mercoledì 31 luglio 2013

Per una Chiesa vicina



Giovedì 25 luglio, durante il viaggio a Rio de Janeiro, il Papa ha rilasciato in spagnolo a Gerson Camarotti, di GloboNews, una lunga intervista, andata in onda domenica 28 nel corso del programma «Fantástico» dell’emittente brasiliana Rede Globo. Diamo qui di seguito quasi per intero, in una nostra traduzione italiana, il testo dell’intervista, pubblicata integralmente in portoghese sul sito dell’emittente e in italiano su quello del nostro giornale
*** 
Papa Francesco, lei è arrivato in Brasile ed è stato accolto con molto calore dai brasiliani. C’è una rivalità storica tra Brasile e Argentina, per lo meno nel calcio. Come mai ha ricevuto questo gesto d’affetto dai brasiliani?
Mi sono sentito accolto con un affetto che non conoscevo, molto calorosamente. Il popolo brasiliano ha un grande cuore. E la rivalità credo che ormai sia completamente superata. Perché abbiamo negoziato bene: il Papa è argentino e Dio è brasiliano.
È una grande soluzione, non è vero Santo Padre?
Mi sono sentito molto ben accolto, con grande affetto.

Santo Padre, in Brasile lei ha utilizzato un’automobile molto semplice. Si dice che lei ha persino rimproverato i sacerdoti che usano macchine di lusso nel mondo. Ha anche deciso di risiedere nella casa Santa Marta. Questa sua semplicità è una nuova indicazione che i sacerdoti, i vescovi e i cardinali devono seguire?
Sono cose diverse, bisogna distinguere e spiegare. L’automobile che uso qui è molto simile a quella che uso a Roma. A Roma uso una Ford Focus blu. Un’automobile semplice, che potrebbe avere un impiegato normale. Su questo punto, penso che dobbiamo dare testimonianza di una certa semplicità, direi addirittura di povertà. Il nostro popolo esige povertà dai sacerdoti. Lo esige nel senso buono del termine. Il popolo sente il suo cuore ferito quando noi che siamo consacrati siamo attaccati al denaro. È una cosa brutta. E veramente non è un buon esempio che un sacerdote abbia un’automobile ultimo modello, di marca. Lo dico ai parroci. A Buenos Aires lo dicevo sempre: è necessario che il parroco abbia una macchina, è necessario, perché nella parrocchia ci sono mille cose da fare, deve muoversi. Ma deve essere una macchina modesta. Questo per quanto riguarda l’automobile. Quanto alla decisione di vivere a Santa Marta, non è stato tanto per motivi di semplicità. Perché l’appartamento papale è grande, ma non è lussuoso. È bello, ma non ha il lusso della biblioteca del piano sottostante, dove si riceve la gente, con opere d’arte molto belle. È piuttosto semplice. Ma la mia scelta di vivere a Santa Marta è dipesa dal mio modo di essere. Non posso vivere solo. Non posso vivere chiuso. Ho bisogno del contatto con la gente. Allora, sono solito spiegarlo così: sono rimasto a Santa Marta per motivi psichiatrici, per non dover soffrire quella solitudine che non mi fa bene. E anche per motivi di povertà, perché altrimenti avrei dovuto dare al psichiatra tanti soldi... E questo non va bene. È per stare con la gente. Santa Marta è una casa dove vivono circa quaranta tra vescovi e sacerdoti che lavorano nella Santa Sede. Ha centotrenta stanze, più o meno, e sacerdoti, vescovi, cardinali e laici, ospiti a Roma, risiedono lì.. Io mangio nel refettorio comune. Vi faccio colazione, pranzo e cena. Incontro sempre persone diverse, e questo mi fa bene. È questa la ragione. E ora la regola generale. Credo che Dio ci stia chiedendo, in questo momento, più semplicità. È una cosa interiore, che chiede alla Chiesa. Il concilio già aveva richiamato l’attenzione su ciò. Una vita più semplice, più povera.
Santo Padre, quando è arrivato a Rio de Janeiro sono stati commessi degli errori nel sistema di sicurezza. La sua automobile si è ritrovata in mezzo alla folla. Ha avuto paura? Qual è stato il suo sentimento in quel momento?
Io non ho paura. Sono incosciente, ma non ho paura. So che nessuno muore prima che venga la sua ora. Quando mi toccherà, quello che Dio vorrà, sarà. Ma prima di partire sono andato a vedere la papamobile che doveva essere portata qui. Aveva tanti finestrini. Se vai a vedere qualcuno a cui vuoi tanto bene, amici, con voglia di comunicare, vai a visitarli dentro una cassa di vetro? No. Non potevo venire a vedere questo popolo, che ha un cuore così grande, dietro una cassa di vetro. E nell’auto, quando vado per le strade, abbasso il finestrino, per poter tirar fuori la mano, salutare. Ossia, o tutto o niente: o uno fa il viaggio come lo deve fare, con comunicazione umana, o non lo fa; la comunicazione a metà non fa bene. Ringrazio — e su questo punto voglio essere molto chiaro — la sicurezza del Vaticano, per il modo in cui hanno preparato questa visita, per lo zelo dimostrato. E ringrazio la sicurezza del Brasile. Ringrazio moltissimo, perché anche qui si prendono cura di me, e vogliono che non mi accada nulla di sgradevole. Può succedere, può succedere che qualcuno mi dia una botta... può accadere. Entrambe le sicurezze hanno lavorato molto bene. Ma tutte e due sanno che sono un indisciplinato, da questo punto di vista... Ma non per fare l’enfant terrible. Ma semplicemente perché vengo a visitare la gente, desidero trattarla come gente. Toccarla.
Il suo grande amico, il cardinale brasiliano Cláudio Hummes, mi ha parlato diverse volte della sua preoccupazione per la perdita di fedeli qui nel continente, soprattutto in Brasile, che passano ad altre religioni, principalmente a quelle evangeliche. Io gli ho chiesto: perché ciò avviene e che si può fare?
Non conosco le cause e neppure le percentuali. Ho sentito parlare di questo tema, della preoccupazione per l’allontanamento della gente, in due Sinodi dei vescovi: in quello de 2001 sicuramente, e poi in un altro Sinodo. Non conosco la vita del Brasile per poter dare una risposta. Credo che il cardinale Hummes è stato uno di quelli che ne ha parlato, ma non sono sicuro; se lei dice che ne ha parlato, è perché lo sa. Non saprei spiegarlo. Immagino una cosa. Per me è fondamentale la vicinanza della Chiesa. La Chiesa è madre, e né lei né io conosciamo nessuna mamma “per corrispondenza”. La mamma dà affetto, tocca, bacia, ama. Quando la Chiesa, occupata in mille cose, trascura la vicinanza, se ne dimentica e comunica solo con documenti, è come una mamma che comunica con suo figlio per lettera. Non so se questo è accaduto in Brasile. Non so, ma so che in alcuni luoghi dell’Argentina che conosco è accaduto proprio questo: la mancanza di vicinanza, di sacerdoti. Mancano sacerdoti, allora si lascia un paese senza sacerdote. E la gente cerca, ha bisogno del Vangelo. Un sacerdote mi raccontava che era andato come missionario in una città del sud dell’Argentina, dove non c’era un sacerdote da quasi venti anni. Chiaramente la gente andava ad ascoltare il pastore, perché sentiva il bisogno di ascoltare la parola di Dio. Quando giunse lì, una signora molto colta gli disse: «Sono arrabbiata con la Chiesa perché ci ha abbandonato. Ora vado al culto la domenica ad ascoltare il pastore, è stato lui ad alimentare la nostra fede in tutto questo tempo». Mancanza di vicinanza. Parlarono di questo, il sacerdote l’ascoltò, e quando stavano per salutarsi, lei gli disse: «Padre, un momento, venga». Lo portò fino a un armadio. Aprì l’armadio e dentro c’era l’immagine della Vergine. Gli disse: «Padre, la tengo nascosta perché non la veda il pastore». Quella donna andava dal pastore, lo rispettava, lui le parlava di Dio e lei lo accettava, perché non aveva il suo ministro. Le radici di appartenenza le conservò nascoste in un armadio. Ma le aveva. È questo il fenomeno forse più serio. L’episodio mi mostra spesso il dramma di questa fuga, diciamo, di questo mutamento. Mancanza di vicinanza. Riprendo l’immagine. La madre fa così con il figlio: lo cura, lo bacia, lo accarezza e lo alimenta. Non per corrispondenza.
Bisogna stare vicini, non è così? Più vicini.
Vicinanza: è uno dei modelli pastorali per la Chiesa di oggi. Voglio una Chiesa vicina.
Quando è stato scelto nel conclave, la Curia romana era bersaglio di critiche, persino critiche interne di vari cardinali. E il sentimento che ho percepito, per lo meno da parte dei cardinali con i quali ho parlato, era di mutamento. Questo sentimento era corretto?
