giovedì 27 giugno 2013

Love is love. Parola di presidente.


Il presidente americano Barack Obama ha celebrato la decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti, che ha bocciato la legge federale che definisce matrimonio solo quello fra un uomo e una donna, con una battuta che sentiremo ripetere molte volte: «Love is love», «l'amore è amore». È proprio così? Filosofi e sociologi s'interrogano sul tema da secoli. Una sociologa israeliana, Eva Illouz, ne ha tratto il libro di sociologia forse più venduto nella storia, «Perché l'amore fa soffrire», ora tradotto in italiano dal Mulino.
Nel 2005 Papa Benedetto XVI ci ha offerto un autentico trattato sul tema con la sua enciclica «Deus Caritas est». Prima di chiederci se l'ordinamento giuridico debba offrire un riconoscimento, come pensa Obama, all'«amore» occorre riflettere su che cos'è l'amore. La questione sembra ovvia, ma non lo è. Riassumendo un dibattito assai più complesso, possiamo dire che la parola «amore» è usata con riferimento a tre fenomeni psicologici e sociali che non coincidono fra loro: l'attrazione e l'intesa sessuale (venus), l'attrazione e l'intesa sentimentale (eros), e l'alleanza che permane nel tempo e porta a un progetto di vita comune che chi si ama pensa possa durare per sempre (sacramentum). Come lo stesso Benedetto XVI ci ha insegnato - sulla scia del grande Magistero sul tema del beato Giovanni Paolo II (1920-2005) - l'amore coniugale cristiano si situa precisamente alla confluenza ordinata dei tre elementi: venus, eros e sacramentum.
Il nostro tempo chiama «amore» anche l'attrazione sessuale o l'attrazione sentimentale da sole, ma l'uso della parola è improprio: senza un progetto permanente di vita comune non si tratta propriamente di amore ma solo di un'infatuazione o di un desiderio effimero. È evidente che l'ordinamento giuridico non può concedere riconoscimenti istituzionali alla semplice attrazione sessuale o sentimentale, ma solo a un progetto di vita insieme,  che non nega gli elementi della sessualità e dei sentimenti ma li integra in un insieme organizzato e strutturato. Precisato questo punto preliminare - ma non secondario -, la domanda che il presidente Obama pone retoricamente, perché pensa che la risposta sia ovvia, è se ogni amore che aspira a un progetto di vita comune sia sullo stesso piano e meriti lo stesso riconoscimento giuridico. Alla mentalità di cui Obama si fa portatore la risposta appare inequivocabilmente positiva: «l'amore è amore».
Se però ci fermiamo a riflettere, ci accorgiamo che non è affatto così. Per Obama sembra che il criterio sia la «sincerità» dell'amore, ma questo è un elemento che lo Stato non ha strumenti per accertare. Se qualcuno afferma di aspirare a un progetto permanente di vita comune fondato su una comunione sessuale e sentimentale, ma non limitato a questa, lo Stato non può rispondergli semplicemente che mente: come fa a saperlo? Nello stesso tempo, è evidente che lo Stato non offre il suo riconoscimento a tutte le forme di amore. Non ha modo di sapere se l'amore di un uomo per una donna sposata e non divorziata non comprenda un serissimo progetto di vita comune permanente. Ma non permette a quel l'uomo di sposare una donna ancora legata da un matrimonio, anzi ne punisce l'eventuale tentativo di nozze come bigamia. Così, lo Stato - che non conosce le intenzioni e gli stati d'animo - non può sapere se un uomo felicemente sposato con una donna non ha davvero nello stesso tempo stabilito una profonda comunione di sentimenti e di sensi anche con un'altra, e non ha elaborato un serio progetto di unione con questa seconda donna nella poligamia, magari radicato in una fede religiosa come quella islamica che ammette il matrimonio poligamico. Né lo Stato ha modo di accertare che quel fratello e quella sorella che in Germania lottano nei tribunali per sposarsi tra loro contro il divieto dell'incesto non abbiano, oltre a una forte attrazione sessuale e sentimentale, anche i più seri progetti per un futuro insieme.
