martedì 9 luglio 2013

Il senso del sacro nel XXI secolo




Tra religiosità rinnovata e secolarizzazione.

(Mary Ann Glendon) Secondo un’opinione ampiamente diffusa tra gli intellettuali e gli opinion leader, la religione è un’importante fonte di conflitti e di intolleranza nel mondo; l’influenza politica della religione è quanto mai varia; a volte contribuisce al conflitto, ma sovente promuove la democrazia, la riconciliazione e la pace. (...)Gran parte del disaccordo circa il rapporto fra religione e violenza deriva da percezioni differenti della realtà, percezioni che informano il modo in cui le persone intendono la “religione”, le loro opinioni sul corretto rapporto fra religione e società ordinata secondo leggi civili, le idee che sostengono e le storie che raccontano riguardo alla natura umana, alla ragione, all’individualità e al governo di uno Stato. Nel dopoguerra, la mentalità degli intellettuali e degli opinion leader del mondo occidentale era dominata dalla fede nell’inesorabile avanzata della secolarizzazione, e tale approccio era condiviso anche dalle élite di altre aree del mondo che avevano studiato in Occidente. Il celebre sociologo Peter Berger si fece portavoce di molti quando nel 1968 dichiarò al «New York Times» che «entro il XXI secolo quanti credono nella religione probabilmente si troveranno solo in piccole sette, stretti gli uni agli altri per resistere a una cultura secolare di portata mondiale». Ma negli ultimi anni del XX secolo abbiamo assistito non solo a un costante aumento della popolazione mondiale che aderisce al cristianesimo, all’islam e all’induismo, ma anche all’influenza della religione sulla politica in tutti i continenti. (...)
Allo stesso modo, però, sarebbe sbagliato supporre che la chiave di lettura della secolarizzazione abbia perso potere per il semplice fatto che la religione non si è progressivamente indebolita sino a venire meno nei tempi previsti. Tanto per cominciare, i fatti difficilmente sono sufficienti a sradicare le convinzioni che ci stanno a cuore. E ancora: la convinzione che la religione sia una fonte primaria di conflitti è profondamente radicata nella classe degli intellettuali. Inoltre, la pratica religiosa e il contesto culturale e religioso sono mutati così tanto negli ultimi anni che, paradossalmente, ci ritroviamo in un mondo in cui un gruppo di stimati analisti è in grado di sostenere a ragion veduta che viviamo in un’epoca di «rinascente religione» (ancora Berger), mentre altri, con pari diritto, definiscono la nostra «un’epoca secolare» (Charles Taylor).
Queste posizioni non sono così incompatibili come sembrerebbe di primo acchito. Chi sostiene che viviamo in un’«epoca secolare» evidenzia principalmente gli sviluppi del mondo occidentale, e in particolar modo l’aumento dei non credenti, di coloro che sostengono di essere “spirituali ma laici”, di coloro che si definiscono religiosi ma dichiarano di non essere affiliati a nessuna religione organizzata e di coloro che si considerano appartenenti a una religione ma adottano un approccio selettivo nei confronti degli insegnamenti della loro Chiesa. Gli studiosi secondo i quali viviamo in un’epoca di rinascente religione non basano le loro affermazioni su una presunta maggiore diffusione di una fede di tipo religioso; essi si riferiscono, piuttosto, a un’influenza politica sempre più grande della religione in tutto il mondo.
In breve, il panorama spirituale contemporaneo sembra caratterizzarsi sia per l’aumento di un’attività religiosa politicamente motivata, sia per la propensione dei credenti, perlomeno in occidente, verso una religiosità più privata, individualizzata, a spese della formazione e dello spirito di associazione proposti dalla religione organizzata.
L’ascesa di un islam militante, insieme all’assertiva presenza politica della religione in alcune democrazie liberali, ha stimolato la produzione di una nuova stridente letteratura caratterizzata da una forte ostilità nei confronti della religione. In una serie di libri di successo Richard Dawkins, Daniel Dennett, Sam Harris e il defunto Christopher Hitchens (spesso denominati i “nuovi atei”) hanno rispolverato e rinnovato le trite e ritrite argomentazioni secondo cui la scienza rende obsoleta la religione e la religione è un’importante fonte di conflitti. Gli scritti di questi autori sono caratterizzati dal vigoroso sostegno dell’ateismo come sistema di fede superiore, dall’esasperazione davanti alla persistenza della fede e dell’influenza religiosa e dallo zelo missionario di far scattare l’allarme riguardo agli effetti negativi della religione nella società moderna. La tesi principale che sostengono è che la scienza ha screditato l’esistenza di qualsiasi tipo di Dio o di potere superiore.