Apro una parentesi, per un momento. Quando sono stato eletto, avevo accanto a me il mio amico, il cardinale Hummes, perché, secondo l’ordine di decananza, eravamo uno dietro l’altro. È stato lui a dirmi una frase che mi ha fatto tanto bene: «Non ti dimenticare dei poveri». Che bello! La Curia romana è stata sempre criticata. A volte di più, altre di meno. La Curia si presta a critiche, e dato che deve risolvere tante cose, alcune cose piacciono, altre no; alcune procedure sono ben indirizzate, altre sono mal impostate, come in ogni organizzazione. Direi questo: nella Curia romana ci sono molti santi. Cardinali santi, vescovi santi, sacerdoti, religiosi, laici santi, gente di Dio, che ama la Chiesa. Questo non si vede. Fa più rumore un albero che cade di un bosco che cresce. Si sente il rumore degli scandali. Adesso ne abbiamo uno: uno scandalo di trasferimento di dieci o venti milioni di dollari di un monsignore. Bel favore fa alla Chiesa, questo signore, vero? Bisogna riconoscerlo, questo signore ha agito male, e la Chiesa deve dargli la punizione che merita, perché ha agito male. Ci sono casi del genere. Prima del conclave ci sono le cosiddette congregazioni generali. Noi cardinali abbiamo avuto una settimana di riunioni. E lì abbiamo parlato chiaramente dei problemi. Abbiamo parlato di tutto, perché siamo tra di noi, per vedere qual era la realtà e tracciare il profilo del futuro Papa. E lì sono venuti fuori problemi seri, derivanti in parte da tutto ciò che voi conoscete già, come Vatileaks. C’erano problemi di scandalo. Ma continuavano a esserci anche i santi. Quegli uomini che hanno dato e continuano a dare la propria vita per la Chiesa in modo silenzioso e con zelo apostolico. Si è parlato anche di certe riforme funzionali che bisognava fare. È vero. Ed è stato chiesto al nuovo Papa di cercare di formare una commissione outsider, per studiare i problemi di organizzazione della Curia romana. Un mese dopo la mia elezione, ho nominato questa commissione di otto cardinali, uno di ogni continente — due per l’America, uno per quella del nord e uno per quella del sud — con un coordinatore anche lui latinoamericano e un segretario italiano. La commissione ha iniziato a lavorare, a sentire le opinioni di vescovi, di conferenze episcopali, per conoscere i pareri di riforma nella dinamica della sinodalità. Sono già arrivati molti documenti ottenuti dai membri della commissione e ce li stiamo scambiando. Avremo una prima riunione ufficiale l’1, il 2 e il 3 ottobre. E lì si esamineranno alcuni modelli. Non credo che ne uscirà qualcosa di definitivo, perché la riforma della Curia è molto seria. Vedo le proposte: se sono proposte molto serie, vanno maturate. Calcolo che dovremo fare altre due o tre riunioni prima che ci sia qualche riforma. D’altro canto, i teologi dicono — non so se nel Medioevo — in latino: Ecclesia semper reformanda, «La Chiesa sempre si deve riformare». Altrimenti resta indietro. Questo non solo per gli scandali di Vatileaks, che tutti conoscono, ma perché la Chiesa si deve sempre riformare. Ci sono cose che servivano nel secolo scorso, che servivano per altre epoche, per altri punti di vista, che ora non servono più, e che bisogna riadattare. La Chiesa è dinamica e risponde alle cose della vita. Tutto ciò è stato chiesto nelle riunioni dei Cardinali prima del conclave. Se ne è parlato molto chiaramente, sono state fatte proposte molto chiare e concrete. Seguiremo questa linea.
Ha risposto molto bene, in modo esaustivo. Vorrei sapere qual è il suo messaggio ai giovani brasiliani. Il suo messaggio giunge in un momento in cui i giovani sono nelle strade del Brasile, per protestare e mostrare la loro insoddisfazione in modo molto forte. Vorrei sapere qual è il messaggio per questi giovani.
In primo luogo devo dire chiaramente che non conosco i motivi delle proteste dei giovani. Allora se dico qualcosa senza chiarire questo, faccio del male, faccio del male a tutti, perché do un’opinione senza conoscere i fatti. Con tutta franchezza le dico: non conosco bene perché i giovani stanno protestando. Secondo punto: un giovane che non protesta non mi piace. Perché il giovane ha l’illusione dell’utopia, e l’utopia non è sempre negativa. L’utopia è respirare e guardare avanti. Un giovane ha più freschezza, meno esperienza della vita, è vero. A volte l’esperienza della vita ci frena. Ma ha più freschezza per dire le sue cose. Un giovane è fondamentalmente un anticonformista. È questo è molto bello! È qualcosa che tutti i giovani hanno in comune. Io direi, in generale, che bisogna ascoltare i giovani, dare loro spazio ed espressione, e prendersi cura di loro perché non vengano manipolati. Poiché così come esiste la tratta di persone — il lavoro schiavo, tante forme di tratta di persone — io oserei dire una cosa, senza offendere: ci sono persone che mirano alla tratta dei giovani, manipolando questa speranza, questo anticonformismo. E così rovinano la vita dei giovani. Perciò attenzione alla manipolazione dei giovani. I giovani vanno sempre ascoltati.. Attenzione. Una famiglia, un padre, una madre che non ascoltano il figlio giovane, lo isolano, generano tristezza nel suo animo e non si arricchiscono. I giovani hanno sempre ricchezza, chiaramente con inesperienza. Ma bisogna sempre ascoltarli. E difenderli da manipolazioni strane, di tipo ideologico, sociologico. Bisogna ascoltarli e dare loro uno spazio di ascolto. Questo mi porta a un’altra problematica, che oggi, in un certo modo, ho illustrato nella cattedrale, nell’incontro con il gruppo argentino. A un gruppo di ambasciatori che erano venuti a presentarmi le lettere credenziali, ho detto che il mondo attuale in cui viviamo è caduto nella feroce idolatria del denaro. E si crea una politica mondiale, molto caratterizzata dal protagonismo del denaro. A comandare oggi sono i soldi. Ciò significa una politica mondiale di tipo economicista, senza un’etica che la controlli, un economicismo autosufficiente e che organizza l’appartenenza sociale secondo questa convenienza. Che accade allora? Quando regna questo mondo della feroce idolatria del denaro, ci si concentra molto sul centro. E le punte della società, gli estremi vengono trascurati, non vengono curati, sono scartati. Finora abbiamo visto chiaramente come vengono scartati gli anziani. C’è tutta una filosofia per scartare l’anziano. Non serve. Non produce. Anche il giovane non produce molto, perché è un potenziale che dev’essere formato. Ora stiamo vendendo che l’altra punta, quella dei giovani, sta per essere scartata. L’alta percentuale di disoccupazione giovanile in Europa è allarmante. Non elenco i Paesi dell’Europa, ma faccio due esempi sulla disoccupazione di due Paesi ricchi dell’Europa, seri. In uno l’indice della disoccupazione è del 25 per cento di disoccupazione generale. Ma in questo stesso Paese, l’indice della disoccupazione giovanile è del 43 o 44 per cento. Il 43 o 44 per cento dei giovani di questo Paese sono disoccupati. Un altro Paese ha un indice di oltre il 30 per cento di disoccupazione generale; la disoccupazione dei giovani ha già superato il 50 per cento. Siamo di fronte a un fenomeno di giovani “scartati”. Allora, per sostenere questo modello politico mondiale, scartiamo gli estremi. Curiosamente, quelli che sono promessa per il futuro, perché il futuro ce lo daranno i giovani, perché lo porteranno avanti, e gli anziani, che devono trasferire la loro saggezza ai giovani. Scartando entrambi, il mondo crolla. Non so se mi sono spiegato bene. Manca un’etica umanista in tutto il mondo: sto parlando di un problema a livello mondiale. Oggi ci sono bambini che non hanno da mangiare nel mondo, bambini che muoiono di fame, di sottoalimentazione; basta vedere le fotografie di alcuni luoghi del mondo. Ci sono malati che non hanno accesso al sistema sanitario. Ci sono uomini e donne mendicanti che muoiono di freddo in inverno. Ci sono bambini che non ricevono un’educazione. Tutto ciò non fa notizia. Perdono tre o quattro punti le borse di alcune capitali ed è una grande catastrofe mondiale. Mi capisce? Questo è il dramma di questo umanesimo disumano che stiamo vivendo. Perciò occorre recuperare gli estremi — i bambini e i giovani — e non cadere in una globalizzazione dell’indifferenza rispetto a questi due estremi che sono il futuro di un popolo. Mi scusi se mi sono dilungato e ho parlato troppo. Ma con questo le ho dato il mio punto di vista. Cosa sta accadendo con i giovani del Brasile, non lo so. Ma, per favore, non manipolateli, ascoltateli, perché si tratta di un fenomeno mondiale, che va molto al di là del Brasile.
Molto interessante. È un pensiero molto profondo. Vorrei farle un’ultima domanda. Qual è il messaggio, quello che lei direbbe ai brasiliani cattolici ma anche ai brasiliani che non sono cattolici, ossia, di altre religioni. Per esempio, domenica è venuto qui il rabbino Skorka, suo amico di Buenos Aires. Qual è il messaggio che lascerebbe a un Paese come il Brasile? 
Credo che occorra promuovere una cultura dell’incontro, in tutto il mondo, di modo che ognuno senta la necessità di dare all’umanità i valori etici di cui essa ha oggi bisogno e di difendere questa realtà umana. Su questo punto ritengo sia importante che tutti lavoriamo per gli altri. Potare l’egoismo: un lavoro per gli altri secondo i valori della propria fede. Ogni confessione ha le sue credenze, ma, secondo i valori della propria fede, deve lavorare per il prossimo. E dobbiamo incontrarci tutti per lavorare per gli altri. Se c’è un bambino che ha fame e che non riceve un’educazione, quello che deve interessarci è che smetta di aver fame e riceva un’educazione. Non importa se a dargli questa educazione sono i cattolici, i protestanti, gli ortodossi o gli ebrei. Non m’interessa. M’interessa che l’educhino e lo sfamino. Su questo dobbiamo metterci d’accordo. Oggi l’urgenza è tale che non possiamo litigare tra di noi, a discapito degli altri. Dobbiamo prima lavorare per il prossimo, poi parlare di noi, in modo profondo, dando ragione ciascuno della propria fede, cercando di capirci, certo. Ma oggi è urgente soprattutto la vicinanza, l’uscire da se stessi per risolvere i terribili problemi mondiali esistenti. Credo che le religioni, le diverse confessioni — mi piace di più parlare di diverse confessioni — non possono andare a dormire tranquille finché ci sarà anche un solo bambino che muore di fame, un solo bambino senza educazione, un solo giovane o anziano senza un’assistenza medica. Ma il lavoro delle religioni, delle confessioni, non è beneficenza. È vero. Per lo meno nella nostra fede cattolica, nella nostra fede cristiana, saremo giudicati per queste opere di misericordia.
L'Osservatore Romano