Però nel caso della bigamia, della poligamia e dell'incesto lo Stato non concede il suo riconoscimento istituzionale a quello che pure le parti gli presentano come «amore». Attenzione: in questi casi lo Stato non risponde alle parti che il loro «amore» non esiste. Un filosofo o un teologo potrebbero forse arrivare, negli esempi che ho proposto, a questa conclusione. Ma lo Stato non procede così. Semplicemente, risponde che - «amore» o no - riconoscere tali progetti di unione comprometterebbe il bene comune della società nel suo insieme. Basta questo a concludere che Obama ha torto. Non è vero che «l'amore è amore», se s'intende con questo che dalla presenza di un «amore» discende il diritto a un riconoscimento giuridico. Se fosse così, anche la bigamia, la poligamia e l'incesto avrebbero diritto a essere riconosciute, a meno che lo Stato possa escludere - ma non può - che in questi casi sia presente un «amore». Non ogni amore ha diritto al riconoscimento giuridico. Né ha un diritto al matrimonio, così che quello francese del «matrimonio per tutti» è solo un slogan. Se il matrimonio è «per tutti», perché non per i poligamisti?
È dunque evidente che l'«amore» non è sufficiente per creare un diritto al matrimonio, o un dovere dello Stato di riconoscere un matrimonio. Il matrimonio non è un timbro dello Stato che viene a certificare il carattere sincero e genuino di un «amore». Nei codici civili i riferimenti agli elementi affettivi, difficilmente accertabili, sono cauti o inesistenti. Il matrimonio - il cui nome stesso fa riferimento alla maternità - è il quadro giuridico che riconosce e organizza le relazioni fra un uomo e una donna nella successione delle generazioni e nella costruzione di una famiglia. Quando la Chiesa parla di famiglia «naturale» non intende offendere nessuno, ma solo affermare che questa nozione di famiglia, giuridicamente rilevante, riposa su un dato di natura, la differenza sessuale fra uomo e donna - che è davvero naturale, non culturale come pensa l'ideologia del gender -, e la capacità della sola unione fra uomo e donna di essere feconda.
Il riferimento alla natura risponde anche alla vetusta obiezione secondo cui i cattolici potranno sì limitare i loro matrimoni a quelli fra un uomo e una donna, ma non potranno imporre questa limitazione ai non cattolici. Infatti qui si tratta di elementi naturali che la ragione di ciascuno può riconoscere, non di fede. Argomentando diversamente, qualcuno potrebbe affermare che i cattolici sono liberi di non praticare la poligamia e l'incesto ma non possono imporre ai non cattolici di non praticarli. Se «l'amore è amore» - nel senso in cui chi auspica il riconoscimento delle unioni omosessuali in tutto il mondo sta interpretando lo slogan di Obama - allora occorre essere coerenti e apprestarsi a legalizzare anche la poligamia, l'incesto e ogni altra forma di unione presentata da chi vi è coinvolto come frutto di «amore». E in effetti c'è già chi si muove in questa direzione. Le persone di buon senso, dal canto loro, vedono che mettendosi per questa strada si distruggono la famiglia e la società. Ma per evitare le conseguenze c'è un solo modo: negare la premessa. Convincersi che non è vero che l'amore, purché sia «sincero», ha diritto al riconoscimento istituzionale dello Stato. «L'amore è amore»? Fino a un certo punto.
Introvigne

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businness
Altro che «love is love», come dice Barack Obama. La decisione della Suprema Corte americana, che come sappiamo ha bocciato il clintoniano Doma – acronimo che sta per Defense of Marriage Act [1] –, a pensarci bene fa venire in mente uno slogan ben diverso: «Money is money». Senza voler minimamente discutere i sentimenti delle persone omosessuali – alle quali va, anzi, assicurato il massimo rispetto -, sarebbe infatti ingenuo sottrarsi aprioristicamente al dubbio che, se certamente non a determinarla, quanto meno a concorrere alla storica (e risicatissima: 5 voti contro 4) svolta dei giudici possa esservi stata anche una dimensione, per così dire, più concreta e meno ideale.
Del resto, non diciamo nulla di nuovo dato che da tempo l’omosessualità è ritenuta un «middle-class phenomenon» [2] in grado di mobilitare ingenti risorse anche economiche [3], e che proprio alla Suprema Corte, quest’anno, è giunto un documento a suffragio dell’incostituzionalità del citato Doma sottoscritto – combinazione – da ben 278 grandi aziende fra le quali, per brevità, ricordiamo soltanto le più note: Amazon, Apple, Facebook, Twitter, Moody’s Morgan Stanley, Goldman Sachs e Starbucks [4]. Ora, che si tratti di 278 realtà – incluse potenti banche – mosse tutte e solo da interessi filantropici? Non si direbbe dato che è stato proprio Lloyd Blankfein, ceo di Goldman Sachs, a chiarire che «è una questione di diritti civili, ma anche di business» [5].
