martedì 30 luglio 2013

I veri motori della crescita




Papa Francesco e i giovani. 

Papa Francesco. Mons. Bruno Forte: "Parla un linguaggio che capiamo"

(Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto) «Francesco, va’ e ripara la mia casa»: le parole che il Crocifisso di San Damiano rivolge a Francesco ispirano la splendida coreografia che apre la veglia dei giovani (intorno ai tre milioni) che partecipano alla Giornata mondiale della gioventù a Rio de Janeiro intorno al Papa che del santo di Assisi ha scelto il nome.
Un gruppo di ragazzi e ragazze, dalle capacità veramente acrobatiche, monta una struttura in legno a forma di cappella, per smontarla poi con altrettanta rapidità alla fine delle testimonianze che accompagnano la scena. Papa Francesco parte da quest’immagine: «Il giovane Francesco risponde con prontezza e generosità a questa chiamata del Signore: riparare la sua casa. Ma quale casa? Piano piano, si rende conto che non si trattava di fare il muratore e riparare un edificio fatto di pietre, ma di dare il suo contributo per la vita della Chiesa; si trattava di mettersi a servizio della Chiesa, amandola e lavorando perché in essa si riflettesse sempre più il Volto di Cristo».
Si coglie bene in queste parole l’atteggiamento di fondo con cui il vescovo di Roma si è posto davanti all’immensa folla di giovani venuti per pregare con lui e per ascoltare nelle sue parole la parola di Gesù. Il Papa «venuto dalla fine del mondo» ha voluto coinvolgere questi ragazzi ciascuno in prima persona, invitandoli a essere protagonisti e non spettatori della nascita di un mondo nuovo, di una Chiesa sempre più giovane e bella. Li ha provocati con profondo amore, quasi sfidandoli a non delegare a nessuno la scelta su cui costruire la loro vita e la volontà di metterla al servizio di un’umanità più giusta, sana e felice, secondo il disegno di Dio. Ha ripetuto anche a Rio, con la stessa passione di sempre, il bellissimo appello: «Per favore, non lasciatevi rubare la speranza!». E i giovani lo hanno ascoltato rapiti. Perché?
Sono almeno tre ragioni per le quali Francesco riesce a toccare il cuore dei nostri ragazzi, «pupilla dei nostri occhi», come dice un’espressione brasiliana da lui ripresa, «la finestra attraverso la quale il futuro entra nel mondo». La prima è che li prende sul serio, li responsabilizza, facendo loro sentire quanto grande è il dono che Dio ha fatto a ciascuno regalandogli la sua libertà e di conseguenza la possibilità di fare scelte di amore e di fedeltà. Ogni ragazzo è prezioso agli occhi di Cristo. E qui la parola di Francesco si fa grido, supplica accorata e coinvolgente, come avviene a volte nelle lettere di San Paolo: «Per favore, lasciate che Cristo e la sua Parola entrino nella vostra vita, lasciate entrare la semente della Parola di Dio, lasciate che germogli, lasciate che cresca».
È dolcissimo questo porsi del successore di Pietro davanti ai giovani come uno che chiede, senza alcuna debolezza, con la forza di un’esigenza assoluta d’amore. Non esita a pungolarli sui loro possibili alibi. «A volte ascoltiamo il Signore, ma non cambia nulla nella nostra vita, perché ci lasciamo intontire da tanti richiami superficiali».
Il massimo dell’entusiasmo dei giovani arriva quando Papa Francesco parla a partire dalla sua esperienza di tifoso di calcio (il San Lorenzo non gli esce proprio dal cuore): «La maggior parte di voi ama lo sport. E qui in Brasile, come in altri Paesi, il calcio è passione nazionale. Sì o no? Ebbene, che cosa fa un giocatore quando è convocato a far parte di una squadra? Deve allenarsi, e allenarsi molto! (...) Gesù ci offre qualcosa di superiore alla Coppa del Mondo! Gesù ci offre la possibilità di una vita feconda, di una vita felice e ci offre anche un futuro con Lui che non avrà fine, nella vita eterna (...) Ma ci chiede che paghiamo l’entrata, e l’entrata è che noi ci alleniamo per essere in forma, per affrontare senza paura tutte le situazioni della vita, testimoniando la nostra fede».