*

Come Papa Francesco ribalta il concetto novecentesco di marginalità. Rivoluzionari nelle periferie dell’esistenza

(Andrea Possieri) «Io vi chiedo di essere rivoluzionari, vi chiedo di andare contro corrente», di dirigervi verso le «periferie esistenziali» del mondo moderno per annunciare, senza paura, l’amore di Cristo «in ogni ambiente anche a chi sembra più lontano, più indifferente». Potrebbe essere riassunta così — parafrasando le parole pronunciate da Papa Francesco nell’incontro con i volontari della gmg e nell’omelia di Capocabana — la più grande eredità che ci lascia la Giornata mondiale della gioventù che si è appena conclusa. Un’eredità che trova il significato più profondo soprattutto in relazione al luogo geografico e culturale, il continente latinoamericano, in cui quelle parole sono state pronunciate. Storicamente, infatti, l’evocazione delle periferie in America latina rimanda sia al contesto sociale di estrema povertà caratterizzato dalle bidonville e sia a un orizzonte simbolico-culturale da cui è scaturita una visione del mondo che, pur facendo proseliti tra i cattolici, trova la sua ragion d’essere nel marxismo.
Dunque, le periferie rimandano, innanzitutto, a quel complesso e caotico processo di inurbamento sorto, nel secondo dopoguerra, in tutto il continente latinoamericano e che ha dato vita a quegli agglomerati di baracche costruiti al di fuori di ogni pianificazione urbanistica che hanno assunto, a seconda dei Paesi, le denominazioni più diverse e tristemente suggestive: favélas in Brasile, callampas in Cile, villas miserias in Argentina, ranchitos in Venezuela, ciudades perdidas in Messico, tugurios in Colombia, guasmos in Ecuador e barrios marginales in Perú. In secondo luogo, le periferie evocano un concetto fondamentale nel dibattito intellettuale novecentesco: quello di “marginalità”. La marginalità sin dalle sue prime definizioni assunse una duplice connotazione: geografica ed esistenziale. Il sociologo statunitense Robert Park, infatti, nel 1928, studiando la condizione degli immigrati arrivò a definire «l’uomo marginale» come colui che viveva ai margini tra due culture. Questa duplice connotazione della marginalità, sociale e antropologica, venne sviluppata poi dalla scuola sociologica di Chicago e, nel secondo dopoguerra, approdò in America latina quando l’emergenza urbana portò a studiare i cosiddetti quartieri marginali, ovvero quei sobborghi fatiscenti dove, non solo era del tutto assente lo Stato, ma dove era facilmente riscontrabile ogni tipo di disagio esistenziale: dalla rottura dei vincoli familiari all’assenza di ogni norma sociale, dallo sviluppo esponenziale della criminalità alla diffusione delle tossicodipendenze. In questo orizzonte di ricerca si alternarono, per fare solo alcuni esempi, gli studi funzionalisti di Gino Germani in Argentina, quelli culturalisti prodotti dal Centro para il desarollo de América Latina in Cile, quelli antropologici elaborati dalla Commisão Economica para a América Latina dell’Onu o quelli infine che si rifacevano alla “teoria della dipendenza” come gli studi di Aníbal Quijano. Soprattutto a partire dagli anni Sessanta, però, si rivelò profondissima l’influenza del marxismo nel fornire nuove chiavi di lettura, si rivelò profondissima. Molti studiosi, non solo latinoamericani, collegarono le contraddizioni del sistema economico latinoamericano con le caratteristiche strutturali del modo di produzione capitalistica eurocentrico. Per i teorici della dipendenza il particolare tipo di industrializzazione del terzo mondo, subordinato alle regole dei Paesi tecnologicamente e industrialmente più avanzati, produceva gigantesche masse di disoccupati e di esclusi dal mercato del lavoro. E proprio a questa categoria di esclusi venne adattata la categoria di marginali. In particolare, alcuni intellettuali come l’economista statunitense Paul Baran, il sociologo messicano Rodolfo Stavenhagen, i sociologi brasiliani Celso Furtado e Fernando Henrique Cardoso, il sociologo cileno Oswaldo Sunkel e il sociologo ed economista tedesco-americano André Gunder Frank, ricondussero l’analisi della marginalità a una prospettiva di classe e sostennero che il sottosviluppo latinoamericano non era altro che una diretta conseguenza della sottomissione economica alle società del cosiddetto Primo Mondo.
Queste interpretazioni, al di là dei loro limiti teologici, contribuirono però, nel corso degli anni, a costruire un senso comune diffuso, non solo in ambito colto ma anche tra i ceti popolari, che tendeva a illustrare le miserie degli uni solamente come la diretta conseguenza delle ricchezze degli altri. Questa prospettiva rivendicativa, tutta rivolta al mondo e alla giustizia sociale, oggi viene trasformata dalle parole del vescovo di Roma e dal suo costante riferimento alle «periferie esistenziali». Nelle parole di Francesco, infatti, le povertà materiali si assommano alle povertà relazionali; la crisi economica del mondo contemporaneo viene collegata, indissolubilmente, con la crisi morale dell’uomo moderno; e l’amore preferenziale per i poveri e gli emarginati è una scelta che si dirige tutta verso il centro, che è Cristo. In questa «teologia del popolo», come l'ha definita Andrea Riccardi, non c’è spazio per alcuna rivendicazione classista. Dio è al centro di ogni azione, motore inesauribile delle energie degli uomini, senza il quale nulla ha significato. E anche la Chiesa, afferma Papa Francesco, se si dimentica di vivere le «periferie» si erige in un «centro» che si «funzionalizza e un poco alla volta si trasforma in una ong».
Una prospettiva innovativa, dunque, che scompagina decenni di elaborazioni intellettuali che partivano dai poveri per arrivare alla rivoluzione. In questo caso, Papa Francesco chiede sì di «essere rivoluzionari» ma partendo sempre da Cristo per arrivare veramente ai poveri.
L'Osservatore Romano