A conferma della fondatezza di questa dichiarazione si può ricordare l’elenco dei potenti sostenitori – fra imprenditori, manager e banchieri – delle nozze gay coi rispettivi quantitativi versati o raccolti in questi anni per la causa: Cliff Asness (1,5 milioni di dollari), Jeff Bezos (2,5 milioni di dollari), Bill e Melinda Gates (500 mila dollari), Daniel Loeb (1,5 milioni di dollari), Jon Stryker (1,85 milioni di dollari), solo per citarne alcuni [6]. La domanda a questo punto potrebbe essere: come mai tanti pezzi da novanta si prodigano per le nozze gay? Cosa c’è davvero sotto? Di che «business» si tratta? E, soprattutto, di quali dimensioni?
Ora, in ovvia mancanza di dati che possano fornirci un quadro più preciso,  per ora non possiamo che ragionare in termini di stime. Ebbene, se circa dieci anni fa il CBO – acronimo che sta per Congressional Budget Office – al pari di altre valutazioni [7], stimava l’indotto delle nozze gay, una volta che queste saranno effettive in tutti e 50 Stati Usa, di un miliardo di dollari l’anno [8], secondo un più recente contributo di Forbes del 2009, l’indotto complessivo sarebbe decisamente più sostanzioso: circa 9,5 miliardi di dollari [9]. Una somma che, benché alta, non pare esagerata – solo a New York, dopo un anno, le nozze gay hanno generato guadagni per 259 milioni di dollari [10] – e che spiega fin troppo bene l’interesse di Moody’s, Morgan Stanley e Goldman Sachs per l’abolizione del Doma.
Ma al di là del dato economico, qui richiamato solo in sintesi rispetto alla sua ben più articolata realtà, non possiamo che concludere riflettendo su un aspetto curioso, vale a dire la convergenza di interessi, quando si parla dei diritti delle “nuove famiglie”, fra i colossi della finanza e dell’industria e le forze politiche socialiste, fieramente di sinistra o cosiddette antisistema, due mondi divisi su molto eccetto che sull’anticattolicesimo, l’«ultimo pregiudizio accettabile» [11]. Forse che la lotta contro la famiglia tradizionale e, di conseguenza, contro il diritto naturale, la ragione e la Chiesa sia il vero obbiettivo di certe battaglie? E’ un sospetto forse indimostrabile certo, ma che viene. E proprio non se ne va.
Note: [1] Cfr. Defense of Marriage Act, «Public Law» 104-199, 1996; [2] Cfr. Niada M. A Londra il business gay vale 100 miliardi di euro, «Il Sole 24 Ore», n. 160, 13/6/2006, p. 8; [3] Cfr. Zald M. – McCarthy J. (1977) Resource Mobilization and Social Movements: A Partial Theory. «American Journal of Sociology»; 82(6): 1212-1241; [4] Cfr. AA.VV. Brief of 278 employers and organizations representing employers as amici curiae in support of respondent edith schlain windsor (merits brief). 27/2/2013; «The Supreme Court of the United States» – No. 12-307:1-95; [5] Blankfein L. cit. in Ford Z. Goldman Sachs CEO: Marriage Equality Is Good For Business. «thinkprogress.org», 11/3/2013; [6] Cfr. Biles A. The Top 23 Gay Marriage Supporters in Business Today. «bezinga.com», 26/3/2013; [7] Cfr. Guaracino J. Gay and Lesbian TourismThe Essential Guide for Marketing. Elsevier Ltd., Jordan Hill, Oxford 2007, p. 43; [8] Cfr. Holtz-Eakin D. (2004) The Potential Budgetary Impact of Recognizing Same-Sex Marriages. «The Congressional Budget Office»; 1-10: 1; [9] Cfr. Marcus M.The $9.5 Billion Gay Marriage Windfall. «Forbes.com», 16/6/2009; [10] Cfr. Goldman H. Gay Marriage Produced $259 Million for New York City Economy. «bloomberg.com», 24/7/2012; [11] Jenkins P. The New Anti-Catholicism. The Last Acceptable Prejudice, Oxford University Press, New York 2003.
(G. Guzzo)