In secondo luogo, Francesco appassiona i giovani perché mostra con l’eloquenza dei gesti, prima ancora che con le parole, quanto è importante servire Gesù nei poveri, facendo noi stessi scelte di povertà, di sobrietà di vita: l’uso di una semplice utilitaria per muoversi, la visita alla grande favela di Rio Varginha, dove vivono circa trecentomila persone in condizioni di miseria estrema, hanno saputo parlare ai giovani più di tanti discorsi. La scena del vescovo di Roma che entra nella baracca di una povera anziana come se visitasse una reggia e una regina, smuove il cuore dei giovani e li spinge a volere una famiglia umana più solidale e fraterna, mentre provoca i grandi a comprendere — soprattutto nei centri di potere economico e politico — come sia perversa e alla fine implosiva la logica del massimo guadagno con il minimo rischio e al costo più basso. È quanto il Papa ha fatto capire a Lampedusa e ha rilanciato da Rio, chiedendo a tutti — nessuno escluso — di impegnarsi per gli altri, comprendendo l’urgenza indifferibile della solidarietà e della carità senza calcolo e misura.
Sorella povertà, eletta dal santo di Assisi come compagna fedele di tutte le sue scelte, chiede di essere presente tanto negli stili di vita, quanto nell’impegno a favore dei poveri. Questo, però, diventa veramente possibile, se la scelta è sostenuta da un continuo rapporto con Dio nella preghiera.
Infine, Papa Francesco ha toccato il cuore dei giovani perché ciò che fa corrisponde a ciò che si sforza di essere da tutta una vita, e fa sentire loro come è bello impegnarsi nella grande barca di Pietro, la Chiesa che il Signore ha affidato alla Sua guida suprema. Ho provato a chiedere ai ragazzi venuti dalla mia arcidiocesi che cosa li colpisse del Papa. Hanno risposto con totale spontaneità: parla un linguaggio che capiamo; è vero, essenziale, semplice; sa ascoltare le domande più profonde del nostro cuore, anzi riesce a farcele ascoltare; ci aiuta a capire quello che veramente conta; ci impegna; ci ama. Nessuno si è sottratto a dare una risposta, perché tutti si sono sentiti toccati in prima persona da quanto Francesco ha detto loro. Non ha nascosto i sacrifici da fare, evidenziando l’importanza di farli insieme: «Quando si suda la maglietta cercando di vivere da cristiani, sperimentiamo qualcosa di grande: non siamo mai soli, siamo parte di una famiglia di fratelli che percorrono lo stesso cammino, siamo parte della Chiesa».
Richiamando ancora la costruzione della Chiesa di assi di legno, spiega: «Questi ragazzi, queste ragazze non erano soli, ma insieme hanno fatto un cammino e hanno costruito la Chiesa, insieme hanno realizzato quello che ha fatto san Francesco; costruire, riparare la Chiesa. Vi domando: volete costruire la Chiesa? Vi decidete a farlo?». E aggiunge con sapienza di catecheta navigato: «E domani avrete dimenticato questo sì che avete detto?». Al «no» corale che segue, aggiunge: «Così mi piace! Siamo parte della Chiesa, anzi, diventiamo costruttori della Chiesa e protagonisti della storia. Ragazzi e ragazze, per favore: non mettetevi nella coda della storia. Siate protagonisti. Giocate in attacco! Calciate in avanti, costruite un mondo migliore, un mondo di fratelli, un mondo di giustizia, di amore, di pace, di fraternità, di solidarietà. Giocate in attacco sempre!».
Uno dei quotidiani popolari più diffusi in Brasile — ricorrendo all’assonanza con papamóvil («papamobile») — titola a caratteri cubitali in prima pagina: Papamável («il Papa amabile»). Un Papa — dice un commentatore televisivo — «umile e simpatico». È il Papa del Vangelo, della Buona Novella annunciata ai poveri, come ha fatto Gesù. È il Papa della misericordia e della tenerezza, ma anche della denuncia accorata degli egoismi collettivi e delle dimenticanze colpevoli. Risveglia le coscienze addormentate. Cattura i cuori con la sua spontaneità e trasparenza. Porta i giovani a Cristo, per dare alla vita il solo senso che conti: la carità, l’amore più grande. È Papa Francesco, il Papa dei giovani, venuto dalla fine del mondo per dare inizio con loro a un mondo nuovo e migliore.
L'Osservatore Romano