La Repubblica delle banane



Insulti,  banane e ancora insulti, a parole o con i gesti, per la nostra ministra dell'Integrazione. Reazioni che ci stanno rendendo - tristemente - famosi nel mondo, tant'è vero che, due giorni fa, la Cnn ci ha sbattuti in apertura titolando: «Italia, Paese delle banane?». Come dire che queste nuove, ripetute «intemperanze», come le chiama chi ama minimizzare, sono deleterie per la nostra già non magnifica immagine internazionale. Non è che si voglia sempre pensare all'utile, ma i turisti americani di colore - e non solo americani - potrebbero pensare che il nostro sia per loro un Paese da evitare.
Siamo, dunque, davvero diventando razzisti? A scorrere blog e social network si direbbe senz'altro di sì, perché insulti ed esternazioni anche assai violente contro gli immigrati sembrano essere il pane quotidiano. C'è da dire, tuttavia, che notoriamente l'anonimato induce a dare il peggio di sé, e che per lo più esterna in modo aggressivo soltanto chi è frustrato, insoddisfatto, arrabbiato: gli altri - che nonostante tutto sono ancora la maggioranza - di solito tacciono.
Razzisti no, non lo siamo, a giudicare da come le popolazioni in genere accolgono i disgraziati che approdano sulle nostre coste. Sono quasi la regola gli episodi di privati cittadini che, in occasione degli sbarchi, accorrono con coperte, abiti, viveri per assistere i boat people , che danno man forte e non raramente offrono anche ricovero. Razzisti no, nemmeno in certi capoluoghi del Veneto che, ai tempi dei sindaci sceriffi, sembravano vere e proprie cittadelle dell'intolleranza, perché alla prova dei fatti si scopre che proprio in Veneto gli immigrati si dichiarano e sono integrati meglio che in qualunque altro luogo d'Italia. Razzisti no, se si pensa alle scuole multietniche, che si stanno avviando a diventare un po' dappertutto la regola, e al quotidiano lavoro straordinario che vi fanno presidi, insegnanti e spesso anche genitori di tutta Italia.
Esasperazione, rancore, rabbia verso gli stranieri non sono, ovviamente, sentimenti e atteggiamenti sconosciuti, tutt'altro, però sono generati soprattutto dall'assenza di controlli, dal lasciar fare generale, dall'incertezza della pena. Quando il nordafricano che ha investito e ucciso una ragazza sulle strisce ed è scappato finisce subito ai domiciliari, quando l'albanese che ha rubato in casa viene rimesso a piede libero, e magari, lo si incontra in strada qualche giorno dopo, quando gli abitanti del campo rom possono tranquillamente trasformare il parco di quartiere in una specie di discarica, quando protettori romeni, slavi, albanesi possono far lavorare impuniti le loro disgraziate ragazze, ecco che il germe del razzismo, chissà, prende piede, e colpa di tutto diventano allora gli stranieri che, si sa, senza lavoro, senza arte né parte, più facilmente vanno a ingrossare le file della delinquenza.
Il rischio di una deriva intollerante esiste dunque, nutrita dal lassismo, dalla scarsità di forze dell'ordine, non di rado anche da leggi poco condivisibili. Ma a nutrirla servono di sicuro anche gli insulti, in particolar modo se lanciati da personaggi pubblici di qualche importanza, che li usano studiatamente per provocare da un lato il facile applauso e dall'altro l'indignazione, miscela che garantisce articoli sui giornali, notorietà, fama a chi, forse, per qualche tempo, era uscito dal cono di luce delle cronache quotidiane.
Sono, questi insulti razzisti, un veleno sparso con pericolosa sconsideratezza che in fretta contagia chi è socialmente o culturalmente più debole: se il tale, là in alto - penseranno costoro - è libero di dire «orango», perché non possiamo permettercelo anche noi, sfogare le nostre rabbie dicendo scimmione, gorilla, torna nella giungla, e prenditi anche queste banane? Esattamente quello che è successo.
Isabella Bossi Fedrigotti
Corriere della Sera

Francesco e la «rivoluzione della tenerezza»

La tenerezza di papa Francesco

Nuovo tweet del Papa: "Cari giovani, vale la pena scommettere su Cristo e sul Vangelo, rischiare tutto per grandi ideali! #Rio2013 #JMJ" (31 luglio 2013)

*


«Se il Signore non si stanca di perdonare, noi non abbiamo altra scelta che questa: prima di tutto, curare i feriti»

ANDREA TORNIELLI

Le parole pronunciate da Papa Francesco nella lunga intervista concessa ai giornalisti sul volo papale dopo il decollo da Rio de Janeiro, in particolare quelle sui gay, hanno avuto un'eco straordinaria. «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla? Il Catechismo della Chiesa Cattolica spiega in modo tanto bello questo e dice, "non si devono emarginare queste persone per questo, devono essere integrate in  società"».


Com'era peraltro comprensibile, le parole del Papa sono state interpretate da qualcuno come lo sdoganamento dell'orgoglio gay, mentre altri hanno subito cominciato a gettare acqua sul fuoco per ribadire che proprio nulla è cambiato e che nella sua risposta Francesco non ha fatto altro che ribadire la dottrina tradizionale citando il Catechismo. Ma se questa è la dottrina tradizionale della Chiesa, che sempre ha distinto tra peccato e peccatore - condannando il primo e aprendo le braccia al secondo - perché mai la sottolineatura del Papa risuona come una novità? Forse perché, in tante prese di posizione e dichiarazioni pubbliche ecclesiastiche, questo aspetto fondamentale della misericordia ha finito per passare in secondo piano?


Nel discorso al comitato di coordinamento del Celam, domenica scorsa, Francesco ha detto: «Esistono in America Latina e nei Caraibi pastorali "lontane", pastorali disciplinari che privilegiano i principi, le condotte, i procedimenti organizzativi... ovviamente senza vicinanza, senza tenerezza, senza carezza. Si ignora la "rivoluzione della tenerezza" che provocò l’incarnazione del Verbo. Vi sono pastorali impostate con una tale dose di distanza che sono incapaci di raggiungere l’incontro: incontro con Gesù Cristo, incontro con i fratelli». Siamo sicuri che il problema riguardi soltanto l'Amerca Latina e il Caribe?


Nell'altro grande discorso programmatico, quello tenuto sabato ai vescovi brasiliani a partire dall'evento di Aparecida, Francesco ha parlato di una «Chiesa che fa spazio al mistero di Dio; una Chiesa che alberga in se stessa tale mistero, in modo che esso possa incantare la gente, attirarla. Solo la bellezza di Dio può attrarre. La via di Dio è l’incanto che attrae. Dio si fa portare a casa. Egli risveglia nell’uomo il desiderio di custodirlo nella propria vita, nella propria casa, nel proprio cuore. Egli risveglia in noi il desiderio di chiamare i vicini per far conoscere la sua bellezza. La missione nasce proprio da questo fascino divino, da questo stupore dell’incontro».


È questa la dinamica in atto da duemila anni, la dinamica dell'incontro personale con Cristo. In fondo, che cosa accadeva nella Palestina dove tutto è cominciato? Che cosa leggiamo nei Vangeli? Quale era attrattiva di quell'uomo che unico nella storia dell'umanità ha detto di se stesso «Io sono la via, la verità e la vita»? Chi lo incontrava, come accadde all'adultera da lui salvata dalla lapidazione, incrociava uno sguardo di misericordia. Misericordia, prima che condanna, misericordia, prima che giudizio. Il che non significa e non ha mai significato chiamare bene il male, ma annunciare il primato dell'amore di un Dio che «mai si stanca di perdonare» se solo ci riconosciamo poveri peccatori e bisognosi della sua misericordia che continua ad abbracciarci.


Rispondendo a una domanda sui divorziati risposati: «La Chiesa è Madre: deve andare a curare i feriti, con misericordia. Ma se il Signore non si stanca di perdonare, noi non abbiamo altra scelta che questa: prima di tutto, curare i feriti. È mamma, la Chiesa, e deve andare su questa strada della misericordia. E trovare una misericordia per tutti». Ai vescovi del Brasile Francesco ha proposto l'icona dei discepoli di Emmaus per descrivere la situazione di tante persone che si sono allontanate dalla Chiesa. «Il mistero difficile della gente che lascia la Chiesa; di persone che, dopo essersi lasciate illudere da altre proposte, ritengono che ormai la Chiesa - la loro Gerusalemme - non possa offrire più qualcosa di significativo e importante. E allora vanno per la strada da soli, con la loro delusione. Forse la Chiesa è apparsa troppo debole, forse troppo lontana dai loro bisogni, forse troppo povera per rispondere alle loro inquietudini, forse troppo fredda nei loro confronti, forse troppo autoreferenziale, forse prigioniera dei propri rigidi linguaggi, forse il mondo sembra aver reso la Chiesa un relitto del passato, insufficiente per le nuove domande...».


Di fronte a questa situazione che cosa fare? «Serve una Chiesa che non abbia paura di entrare nella loro notte. Serve una Chiesa capace di incontrarli nella loro strada. Serve una Chiesa in grado di inserirsi nella loro conversazione... Serve una Chiesa in grado di far compagnia, di andare al di là del semplice ascolto; una Chiesa che accompagna il cammino mettendosi in cammino con la gente». Nel rapporto con il mondo contemporaneo, con le nostre società secolarizzate e in crisi, con coloro che sembrano così distanti, il «fondamento del dialogo» - ha ricordato ancora il Papa - lo si trova nelle parole del Concilio Vaticano II: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini del nostro tempo, soprattutto dei poveri e di quanti soffrono, sono a loro volta gioie e speranze, tristezze e angosce dei discepoli di Cristo».
Sta qui l'originalità del pontificato del vescovo di Roma venuto «dalla fine del mondo». Un prete «callejero», di strada, che avverte l'urgenza di raggiungere, nelle periferie geografiche ed esistenziali, le tante pecore che sono uscite dal recinto o non ci sono mai entrate, invece di pettinare e coccolare quelle che sono rimaste dentro. Il pastore di una Chiesa che sa «scaldare i cuori», facendo spazio alla «rivoluzione della tenerezza», al mistero di un Dio incarnato che «mai si stanca di perdonare».

