giovedì 11 luglio 2013

Benedetto, ovvero le radici dell'Europa.



Oggi, 11 luglio, ricordiamo la figura del santo Patrono d'Europa. Importantissimo di questi tempi. Per sapere da dove veniamo, chi siamo e soprattutto dove stiamo andando............

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Le virtù della prudenza e del distacco, di cui parla la liturgia di oggi, descrivono la personalità di S. Benedetto, chiamato da Paolo VI “Messaggero di pace, realizzatore di unione, maestro di civiltà”. Il suo esempio è luce per l’Europa di oggi. 
Meditazione
Se legittima è la domanda di Pietro che vuole sapere cosa gli riserva il futuro, rassicurante è la risposta di Gesù. Agli Apostoli, che hanno lasciato tutto per seguirlo, promette il giudizio sulle dodici tribù d’Israele, cioè un futuro di gloria nel Regno. Ma a chiunque si sarà distaccato dai beni di questo mondo promette il centuplo e la vita eterna. Questa prospettiva dà il senso più ampio all’esistenza cristiana e invita, secondo il libro dei proverbi, alla sapienza, alla prudenza e alla conoscenza di Dio per essere giusti e meritare successo. L’esempio di San Benedetto è grande e significativo per tutti i cristiani. Ha lasciato tutto per Gesù. In una società corrotta cerca Dio e lo pone al primo posto, perché nulla deve essere anteposto a lui. Sotto il suo sguardo vive e il suo esempio attira tanti discepoli. Lascia tutto e si dedica alla preghiera e al lavoro per seminare la pace e seguire la via del vero progresso. San Benedetto ha seguito alla lettera questo insegnamento evangelico nella vita monastica. Noi pure, nella vita quotidiana, siamo chiamati a lasciare tutto per raggiungere il tutto, che è Dio, e la vita nella felicità eterna. Tutti siamo chiamati a mettere il Signore al primo posto e la sua Parola guiderà il nostro cammino. Dio viene prima e vale di più rispetto alle persone e alle cose, agli affetti e agli interessi. A tutti promette, con l’amore di oggi, la vita eterna nella creazione nuova. Questo non significa disprezzare gli affetti e trascurare il lavoro. Possiamo fare tutto, possedere tutto ma con quel distacco che consente la libertà interiore, la giustizia equa, la carità fraterna. Possiamo e dobbiamo amare la famiglia e la vita vera nella luce del Datore di ogni bene. Agendo nel nome di Dio, tutto sarà santo, giusto, nobile, a lui gradito. Dice san Benedetto: “Ora et labora”, prega e lavora sotto lo sguardo di Dio nella sequela di Gesù, docile allo Spirito e sarai felice oggi e sempre. 
Preghiera
Seguire Gesù non significa essere chiamato alla pigrizia, ma alla santità. Voglio seguire te e la tua Parola prima di ogni altra cosa. Sei tu la fonte dell’amore e della gioia. In te pongo la mia vita per essere al sicuro. 
Agire
Voglio onorare tutti gli uomini, rispettare tutte le cose, animare la società con la fede cristiana, per essere fermento di bontà evangelica in ogni ambiente che frequento, ad imitazione di Gesù che passava facendo del bene e di san Benedetto, uomo tutto di Dio.

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Gli uomini nuovi secondo De Wohl