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(Cristian Martini Grimaldi) Quando nel 2001 dopo il tracollo finanziario ci fu la grande protesta per le strade di Buenos Aires, la gente, soprattutto i giovani, uscì di casa con pentole e stoviglie e cominciò a percuoterle: era il cacerolazo, una protesta pacifica ma rumorosa. Bergoglio, poco tempo dopo, disse che finalmente la piazza non era più un semplice luogo di passaggio, ma era diventata lo spazio comune da cui partire per cercare altre cose comuni. Bergoglio si era schierato con la protesta e con i giovani.
«O Globo» pochi giorni fa ha intervistato il Pontefice in Brasile e, tra le altre cose, gli ha domandato un parere sulle proteste degli indignados per le strade di Rio. Anche in questo caso il Papa ha ribadito che lui è dalla parte dei giovani. Ha detto che non gli piacciono i giovani che non protestano, perché non hanno l’illusione dell’utopia e l’utopia non è sempre un male, anzi è un modo per guardare avanti. Non è un caso che un poema che Bergoglio citava spesso da cardinale era Martín Fierro. Martín Fierro è il gaucho che si batte contro il sistema corrotto. Dunque, un idealista, un visionario, nel senso di uomo dotato di visione, non un pazzo. Diventerà un fuorilegge perché vive in uno Stato ingiusto. E lo stato ingiusto, che impone solo doveri ai gauchos senza concedere loro alcun diritto, trasforma l’uomo virtuoso, retto, in un nemico del sistema.
Ai giovani del Brasile il Papa ha ribadito il concetto: fatevi sentire! Fate chiasso! (espero lío letteralmente), ha detto con un’espressione mediaticamente pungente, avvertendo però che bisogna dar loro l’esempio, e guidarli perché non siano manipolati.
La manipolazione dei giovani è certamente un infelice corollario di questo modello economico, un modello inchiodato su una flessibilità cronica dei contratti di ingresso nel mondo del lavoro. I giovani non possono accettare passivamente questa condizione, soprattutto perché non hanno colpa se si ritrovano a vivere questo dramma generazionale della precarietà, una condizione che logora ogni speranza.
Le colpe di tutto ciò sono certamente imputabili ai padri e mai come in questa epoca sono i figli a scontare gli errori commessi da chi li ha preceduti, spesso in nome di falsi idoli: l’arricchimento facile, l’affermazione personale. Inoltre, ha aggiunto il Papa nell’intervista, «un padre e una madre che non seguono i giovani gli creano tristezza nell’anima. Invece devono dar loro sicurezza, difendendoli dalle manipolazioni di tipo sociologico e ideologico». Dunque è la famiglia che per prima deve farsi carico di arginare i condizionamenti di questa tragica deriva culturale.
Infine è tornato sulla critica alle storture del modello economico attuale: curiosamente, ha notato, vengono scartati proprio coloro che sono la promessa per il futuro. Tutto questo vuol dire che il sistema è «corrotto», la sostenibilità di questo modello di sviluppo regge solo in un’ottica di breve periodo: mettere da parte gli elementi di rinnovamento della società significa destinarsi all’autodistruzione. Insomma, conclude Papa Francesco, quello che manca è un’etica comune che metta al centro la persona e non più quello che dall’individuo può essere ricavato: il prodotto della sola forza lavoro. Un’economia «predatoria» forgiata su un’utilitarismo speculativo non può essere l’unica soluzione condivisa alla gestione del bene comune, come invece una certa filosofia finanziaria vorrebbe lasciar credere. Qualunque pianificazione della ripartizione del lavoro e della ricchezza è sempre dettata da una ragione etica di partenza, in questo caso uno spietato efficientismo: oggi ancor più esasperato in seguito all’accelerazione tecnologica («il dramma dell’umanesimo disumano che stiamo vivendo»). Efficientismo che nulla ha a che vedere con i valori chiave — equità, solidarietà — che sono la vera risorsa sociale a servizio di uno sviluppo umano integrale, il cui fine è appunto una società più giusta. Una società nella quale i giovani ritornino a essere, come è sempre stato nel passato e nella storia, i veri motori della crescita e dell’innovazione.
L'Osservatore Romano