*

L'offensiva sociale del Papa callejero   
Il Foglio
 
(Matteo Matzuzzi) Se Giovanni Paolo II aveva votato il pontificato all’abbattimento del comunismo e alla grande battaglia per la difesa e l’affermazione dei cosiddetti principi non negoziabili – lotta che sarebbe sfociata nel ’95 nell’enciclica (...)

*

Chiesa che sfida i tabu   
La Repubblica - Rassegna "Fine settimana"
 
(Paolo Rodari, Marco Ansaldo) “Papamàvel”, il Papa amabile. Il titolo, un gioco di parole, spiccava l’altro giorno a caratteri cubitali su uno dei quotidiani più diffusi di Rio de Janeiro. E alla tv, un commentatore locale, ammaliato dalla comunicativa e dalla semplicità di Francesco (...) 
Rassegna stampa del sito Incontri di "Fine Settimana" 
- «Il Papa sui gay annuncia una Chiesa senza frontiere»(intervista a Antonio Spadaro a cura di Carlo Melato in l'Unità)
- «Ora Francesco mi ha fatto sentire accolto» (intervista a Emanuele Macca a cura di Paolo Conti in Corriere della Sera)
- E dopo 40 anni la parola «gay» entra in Vaticano(Armando Torno in Corriere della Sera)
- Papa: un dietrofront (Thomas Seiterich in www.publik-forum.de)
- La svolta del Papa, ora i cattolici gay sperano (Franca Giansoldati in Il Messaggero)
- La rivoluzione del Papa Che ride e abbraccia di Daniela Ranieri in il Fatto Quotidiano)
- Un'ora e venti minuti di discussione "senza rete"(Stéphanie Le Bars in Le Monde)
- "Come logica conseguenza, l'ordinazione presbiterale di omosessuali" (intervista a Wunibald Müller a cura di Monika Weiss in www.domradio.de)

*

Avvenire 
(Salvatore Mazza) Un viaggio «bello», che «mi ha fatto spiritualmente bene». E sì, «sono stanco abbastanza ma col cuore sto bene». Sorridente, visibilmente contento anche se col viso stanco, papa Francesco, 45 minuti dopo il decollo da Rio de Janeiro per tornare a Roma (...)

*

(Vittorio Messori) Mentre scrivo, ho sul tavolo il penultimo numero di Time . La sua celebre copertina è interamente occupata da un'immagine di Jorge Bergoglio, sul cui profilo campeggia lo «strillo», per dirla in gergo: The people's Pope , il Papa della gente. (...)

“Fraternità, fondamento e via per la pace”



Fraternità, fondamento e via per la pace”. Questo è il tema della 47a Giornata Mondiale per la Pace, la prima di Papa Francesco.

[Text: Italiano, Français, English, Español]
La Giornata mondiale della Pace è stata voluta da Paolo VI e viene celebrata il primo giorno di ogni anno. Il Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace viene inviato alle Chiese particolari e alle cancellerie di tutto il mondo, per richiamare il valore essenziale della pace e la necessità di operare instancabilmente per conseguirla.
Papa Francesco ha scelto come tema del suo primo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace la fraternità. Sin dall’inizio del suo ministero di vescovo di Roma, il Papa ha sottolineato l’importanza di superare una «cultura dello scarto» e di promuovere la «cultura dell’incontro», per camminare verso la realizzazione di un mondo più giusto e pacifico.
La fraternità è una dote che ogni uomo e donna reca con sé in quanto essere umano, figlio di uno stesso Padre. Davanti ai molteplici drammi che colpiscono la famiglia dei popoli – povertà, fame, sottosviluppo, conflitti, migrazioni, inquinamenti, disuguaglianza, ingiustizia, criminalità organizzata, fondamentalismi -, la fraternità è fondamento e via per la pace. La cultura del benessere fa perdere il senso della responsabilità e della relazione fraterna. Gli altri, anziché nostri «simili», appaiono antagonisti o nemici e sono spesso «cosificati». Non è raro che i poveri e i bisognosi siano considerati un «fardello», un impedimento allo sviluppo. Tutt’al più sono oggetto di aiuto assistenzialistico o compassionevole. Non sono visti cioè come fratelli, chiamati a condividere i doni del creato, i beni del progresso e della cultura, a partecipare alla stessa mensa della vita in pienezza, ad essere protagonisti dello sviluppo integrale ed inclusivo.
La fraternità, dono e impegno che viene da Dio Padre, sollecita all’impegno di essere solidali contro le diseguaglianze e la povertà che indeboliscono il vivere sociale, a prendersi cura di ogni persona, specie del più piccolo ed indifeso, ad amarla come se stessi, con il cuore stesso di Gesù Cristo.
In un mondo che accresce costantemente la propria interdipendenza, non può mancare il bene della fraternità, che vince il diffondersi di quella globalizzazione dell’indifferenza, alla quale Papa Francesco ha più volte accennato. La globalizzazione dell’indifferenza deve lasciare posto ad una globalizzazione della fraternità.
La fraternità impronti tutti gli aspetti della vita, compresi l’economia, la finanza, la società civile, la politica, la ricerca, lo sviluppo, le istituzioni pubbliche e culturali. Papa Francesco, all’inizio del suo ministero, con un Messaggio che si pone in continuità con quello dei suoi Predecessori, propone a tutti la via della fraternità, per dare un volto più umano al mondo.
INGLESE
"Fraternity, the foundation and pathway to peace". This is the theme of the 47th World Day of Peace, the first during the pontificate of Pope Francis.
The World Day of Peace was an initiative of Pope Paul VI and it is celebrated on the first day of each year. The Message for the World Day of Peace is sent to particular churches and chancelleries all around the world, drawing attention to the essential value of peace and the need to work tirelessly in order to attain it.
As the theme of his first Message for the World Day of Peace, Pope Francis has chosen Fraternity. Since the beginning of his Petrine Ministry, the Pope has stressed the need to combat the “throwaway culture” and to promote instead a "culture of encounter", in order to build a more just and peaceful world.
Fraternity is a dowry that every man and every woman brings with himself or herself as a human being, as a child of the one Father. In the face of the many tragedies that afflict the family of nations - poverty, hunger, underdevelopment, conflicts, migrations, pollution, inequalities, injustice, organized crime, fundamentalisms - fraternity is the foundation and the pathway to peace.
The culture of personal well-being leads to a loss of the sense of responsibility and fraternal relationship. Others, rather than being “like us”, appear more as antagonists or enemies and are often treated as objects. Not uncommonly, the poor and needy are regarded as a "burden", a hindrance to development. At most, they are considered as recipients of aid or compassionate assistance. They are not seen as brothers and sisters, called to share the gifts of creation, the goods of progress and culture, to be partakers at the same table of the fullness of life, to be protagonists of integral and inclusive development.
Fraternity, a gift and task that comes from God the Father, urges us to be in solidarity against inequality and poverty that undermine the social fabric, to take care of every person, especially the weakest and most defenceless, to love him or her as oneself, with the very heart of Jesus Christ.
In a world that is constantly growing more interdependent, the good of fraternity is one that we cannot do without. It serves to defeat the spread of the globalization of indifference to which Pope Francis has frequently referred. The globalization of indifference must give way to a globalization of fraternity.
Fraternity should leave its mark on every aspect of life, including the economy, finance, civil society, politics, research, development, public and cultural institutions. At the start of his ministry, Pope Francis issues a message in continuity with that of his predecessors, which proposes to everyone the pathway of fraternity, in order to give the world a more human face.
FRANCESE
« Fraternité, fondement et chemin de la paix ». Tel est le thème de la 47ème Journée mondiale de la Paix, la première du Pape François.
La Journée mondiale de la Paix a été voulue par Paul VI et elle est célébrée le premier jour de chaque année. Le Message pour cette Journée mondiale est transmis aux Églises particulières et aux chancelleries du monde entier, pour rappeler la valeur essentielle de la paix et la nécessité d’oeuvrer sans relâche pour l’obtenir.
Le Pape François a choisi la fraternité comme thème de son premier Message pour la Journée mondiale de la Paix. Dès le début de son ministère d’Évêque de Rome, le Pape a souligné l'importance de dépasser une « culture du rebut » et de promouvoir la « culture de la rencontre », en vue de la réalisation d'un monde plus juste et pacifique.
La fraternité est un don que chaque homme et chaque femme reçoit en tant qu'être humain, fils et fille d'un même Père. Face aux nombreux drames qui touchent la famille des peuples – pauvreté, faim, sous-développement, conflits, migrations, pollution, inégalité, injustice, criminalité organisée, fondamentalismes –, la fraternité est fondement et chemin de la paix. La culture du bien-être fait perdre le sens de la responsabilité et de la relation fraternelle. Les autres, au lieu d’être nos « semblables », apparaissent comme des antagonistes ou des ennemis et ils sont souvent « chosifiés ». Il n'est pas rare que les pauvres et les nécessiteux soient considérés comme un « fardeau », un obstacle au développement. Dans le meilleur des cas, ils reçoivent une aide sous forme d’assistanat ou sont l'objet de compassion. C'est-à-dire qu'ils ne sont plus considérés comme des frères, appelés à partager les dons de la création, les biens du progrès et de la culture, à participer en plénitude à la même table de la vie, à être les protagonistes du développement intégral et inclusif.
Don et engagement venant de Dieu le Père, la fraternité encourage à être solidaires contre l'inégalité et la pauvreté qui affaiblissent la vie sociale, à prendre soin de chaque personne – en particulier du plus petit et sans défense – à l'aimer comme soi-même, avec le coeur-même de Jésus-Christ.
Dans un monde qui développe constamment son interdépendance, ne doit pas manquer le bien de la fraternité, qui peut vaincre l’expansion de cette mondialisation de l'indifférence, à laquelle le Pape François a plusieurs fois fait allusion. La mondialisation de l’indifférence doit laisser la place à une mondialisation de la fraternité.
La fraternité doit marquer de son empreinte tous les aspects de la vie, y compris l'économie, les finances, la société civile, la politique, la recherche, le développement, ainsi que les institutions publiques et culturelles.
Au début de son ministère, le Pape François, par un message qui se situe en continuité avec celui de ses Prédécesseurs, propose à tous le chemin de la fraternité, pour donner au monde un visage plus humain.
SPAGNOLO 
“La fraternidad, fundamento y camino para la paz”. Éste es el tema de la 47ª Jornada Mundial de la Paz, la primera del Papa Francisco.
La Jornada Mundial de la Paz fue iniciada por el Papa Pablo VI y se celebra el primer día de cada año. El Mensaje para la Jornada Mundial de la Paz se envía a las Iglesias particulares y a las cancillerías del todo el mundo para destacar el valor esencial de la paz y la necesidad de trabajar incansablemente para lograrla.
El Papa Francisco ha elegido como tema de su primer Mensaje para la Jornada Mundial de la Paz la fraternidad. Desde el inicio de su ministerio como Obispo de Roma, el Papa ha subrayado la importancia de superar una “cultura del descarte” y promover la «cultura del encuentro», para avanzar en la consecución de un mundo más justo y pacífico. La fraternidad es una dote que todo hombre y mujer lleva consigo en cuanto ser humano, hijo de un mismo Padre. Frente a los múltiples dramas que afectan a la familia de los pueblos —pobreza, hambre, subdesarrollo, conflictos bélicos, migraciones, contaminación, desigualdad, injusticia, crimen organizado, fundamentalismos —, la fraternidad es fundamento y camino para la paz.
La cultura del bienestar lleva a la pérdida del sentido de la responsabilidad y de la relación fraterna. Los demás, en lugar de ser nuestros «semejantes», se convierten en antagonistas o enemigos, y frecuentemente son cosificados. No es extraño que los pobres sean considerados un «lastre», un impedimento para el desarrollo. A lo sumo son objeto de una ayuda asistencialista o compasiva. No son vistos como hermanos, llamados a compartir los dones de la creación, los bienes del progreso y de la cultura, a participar en la misma mesa de la vida en plenitud, a ser protagonistas del desarrollo integral e inclusivo. La fraternidad, don y tarea que viene de Dios Padre, nos convoca a ser solidarios contra la desigualdad y la pobreza que debilitan la vida social, a atender a cada persona, en especial de los más pequeños e indefensos, a amarlos como a uno mismo, con el mismo corazón de Jesucristo. En un mundo cada vez más interdependiente, no puede faltar el bien de la fraternidad, que vence la difusión de esa globalización de la indiferencia, a la cual se ha referido en repetidas ocasiones el Papa Francisco. La globalización de la indiferencia debe ser sustituida por una globalización de la fraternidad.

