domenica 7 luglio 2013

A Jean Vanier, costruttore di pace, il premio «Pacem in Terris»



(Giulia Galeotti) «Nel mese di agosto del 1964 compie un gesto irreversibile, un’azione senza ritorno, quando invita a vivere con lui, in una piccola casa situata nella cittadina di Trosly nel dipartimento dell’Oise, Philippe Seux e Raphaël Simi, due persone affette da deficienza mentale».
Così suor Catherine Aubin, nel corso della sua applauditissima “predica” a Spoleto su Insegnare agli ignoranti del 30 giugno scorso, ha ricordato l’uomo che ha scritto, e che all’età di 82 anni continua quotidianamente a scrivere, una pagina meravigliosa della storia umana. Una pagina che racconta la vicenda travolgente e sconosciuta edificata sulla bellezza della pietra scartata dai costruttori; sui piccoli e i fragili capaci di scompaginare certezze, forza e potere. Il suo nome è Jean Vanier.
A quest’uomo tenero e fortissimo al contempo, fondatore delle comunità dell’Arca, che vedono insieme persone con e senza disabilità mentale («quando fondai l’Arca nel 1964 — ci disse qualche tempo fa — vi fu in me un forte desiderio di giustizia, di unità e di pace da perseguire accogliendo persone che erano state profondamente rifiutate») viene consegnato il prossimo 7 luglio nella “sua” Trosly il premio «Pacem in Terris». Si tratta del riconoscimento assegnato annualmente (ormai dal lontano 1964, all’indomani della storica enciclica di Giovanni XXIII) per onorare chi si sia distinto «nella pace e nella giustizia, non solamente nel proprio Paese ma nel mondo». Nel mondo e per il mondo (tra l’altro, sei riceventi sono stati anche insigniti del Nobel per la pace; Martin Luther King, Madre Teresa, Desmond Tutu, Mairead Corrigan Maguire, Adolfo Pérez Esquivel e Lech Wałęsa, i loro nomi).
«Il mio italiano non va oltre il “buongiorno” purtroppo. Ma in un certo senso sono contento che sia così perché questo mi mette in una situazione di povertà — ripete spesso Jean Vanier (cambiando, evidentemente, la lingua cui si riferisce) nel corso delle sue tantissime conferenze in giro per il mondo —. Molte persone nelle nostre comunità hanno difficoltà a capire cosa succede. È lo stesso quando non si conosce una lingua; è faticoso capire quello che sta succedendo e mi sento molto dipendente, ma questo mi rende più vicino alle tante persone che accogliamo. E poi sono molto contento di avere bisogno di una persona che mi traduca: questo è già un po’ vivere la comunità. La mia debolezza è la sua forza».
Ascoltando la debolezza e mettendo al centro la fragilità — ma facendolo sempre utilizzando al contempo il cuore e l’intelligenza — Jean Vanier, con la sua pacatezza erculea, ha creato una delle grandi meraviglie del Novecento, e cioè le ormai quasi centoquaranta comunità dell’Arca presenti in trentasette Paesi di ogni continente. Quell’Arca — nome scelto perché evoca, al contempo, l’arca di Noè, l’arca dell’alleanza e Maria, così chiamata dai Padri della Chiesa per aver portato in grembo il Salvatore — che ha silenziosamente avviato la valanga che mira a sbriciolare radicate chiusure. È l’amore che scardina le serrature più arrugginite. È la fede che scioglie le scogliere dell’odio che si annidano dentro ogni uomo rendendolo sterile al prossimo. È la tenerezza senza filtri capace di sconfiggere il rifiuto restituendo un bacio. «Vorrei che la mia vita all’Arca fosse il segno di una via alternativa: al di là della normalità, delle prestazioni individuali, del bisogno di eccellenza, si profila un altro cammino — ha scritto recentemente Jean Vanier che, sebbene un po’ affaticato nei movimenti, non ha mai smesso un attimo di essere attento, avvolgente e vicino a chi bussa alla sua porta —. L’essere umano è fatto per vivere umanamente, tutto qui. Veniamo dalla terra e torneremo alla terra. Tempo di forze e successi, tempo anche di debolezze, lutti e malattie. Certo, è importante che ognuno sviluppi il proprio potenziale e sia riconosciuto come unico. Vivere diversamente significa vivere fedeli alla vita relazionale, spesso aiutando altri ad assaporare la vita nelle più piccole cose». È la vita di Jean Vanier, prima delle sue parole, a rivelare come la debolezza e la fragilità siano un dono. Come rappresentino un’opportunità. «La testimonianza della fede — ha detto ancora suor Catherine Aubin, raccontando quest’uomo al pubblico di Spoleto — è una povertà da condividere, un silenzio da ascoltare insieme».
Con gesti irreversibili, con azioni senza ritorno si costruisce la pace duratura. Solo così si edifica sulla terra quella pace che è scintilla vera e autentica della vita eterna.
L'Osservatore Romano