani ad essere “pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi”. Vangelo significa appunto “buona novella”, annuncio, da portare a tutte le genti. Un cristiano non può fare altrimenti. Ma cosa vuole dire evangelizzare, o, con un’altra espressione, essere missionari?
Evangelizzare è ben altro dal “fare propaganda”. Le ideologie moderne si fondano e si diffondono per via propagandistica: far conoscere il più possibile una ricetta di salvezza e trovare persone che per essa lottino, nell’agone politico, l’unico in cui un messaggio esclusivamente terreno abbia un significato. L’obiettivo, il fine, è il potere, la vittoria, qui, su questa terra.
Essere missionari, invece, è tutt’altra cosa: il fine è annunciare che Cristo si è incarnato per noi; per noi è morto, ed è risorto. Questo annuncio deve cambiare i cuori, ogni singolo cuore, ogni anima, e così, la società intera.
Ma qual è il metodo? Esiste un metodo per evangelizzare? Per la propaganda politica esistono metodi e strategie… Di solito vi è una dottrina, una visione del mondo; vi sono avversari, nemici da sconfiggere; infine, tutti i mezzi per farlo sono sperimentabili e leciti e vanno valutati solo in base alla loro efficacia concreta.
Per l’evangelizzazione è ben diverso: la dottrina si apprende attraverso l’esperienza dell’incontro personale e sacramentale con Cristo e la Chiesa; il metodo, invece, è quasi obbligato, ed in estrema sintesi, può essere così riassunto: odia il peccato ed ama i peccatori (compresi i tuoi nemici). Odiare il peccato, infatti, significa anzitutto combattere una battaglia dentro se stessi; significa divenire conoscitori del proprio animo, e dell’animo umano in generale. Chi si confronta con sé stesso e cerca di crescere nella virtù e nel bene, sa riconoscersi misero e peccatore, bisognoso di perdono, imperfetto… Con questo sguardo sulla propria miseria, si può poi guardare agli altri, con più comprensione e con più misericordia. L’odio per il proprio peccato diventa così non solo motivo di crescita personale, ma capacità di amare, come amiamo noi stessi, anche il prossimo. Prossimo significa “colui che mi è vicino”, ed è una parola tipicamente evangelica. Mentre infatti le ideologie vogliono salvare genericamente l’Umanità, la Società, il cristiano deve salvare se stesso, il proprio vicino, chi gli è accanto. Ed è cosa terribilmente concreta e vera; ben poco astratta e teorica. Il prossimo, infatti, è peccatore, come me: tante volte è ingrato e irriconoscente, odia persino chi lo ha beneficato; è antipatico, bugiardo, iroso, malizioso… Quante volte il peccato, che sopportiamo in noi stessi, non lo sopportiamo negli altri! Il fatto è che meno vediamo il nostro, più scorgiamo e bolliamo quello di chi ci sta vicino. E viceversa.
Per questo il metodo che  fa del cristiano un buon missionario prevede, oltre all’odio del peccato, la volontà di amare il peccatore. Certo, non è facile, anzi! Come faccio ad amare chi mi insulta, chi mi odia, chi fa del male? Cristo ha fatto questo: ha amato la prostituta, ha amato Zaccheo, ha perdonato ai suoi persecutori… In questo modo ha conquistato le anime più lontane, i peccatori più incalliti, compreso uno dei due ladroni sulla croce.
Prosegue così, san Pietro, dopo aver invitato i credenti a rendere ragione della speranza cristiana: “Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto” [1Pt 3, 14-15]. Questo proprio perché il prossimo non è solo un potenziale elettore, non è un voto in più o in meno: è un’anima immortale, una storia, un intreccio misterioso di bene e di male di fronte a cui Dio stesso si offre disarmato ed amorevole.  Quanto più gli altri sono lontani, tanto più l’amore per il peccatore deve divenire sensibilità, disponibilità, pazienza. Sempre san Pietro  aggiunge: “Carissimi…la vostra condotta tra i pagani sia irreprensibile, perché mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere giungano a glorificare Dio nel giorno del giudizio”. Così si dovrebbe comportare il cristiano, missionario nel mondo secolarizzato di ieri o di oggi, in Europa o tra una tribù di cannibali. Tutt’altro che intollerante, assolutista, fanatico; portatore di Verità ricevuta, nell’amore, con umiltà e l’esempio.
Si pensi a san Francesco, missionario tra i musulmani, cioè tra i seguaci di una religione che si è diffusa con le armi: parte verso di loro, per portare Cristo. In che modo? Scrive Francesco ai frati: “Un modo è che i frati non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani”. Anzitutto, cioè, chiede non la predicazione, ma l’esempio. Poi aggiunge: “quando i frati vedranno che piace al Signore (al Signore, non alla loro fretta, al loro orgoglio o vanità…ndr), annunzino la parola di Dio perché credano in Dio onnipotente Padre, e Figlio e Spirito Santo…”. L’annuncio, la buona novella è doveroso, ma segue ad una vita concreta, e sa cogliere il momento e il modo opportuni, con “la dolcezza e il rispetto” che si devono a creature, gli uomini, capaci di Dio.
Agnoli
Il Foglio