La fraternidad toca todos los aspectos de la vida, incluida la economía, las finanzas, la sociedad civil, la política, la investigación, el desarrollo, las instituciones públicas y culturales. El Papa Francisco, al inicio de su ministerio, con un Mensaje que está en continuidad con el de sus Predecesores, propone a todos el camino de la fraternidad, para dar un rostro más humano al mundo.

Festa di sant'Ignazio di Loyola - Omelia del Papa.



Chiesa del Gesù. Omelia di Papa Francesco. "Alla centralità di Cristo corrisponde anche la centralità della Chiesa: sono due fuochi che non si possono separare: io non posso seguire Cristo se non nella Chiesa e con la Chiesa"

Questa mattina, alle ore 8, il Santo Padre Francesco si è recato alla Chiesa del Gesù per celebrare la Messa nella festa di Sant’Ignazio, fondatore della Compagnia di Gesù, con i suoi confratelli gesuiti e loro amici e collaboratori. La Messa è iniziata alle ore 8.15. Hanno concelebrato con il Papa S.E. Mons. Luis Ladaria, Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, il Padre Generale della Compagnia di Gesù, Adolfo Nicolas, i membri del suo Consiglio e oltre duecento gesuiti. Al termine della Messa il Papa si è recato a rendere omaggio e a sostare in preghiera davanti agli altari di Sant’Ignazio e di San Francesco Saverio, alla Cappella della Madonna della Strada e alla tomba del Padre Pedro Arrupe. Dopo un breve incontro fraterno con il Padre Generale e alcuni confratelli, il Papa è rientrato in Vaticano intorno alle 10. 
Pubblichiamo di seguito il testo della omelia del Santo Padre:
In questa Eucaristia in cui celebriamo il nostro Padre Ignazio di Loyola, alla luce delle Letture che abbiamo ascoltato, vorrei proporre tre semplici pensieri guidati da tre espressioni: mettere al centro Cristo e la Chiesa; lasciarsi conquistare da Lui per servire; sentire la vergogna dei nostri limiti e peccati, per essere umili davanti a Lui e ai fratelli. 1. Lo stemma di noi Gesuiti è un monogramma, l’acronimo di “Iesus Hominum Salvator” (IHS). Ciascuno di voi potrà dirmi: lo sappiamo molto bene! 
Ma questo stemma ci ricorda continuamente una realtà che non dobbiamo mai dimenticare: la centralità di Cristo per ciascuno di noi e per l’intera Compagnia, che Sant’Ignazio volle proprio chiamare “di Gesù” per indicare il punto di riferimento. Del resto anche all’inizio degli Esercizi Spirituali, ci pone di fronte a nostro Signore Gesù Cristo, al nostro Creatore e Salvatore (cfr EE, 6). E questo porta noi Gesuiti e tutta la Compagnia ad essere “decentrati”, ad avere davanti il “Cristo sempre maggiore”, il “Deus semper maior”, l’ ”intimior intimo meo”, che ci porta continuamente fuori da noi stessi, ci porta ad una certa kenosis, ad “uscire dal proprio amore, volere e interesse” (EE, 189). Non è scontata la domanda per noi, per tutti noi: è Cristo il centro della mia vita? Metto veramente Cristo al centro della mia vita?.Perché c’è sempre la tentazione di pensare di essere noi al centro. E quando un Gesuita mette se stesso al centro e non Cristo, sbaglia. Nella prima Lettura, Mosè ripete con insistenza al popolo di amare il Signore, di camminare per le sue vie, “perché è Lui la tua vita” (cfr Dt 30, 16.20). Cristo è la nostra vita! Alla centralità di Cristo corrisponde anche la centralità della Chiesa: sono due fuochi che non si possono separare: io non posso seguire Cristo se non nella Chiesa e con la Chiesa. E anche in questo caso noi Gesuiti e l’intera Compagnia non siamo al centro, siamo, per così dire, “spostati”, siamo al servizio di Cristo e della Chiesa, la Sposa di Cristo nostro Signore, che è la nostra Santa Madre Chiesa Gerarchica (cfr EE, 353). Essere uomini radicati e fondati nella Chiesa: così ci vuole Gesù. Non ci possono essere cammini paralleli o isolati. Sì, cammini di ricerca, cammini creativi, sì, questo è importante: andare verso le periferie, le tante periferie. Per questo ci vuole creatività, ma sempre in comunità, nella Chiesa, con questa appartenenza che ci dà coraggio per andare avanti. Servire Cristo è amare questa Chiesa concreta, e servirla con generosità e spirito di obbedienza. 2. Qual è la strada per vivere questa duplice centralità? Guardiamo all’esperienza di san Paolo, che è anche l’esperienza di sant’Ignazio. L’Apostolo, nella Seconda Lettura che abbiamo ascoltato, scrive: mi sforzo di correre verso la perfezione di Cristo “perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo” (Fil 3,12). Per Paolo è avvenuto sulla via di Damasco, per Ignazio nella sua casa di Loyola, ma il punto fondamentale è comune: lasciarsi conquistare da Cristo. Io cerco Gesù, io servo Gesù perché Lui mi ha cercato prima, perché sono stato conquistato da Lui: e questo è il cuore della nostra esperienza. Ma Lui è primo, sempre. In spagnolo c’è una parola che è molto grafica, che lo spiega bene: Lui ci “primerea”, “El nos primerea”. E’ primo sempre. Quando noi arriviamo, Lui è arrivato e ci aspetta. E qui vorrei richiamare la meditazione sul Regno nella Seconda Settimana. Cristo nostro Signore, Re eterno, chiama ciascuno di noi dicendoci: “chi vuol venire con me deve lavorare con me, perché seguendomi nella sofferenza, mi segua anche nella gloria” (EE, 95): Essere conquistato da Cristo per offrire a questo Re tutta la nostra persona e tutta la nostra fatica (cfr EE, 96); dire al Signore di voler fare tutto per il suo maggior servizio e lode, imitarlo nel sopportare anche ingiurie, disprezzo, povertà (cfr EE, 98). Ma penso al nostro fratello in Siria in questo momento. Lasciarsi conquistare da Cristo significa essere sempre protesi verso ciò che mi sta di fronte, verso la meta di Cristo (cfrFil 3,14) e chiedersi con verità e sincerità: Che cosa ho fatto per Cristo? Che cosa faccio per Cristo? Che cosa devo fare per Cristo? (cfr EE, 53). 3. E vengo all’ultimo punto. Nel Vangelo Gesù ci dice: “Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà… Chi si vergognerà di me…” (Lc 9, 23). E così via. La vergogna del Gesuita. L’invito che fa Gesù è di non vergognarsi mai di Lui, ma di seguirlo sempre con dedizione totale, fidandosi e affidandosi a Lui. Ma guardando a Gesù, come ci insegna sant’Ignazio nella Prima Settimana, soprattutto guardando il Cristo crocifisso, noi sentiamo quel sentimento tanto umano e tanto nobile che è la vergogna di non essere all’altezza; guardiamo alla sapienza di Cristo e alla nostra ignoranza, alla sua onnipotenza e alla nostra debolezza, alla sua giustizia e alla nostra iniquità, alla sua bontà e alla nostra cattiveria (cfrEE, 59). Chiedere la grazia della vergogna; vergogna che viene dal continuo colloquio di misericordia con Lui; vergogna che ci fa arrossire davanti a Gesù Cristo; vergogna che ci pone in sintonia col cuore di Cristo che si è fatto peccato per me; vergogna che mette in armonia il nostro cuore nelle lacrime e ci accompagna nella sequela quotidiana del “mio Signore”. E questo ci porta sempre, come singoli e come Compagnia, all’umiltà, a vivere questa grande virtù. Umiltà che ci rende consapevoli ogni giorno che non siamo noi a costruire il Regno di Dio, ma è sempre la grazia del Signore che agisce in noi; umiltà che ci spinge a mettere tutto noi stessi non a servizio nostro o delle nostre idee, ma a servizio di Cristo e della Chiesa, come vasi d’argilla, fragili, inadeguati, insufficienti, ma nei quali c’è un tesoro immenso che portiamo e che comunichiamo (2 Cor 4,7).A me è sempre piaciuto pensare