di don M. Vacchetti
Mi capita quando si termina un libro di avere la sensazione che chi lo ha scritto, lo abbia fatto dopo aver sbirciato dalla finestra di casa mia. Un libro serve a chi lo legge per essere letto. Interiormente. Non di rado, infatti, accade che alcune frasi siano così pertinenti alla vita di chi tiene tra le mani quelle pagine che si generi un certo timore e una certa riverenza con l’autore come se conoscesse bene chi sei, i difetti, le ansie, i desideri, le speranze. Non importa se sul retro di copertina uno si accerti che l’autore sia morto da cinquant’anni. “Mi conosce”. E’ la sensazione strana e stupefacente di chi tra quelle righe riconosce le proprie rughe. Non quelle degli anni, ma quelle segnate dalle lacrime, dalle ferite, dall’orgoglio, dal peccato, dalla tenerezza, dalla preghiera amante.
La lettura di un romanzo, in realtà, o conduce a questo – a questo, intendo, all’inspessimento della propria coscienza, all’attribuzione delle proprie sconfitte e delle proprie, poche a dire il vero, vittorie, alla percezione della propria fragile grandezza, all’intuizione della propria vocazione – o è un ozio insignificante. Leggere sarebbe una perdita di tempo, una vanità per il gusto delle parole e di storie saporite senza che in quella narrazione venga raccontata la vita. La propria.
Nell’agile lettura de “La città di Dio. Storia di San Benedetto” di Lous de Whol (ed. Bur, pag. 382, 11,50 euro) si ha l’impressione non solo che i propri desideri o le proprie paure siano indagate misteriosamente dall’autore che le assegna chi ad un protagonista chi al suo contrario, ma che questo romanzo, collocato al tempo della caduta di Roma, dell’Impero d’Occidente, dell’invasione dei Goti e della presa della Città Eterna, sia la descrizione più acuta dell’oggi.
E’ una constatazione che meraviglia e intimorisce perché uno prende in mano una storia del V secolo e pare essere la pagina di un attuale saggio sull’ oggi. Forse è questo ciò che rende l’arte di De Whol, degna di essere accostata come una tra le cose più care e più preziose. Parla di me, del mio io. Oggi. In questo contesto, economico, morale, politico.
Da dove viene questa capacità dell’autore? Dai protagonisti delle sue pagine. Romanziere per vocazione, De Whol sceglie di raccontare la vita dei santi, cioè di uomini e donne vere.
Niente è più affascinante dei santi. I Santi sono quanto di più attuale ci siano per indicare a me chi io sia e quale sia il cammino da percorrere.
San Benedetto è un giovane, appartiene alla categoria dei severissimi homines, come sono definiti i nativi di Norcia. Arriva a Roma e cosa vede? “La danza dei morti viventi”. Vede, cioè, Roma, la sua Gloria, le sue mura, i suoi palazzi, la dignità superba dei suoi figli, i mausolei dei suoi imperatori… Vi giunge accompagnando un vecchio abate, ormai cieco per il quale tutto ancora risplende. Benedetto, invece, vede un cadavere. La corruzione ammalora la città, i teatri, la cultura, la vita normale delle persone…Benedetto vede ciò che ne è la causa originaria, nascosta, quella che i più fingono di non scorgere. E’ un uomo che vede oltre la superficie delle cose, degli accadimenti, delle persone. Piuttosto ne intravvede la natura inconsistente quando è priva di ciò che la fa essere: Dio.
“La vita è una faccenda sporca” per chi ha occhi solo pieni dei propri vizi e delle proprie miserie. In realtà, la vita è bella perché Dio è buono. Tutto dipende se il punto di fuga che si sceglie per definire la realtà è la miseria o piuttosto la misericordia. Non basta, infatti, considerare e magari elencare il male. L’analisi della realtà può essere una scusa per rimanerne complici. Occorre che il giudizio generi una compassione.
Il punto, allora, come oggi, è “da dove ripartire?”. Quale sguardo rende la vita più bella? La miseria dell’uomo è tale che dinanzi alla decomposizione del cuore e delle sue attese fa emergere come unica possibilità di riscatto o la vendetta, trama di un dolore che invece che attenuarsi, come antichi sacrifici umani compiuti per placare l’ira divina, amplifica l’abisso del male o “la reintroduzione dei Lupercali, , con tanto di riti di fertilità, mascherate volgari, esibizioni oscene…” (pag.44), distrazione sempre antica e banale del piacere edonistico ed esoterico. In mezzo a questo caos, un personaggio minore, improvvisamente, irrompendo tra le pagine come tra le macerie di un palazzo in rovina, si accorge che “un uomo di nome Benedetto costruisce un luogo dove tutto si fa solo per Dio levandogli un fiume incessante di preghiere con il canto; un posto dove gli uomini non possiedono niente e hanno tutto. Il suo monastero è un cordone vivente scagliato verso il Cielo che Dio afferra per reggere in equilibrio il mondo.  (…)“Sta creando uomini nuovi. Costruisce una nuova società al servizio di Dio” (pag. 191).
De Whol ci offre la vita di questo santo non per darci qualche nozione in più su uno dei tanti santi che affollano il calendario dei giorni e neppure indicarci qualcosa da replicare, quanto suggerirci la prospettiva di uno sguardo e di un ideale.
Oggi la disperazione, il cinismo, la pretesa nichilista di distruggere tutto o l’evasione egoistica possono essere arginate da uomini che non censurano, in primo luogo la propria infedeltà e si pongono di convertire prima di tutto se stessi. “Molti credono di avere per nemico un goto, un rivale in affari o la tifoseria avversa all’ippodromo, non cercano l’avversario là dove si annida davvero dentro di loro, a dominarne i desideri e incitarli al male” (pag. 95). In secondo luogo, uomini che riconoscono che Gesù è il Signore. In Lui tutta l’umana condizione è salvata se vissuta per la Sua Gloria, se offerta alla Sua Maestà. Benedetto non tralascia niente. Niente di ciò che è buono anche se antecedente a Cristo. Piuttosto custodisce e tramanda attraverso l’opera degli amanuensi e dei manoscritti miniati. Niente delle arti e della realtà. I monaci, infatti, divengono in breve “mugnai e panettieri, fabbri e falegnami muratori e marmisti, giardinieri, sarti e ciabattini. Trascrivevano e miniavano manoscritti, studiavano e insegnavano e sette volte al giorno si riunivano per cantare le lodi di Dio, così come lo lodavano con il lavoro” (pag. 297).
Divengono, loro apparentemente fuori dalla lotta, i più grandi avventurieri di un modo straordinario di vivere la vita e goderne appieno. Roma puzza come può male odorare un cadavere ormai consumato al suo interno, ma il profumo di qualcosa di nuovo, di una Roma edificata nell’animo di uomini nuovi, comincia a diffondersi. Chi termina queste pagine, non può non volere per sé, non può non volere impiegare ogni risorsa, per avere questo profumo.
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