Pio XII secondo lo storico canadese Robert Ventresca. Tra gli studiosi la leggenda nera è in via di superamento
(Andrea Galli) Il dibattito sulla figura di Pio XII è vivo non solo da noi ma anche oltre Atlantico. Lo dimostra una biografia poderosa scritta da uno storico canadese, Robert Ventresca, docente al King’s College, università dell’Ontario occidentale, e appena pubblicata da una delle più prestigiose case editrici accademiche, la Harvard University Press, con il titolo di Soldier of Christ. The Life of Pope Pius XII (“Soldato di Cristo. La vita di Papa Pio XII”).
Ho incontrato Pio XII durante le ricerche per il dottorato, che poi è
diventato il mio primo libro sulla transizione italiana dal fascismo alla
repubblica. Però l’idea di scrivere una biografia è maturata per un misto di
curiosità e frustrazione. Curiosità per l’interesse speciale che questa figura
suscita sia tra gli studiosi che nel grande pubblico. Frustrazione perché
dell’uomo Pacelli, della sua formazione, visione del mondo, vocazione, del suo
ministero come sacerdote prima e come diplomatico poi, si sa troppo poco.
Quali sono i documenti che l’hanno colpita nella sua ricerca?
Tra i tanti, la corrispondenza tra Pacelli come segretario di Stato e i
rappresentanti del regime hitleriano nella seconda metà degli anni Trenta.
Colpiscono soprattutto la forza e la chiarezza con cui Pacelli criticava il
Governo tedesco, tramite canali diplomatici privati, per le varie e ripetute
violazioni del concordato del 1933. Pacelli aveva capito fin troppo bene
quant’era difficile trattare con Hitler e quanto si dovesse lottare per
tutelare interessi spirituali e materiali della Chiesa. Non voleva uno scontro
frontale, che poteva portare la Santa Sede verso una rottura dei rapporti
diplomatici con la Germania. Aveva timore delle sue ricadute. Dalle fonti
emerge anche la sua tenacia, nella convinzione che trattare quasi a ogni costo
fosse il male minore.
In questa visione c’era una divergenza tra lui e Pio XI?
C’era una dialettica. Penso a uno scambio di opinioni tra lui e Pio XI
intorno al 1937-1938, in seguito all’enciclica Mit Brennender Sorge, con
Papa Ratti che in sostanza si chiedeva se non fosse scandaloso che la Santa Sede
avesse rapporti con regimi come quello hitleriano o mussoliniano e Pacelli che
faceva presente quello che sarebbe successo in caso di rottura. Ma in fondo
entrambi condividevano un atteggiamento di prudenza e di realismo.
Quanto Pacelli, una volta diventato Pio XII, fu colpito da ciò che
accadde ai vescovi olandesi, quando la loro lettera pastorale del luglio 1942
sulla deportazione degli ebrei provocò una durissima rappresaglia nazista?
Sicuramente molto, ma non solo dal caso olandese. Ricordo uno scambio
piuttosto lungo e dettagliato con il vescovo di Berlino, von Preysing, in cui
Pacelli citò vari episodi di rappresaglie dei tedeschi, per dire che non sempre
il parlare apertamente poteva essere la scelta giusta.
Qual è la differenza tra Italia/Europa e il mondo nord americano nella
percezione della figura di Pio XII?
A livello di opinione pubblica, sia negli Usa che in Canada la figura di Pio
XII è collegata ai vecchi dibattiti sul cosiddetto "silenzio" di
fronte alla Shoah. Con una visione manichea: il "Papa di Hitler"
oppure un Papa meritevole di essere annoverato tra i Giusti delle nazioni. Tra
gli studiosi direi che l’approccio polemico e partigiano è in via di
superamento. Prevale però ancora la tendenza a giudicare il pontificato esclusivamente
in riferimento alla seconda guerra mondiale.
In quante strumentalizzazioni della figura di Pacelli si è imbattuto nei
suoi studi?
Tante e di ogni tipo, da destra e da sinistra. Nel libro cerco di dimostrare
che nacquero già all’interno della Chiesa, in base a diverse visioni del
papato. Penso all’idea di un Pacelli antitetico al Vaticano II, che è falso,
essendo stato il suo magistero uno dei pilastri su cui si è sviluppato il
concilio. Oppure l’idea di Pacelli "aristocratico", schivo, che non si
faceva vedere... Si faceva vedere fin troppo per i tempi e ha parlato ed è
intervenuto su una enormità di temi.
C’è qualcosa che l’ha affascinata in Pacelli?
Il suo essere stato timoniere della Chiesa, con abilità ed equilibrio, in
mezzo ai marosi della seconda guerra mondiale prima e della guerra fredda poi.
Con una grande capacità di calibrare la sua azione di Pontefice, sia che si
rivolgesse alla Chiesa dell’Europa dell’est o a quella negli Usa. È apparso a
tanti fedeli come una figura forte, rassicurante soprattutto in momenti
drammatici e pericolosi. Aveva la coscienza di essere a capo di una Chiesa
universale. Poi il suo tratto umano, che non corrisponde allo stereotipo di una
figura quasi timorosa del mondo. Al contrario era fiducioso, ottimista, come se
avesse la consapevolezza che la Chiesa aveva una risposta da dare alle istanze
del mondo moderno. Fu tra l’altro il primo a capire l’importanza dei mass
media.
È emerso qualcosa su un suo supposto antigiudaismo?
Dai documenti non risulta nulla per giustificare lo stereotipo di Pacelli
come antisemita. In generale si può dire che non vedeva la questione degli
ebrei come una priorità della Chiesa. In questo senso era figlio dell’epoca
sua, ma non certo antisemita. Per quanto riguarda il suo "silenzio" sulla
deportazione degli ebrei, oggi possiamo dire che prevalse la scelta della via
media della diplomazia. È vero che in Germania e in Polonia c’erano vescovi che
avrebbero voluto un atteggiamento meno diplomatico, ma il tutto va sempre
inquadrato nella ricerca del male minore a cui ho accennato.
L'Osservatore Romano, 11 maggio 2013.