al tramonto del gesuita, quando un gesuita finisce la sua vita, quando tramonta. E a me vengono sempre due icone di questo tramonto del gesuita: una classica, quella di san Francesco Saverio, guardando la Cina. L’arte lo ha dipinto tante volte questo tramonto, questo finale di Saverio. Anche la letteratura, in quel bel pezzo di Pemán. Alla fine, senza niente, ma davanti al Signore; questo a me fa bene, pensare questo. L’altro tramonto, l’altra icona che mi viene come esempio, è quella di Padre Arrupe nell’ultimo colloquio nel campo dei rifugiati, quando ci aveva detto – cosa che lui stesso diceva – “questo lo dico come se fosse il mio canto del cigno: pregate”. La preghiera, l’unione con Gesù. E, dopo aver detto questo, ha preso l’aereo, è arrivato a Roma con l’ictus, che ha dato inizio a quel tramonto tanto lungo e tanto esemplare. Due tramonti, due icone che a tutti noi farà bene guardare, e tornare a queste due. E chiedere la grazia che il nostro tramonto sia come il loro. Cari fratelli, rivolgiamoci a Nuestra Señora, Lei che ha portato Cristo nel suo grembo e ha accompagnato i primi passi della Chiesa, ci aiuti a mettere sempre al centro della nostra vita e del nostro ministero Cristo e la sua Chiesa; Lei che è stata la prima e più perfetta discepola del suo Figlio, ci aiuti a lasciarci conquistare da Cristo per seguirlo e servirlo in ogni situazione; Lei che ha risposto con la più profonda umiltà all’annuncio dell’Angelo: “Ecco la serva del Signore, avvenga per me secondo la tua parola” (Lc 1,38), ci faccia provare la vergogna per la nostra inadeguatezza di fronte al tesoro che ci è stato affidato, per vivere l’umiltà di fronte a Dio. Accompagni il nostro cammino la paterna intercessione di sant’Ignazio e di tutti i Santi Gesuiti, che continuano ad insegnarci a fare tutto, con umiltà, ad maiorem Dei gloriam.

*

Papa Francesco ha celebrato la festa di sant'Ignazio di Loyola (1491-1556), fondatore del suo ordine, i Gesuiti, celebrando la Messa nella chiesa dedicata al santo a Roma.  Ne ha approfittato per una vera lezione sulla trama essenziale degli «Esercizi spirituali» di sant'Ignazio.
Come fa quasi sempre, il Papa ha diviso l'omelia in tre parti, che corrispondono a tre punti fermi della spiritualità ignaziana: «mettere al centro Cristo e la Chiesa; lasciarsi conquistare da Lui per servire; sentire la vergogna dei nostri limiti e peccati, per essere umili». Primo: Cristo e la Chiesa vanno messi al centro. «Lo stemma di noi Gesuiti è un monogramma, l’acronimo di “Iesus Hominum Salvator” (IHS). Ciascuno di voi potrà dirmi: lo sappiamo molto bene! Ma questo stemma ci ricorda continuamente una realtà che non dobbiamo mai dimenticare: la centralità di Cristo per ciascuno di noi e per l’intera Compagnia, che Sant’Ignazio volle proprio chiamare “di Gesù” per indicare il punto di riferimento».  Proprio all’inizio degli Esercizi Spirituali, Ignazio invita a contemplare l'immagine di Gesù Cristo, «nostro Creatore e Salvatore». I Gesuiti sono così incitati «a essere “decentrati”, ad avere davanti il “Cristo sempre maggiore”, il “Deus semper maior”, l’”intimior intimo meo”, che ci porta continuamente fuori da noi stessi, ci porta ad una certa kenosis, ad “uscire dal proprio amore, volere e interesse”».
L'antica domanda degli Esercizi non è mai «scontata»: «è Cristo il centro della mia vita? Metto veramente Cristo al centro della mia vita? Perché c’è sempre la tentazione di pensare di essere noi al centro. E quando un Gesuita mette se stesso al centro e non Cristo, sbaglia».  Alla centralità di Cristo «corrisponde anche la centralità della Chiesa: sono due fuochi che non si possono separare: io non posso seguire Cristo se non nella Chiesa e con la Chiesa». Era il cuore dell'insegnamento di Ignazio: sempre seguire la «Santa Madre Chiesa Gerarchica». «Non ci possono essere cammini paralleli o isolati. Sì, cammini di ricerca, cammini creativi, sì», per cercare nuovi modi di raggiungere le «periferie esistenziali» care al Papa, ma mai separati dalla Chiesa Gerarchica, sempre «in spirito di obbedienza».
Secondo: San Paolo scrive che si sforza di correre verso la perfezione di Cristo «perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo» (Fil 3,12). «Per Paolo - commenta il Pontefice - è avvenuto sulla via di Damasco, per Ignazio nella sua casa di Loyola, ma il punto fondamentale è comune: lasciarsi conquistare da Cristo». Cerco Gesù perché Lui mi ha già trovato. «In spagnolo c’è una parola che è molto grafica, che lo spiega bene: Lui ci “primerea”, “El nos primerea”. È primo sempre. Quando noi arriviamo, Lui è arrivato e ci aspetta». 
Francesco commenta la meditazione sul Regno nella Seconda Settimana degli Esercizi. Cristo Re ci chiama con queste parole: «chi vuol venire con me deve lavorare con me, perché seguendomi nella sofferenza, mi segua anche nella gloria». Questo è lo spirito vero degli Esercizi: »Essere conquistato da Cristo per offrire a questo Re tutta la nostra persona e tutta la nostra fatica; dire al Signore di voler fare tutto per il suo maggior servizio e lode, imitarlo nel sopportare anche ingiurie, disprezzo, povertà». E farsi sempre tre domande: «Che cosa ho fatto per Cristo? Che cosa faccio per Cristo? Che cosa devo fare per Cristo?».
Terzo punto: la vergogna, quella che il Papa chiama «la vergogna del Gesuita». La vergogna sbagliata è il rispetto umano: vergognarsi di Gesù. Ma c'è anche una vergogna giusta: «guardando a Gesù, come ci insegna sant’Ignazio nella Prima Settimana, soprattutto guardando il Cristo crocifisso, noi sentiamo quel sentimento tanto umano e tanto nobile che è la vergogna di non essere all’altezza; guardiamo alla sapienza di Cristo e alla nostra ignoranza, alla sua onnipotenza e alla nostra debolezza, alla sua giustizia e alla nostra iniquità, alla sua bontà e alla nostra cattiveria». Gli Esercizi  ci aiutano a chiedere «la grazia della vergogna; vergogna che viene dal continuo colloquio di misericordia con Lui; vergogna che ci fa arrossire davanti a Gesù Cristo; vergogna che ci pone in sintonia col cuore di Cristo che si è fatto peccato per me; vergogna che mette in armonia il nostro cuore nelle lacrime e ci accompagna nella sequela quotidiana del “mio Signore”». Dalla vergogna del peccato viene la vera umiltà,  «che ci rende consapevoli ogni giorno che non siamo noi a costruire il Regno di Dio, ma è sempre la grazia del Signore che agisce in noi; umiltà che ci spinge a mettere tutto noi stessi non a servizio nostro o delle nostre idee, ma a servizio di Cristo e della Chiesa, come vasi d’argilla, fragili, inadeguati, insufficienti, ma nei quali c’è un tesoro immenso che portiamo e che comunichiamo». 
 «A me - ha confidato il Papa - è sempre piaciuto pensare al tramonto del gesuita, quando un gesuita finisce la sua vita, quando tramonta». Francesco ha citato san Francesco Saverio (1506-1552), che muore «guardando la Cina. L’arte lo ha dipinto tante volte questo tramonto, questo finale di Saverio». L'altro esempio - interessante, visti i contrasti che secondo le biografie con lui aveva avuto l'allora padre Bergoglio - è il generale  dei Gesuiti Pedro Arrupe  (1907-1991), che nell'ultimo discorso lascia questa consegna: «Questo lo dico come se fosse il mio canto del cigno: pregate». Alla fine non ci sono più controversie o idee personali. Restano solo la devozione a Gesù e a Maria, tanto cara a Ignazio, la vergogna dei peccati e la preghiera.
Introvigne

Come far sorridere Dio

File:Bella cover.jpg

Da Wimbledon a Medjugorje

Dalla sofferenza alla donazione, storia di una tennista che ha riscoperto l'amore di Dio

*
All’inizio del film “Bella” il protagonista Eduardo Verástegui racconta che sua nonna gli diceva spesso “se vuoi far sorridere il Signore raccontagli dei progetti dell’uomo”.
Sembra una frase fatta apposta per la vicenda di Mara Santangelo, una tennista italiana, talentuosa e determinata, la quale pur avendo un problema ai piedi che la fa soffrire ogni volta che gioca, il 22 giugno del 2005 sta per realizzare il sogno della sua vita: giocare a Wimbledon il tempio mondiale del tennis e vincere contro una della giocatrici più forti: la statunitense Serena Williams.
Invece, proprio nel momento migliore, dopo aver vinto il primo set, i dolori al piede sinistro diventano lancinanti, chiede di andare al bagno, slaccia le scarpe e i suoi piedi sono un bagno di sangue.
Stoicamente Mara rientra in campo, combatte per i seguenti due set, ma non c’è più partita, non riesce più a poggiare i piedi senza provare fitte di dolore.
Il suo umore è nero, prega e impreca, si appella alla sua mamma in cielo, si arrabbia contro il Signore perché sembra che l’abbia abbandonata proprio nel momento più importante.
Pur sofferente ai piedi fin dalla nascita a causa di una lieve malformazione Mara aveva promesso a sua madre che ce l’avrebbe fatta ad arrivare a Wimbledon e diventare una campionessa di tennis.
Nonostante questa cocente delusione la Santangelo va avanti, nel 2006, insieme a Francesca Schiavone, Flavia Pennetta, e Roberta Vinci conquista la Coppa del Mondo (Fed Cup).
Suo il set decisivo quando batte la belga Kirsten Flipkens portando l’Italia sul due a due.
Nel quinto e conclusivo match la campionessa Justine Henin fu costretta a ritirarsi e l’Italia vinse per la prima volta la Fed Cup.
La Santangelo ha cominciato a giocare a tennis all'età di 5 anni. Dall’età di 12 anni è sempre stata convocata al Centro Tecnico Federale ed ha sempre fatto parte della squadra Nazionale.
Professionista dal 1998 al 2010 ha vinto quattro volte contro le prime dieci del ranking mondiale, conta 9 tornei vinti in singolare e 23 tornei vinti in doppio.
Nonostante la sua capacità di resistere al dolore alla fine del 2009 Mara deve arrendersi.
Dopo l’ennesimo infortunio, gli viene diagnosticato il Neuroma di Morton il che comporta l'asportazione di un nervo.
Da quel momeneto Mara non potrà più giocare a livello professionistico.
Il fondo al libro in cui racconta la sua storia “Te lo prometto – la partita della vita, la forza della fede, il coraggio di rialzarsi” edito dalla Piemme, la Santangelo ha scritto:
“Lasciare il tennis è stata dura. L’infortunio che mi ha tenuto per sempre lontana dalle vittorie e dai campi da gioco mi ha costretto a combattere la partita più difficile della mia vita.
Non è un punto, non è un game, non è un set, non è un match.
E’ il cammino della fede che, all’improvviso, dopo tanto cercare, mi ha illuminato l’anima a Medjugorje conducendomi dove non immaginavo di poter arrivare”.
Il libro della Santangelo è stato presentato il 20 luglio a San Benedetto del Tronto nel contesto della XIII edizione della manifestazione “Scrittori sotto le stelle” promossa dalla libreria “la Bibliofila”.
Nel libro l’autrice racconta la sua vicenda agonistica e umana.
Una vita difficile, con i genitori che si dividono quando lei è ancora piccola. Il nuovo compagno della madre che lei non sopporta. L’amatissima madre che muore in un incidente stradale, quando lei aveva solo 16 anni.
Un lutto mai accettato fino in fondo. Un tentativo di reazione che la spinge ad andare avanti per la promessa fatta alla mamma, e una determinazione che riflette la rabbia contro i dolore che gli macera i piedi.
Nella realtà Mara era arrabbiata contro il mondo, per il dolore ai piedi e per la perdita di sua madre.
Nel suo cammino incontra tante persone che gli vogliono bene e che l’aiutano come Giampaolo Coppo il suo allenatore, “maestro sul campo e nella vita” e tanti altri che poi incontrerà dopo un viaggio a Medjugorje
Tutta la prima parte del libro è la storia di questa rabbia, e di questa incapacità di Mara di accettare il dolore che la penalizza e che gli impedisce di fare quello che più ama, giocare a tennis, e il destino avverso e crudele che l’ha privata dalla amatissima madre.
Mara non riesce a liberarsi dai tormenti finchè non decide di andare a Medjugorje,
Intensissima la parte del libro in cui racconta la notte che ha cambiato la sua vita.
Mara che si diceva capace di “fare a stento il segno della croce e a malapena ricorda l’Ave Maria” racconta la prima confessione dopo anni di silenzio e di chiusura.
In fila di fronte al confessionale, Mara ha paura, ma si fa coraggio, si dice “Gesù capirà le mie fragilità. Forza Maretta, peggio della Williams questo sacerdote non potrà mai essere”.
Era dal giorno della Prima comunione che La Santangelo non si confessava. Dopo essersi inginocchiata confessa tutto, come un fiume in piena. Si sente amata, capita, accolta, e una serenità mai provata prima.
Ha scritto nel libro “E’ stato l’ìnizio di una nuova vita”.
Così Mara Santangelo, tennista talentuosa e tosta, sempre molto riservata, comincia a fare opere di assistenza e accoglienza degli altri.
Entra nel gruppo di Chiara Mirante “Nuovi orizzonti” e partecipa attivamente all’iniziativa “abbracci gratis”.
Confessa “Che felicità essere utile al prossimo! Che gioia accogliere con amore, cercando di essere fonte di condivisione”.
A chi gli ha chiesto: “Perché una persona di successo come te, che hai tutto, si mette in mezzo una strada a donare abbracci?” Mara ha risposto: “la nostra esistenza non è nulla senza amore, senza un cuore disposto a donare, ad amare ed essere amato”.
“La vera rinascita spirituale – ha concluso Mara - è nel capire che attraverso di te, altri possono vedere una luce che va oltre la tua persona, oltre la carne e la materia; la luce splendente di Cristo”.
A. Gaspari