I nuovi atei rifiutano anche l’approccio del “vivi e lascia vivere” che molti non credenti meno militanti hanno adottato nei confronti della religione. Secondo loro, i presunti vantaggi della religione non sono maggiori di quelli della moralità e dell’etica radicati nel secolarismo, mentre gli effetti negativi della religione sono reali e sostanziali.
Vale la pena notare che l’attuale rinascita del vecchio secolarismo di impostazione conservatrice o, come lo definisce Pierre Manent, di «questo ateismo pedante, questo puritanesimo dell’empietà» avviene proprio nel mondo occidentale cristiano che ama la pace. Tuttavia, contemporaneamente, è emerso in occidente un altro tipo di non credente che assiste con preoccupazione all’avanzata del secolarismo, e in particolare del secolarismo anticristiano, che considera una minaccia per le principali conquiste politiche della modernità. Fra questi “ateisti malinconici” figurano alcuni degli studiosi più stimati del mondo contemporaneo.
In anni recenti, un pensatore di spicco quale Jürgen Habermas (come anche un filosofo come Marcello Pera) ha espresso grande preoccupazione nei confronti dei costi politici e sociali in cui si incorre quando ci si dimentica di un’eredità culturale nella quale la religione, la libertà e la legge sono inestricabilmente intrecciate.
Ritenuto un’eminenza grigia della sinistra europea, Habermas ha sbalordito molti suoi seguaci quando, sull’importanza dell’eredità giudeocristiana, ha affermato: «Questa eredità [l’etica giudaica della giustizia e l’etica cristiana dell’amore], sostanzialmente immutata, è stata oggetto di una continua appropriazione e reinterpretazione critica. Oggigiorno, non ci sono alternative al riguardo. E alla luce delle attuali sfide poste da una costellazione postnazionale, continuiamo ad attingere alla sostanza di tale eredità. Tutto il resto sono solo inutili chiacchiere postmoderne» (Tempo di passaggi).
Con questo, si arriva a condividere la posizione di Alexis de Tocqueville, secondo cui una società libera dipende profondamente da una sana cultura morale alimentata dalla religione (che egli individuava nel cristianesimo). Nell’introduzione a La democrazia in America, Tocqueville spronava i colleghi eredi dell’illuminismo francese a mettere da parte i loro pregiudizi nei confronti della religione. A suo parere, chi ama la libertà dovrebbe «affrettarsi a chiamare la religione in suo aiuto», in quanto deve sapere che il regno della libertà non può essere fondato senza quello dei costumi, né i costumi possono essere fondati senza credere in qualcosa.
Il filosofo canadese Charles Taylor ha dichiarato in un corposo libro del 2007 (L’età secolare) che ormai, quantomeno in occidente, viviamo in un’«epoca secolare», anche se non nel senso auspicato dai “nuovi atei”. In realtà, secondo Taylor, «con il tempo la chiave di lettura della secolarizzazione, che tende ad attribuire al nostro passato religioso la colpa di molti mali del mondo, diventerà meno plausibile. Ciò accadrà in parte perché risulterà chiaro che le altre società non fanno altrettanto e, dunque, che questa chiave di lettura non riguarda il genere umano a livello universale; in parte, perché molte piaghe di cui si presumeva che la “religione” fosse responsabile non stanno scomparendo».
Malgrado ciò, Taylor ritiene che viviamo in un’epoca di secolarismo. Egli riconosce, per forza di cose, che se si include un’ampia gamma di convinzioni spirituali nella propria definizione, la religione è presente come non mai. Nonostante questo, a suo parere ciò che rende secolare la nostra epoca è il “cambiamento titanico” nel contesto sociale in cui si vive la religione: gli spazi pubblici nelle democrazie liberali sono stati ampiamente svuotati da ogni riferimento religioso; abbiamo assistito al declino della pratica religiosa, se non della fede; e (cosa per lui più significativa di tutte) in molte zone del mondo si è passati «da una società in cui la fede in Dio è indiscussa e di fatto non problematica, a una in cui la si considera una delle tante opzioni possibili».
Taylor, del resto, non sembra condividere le inquietudini dei “non credenti malinconici” circa gli effetti corrosivi che si possono manifestare su una società nel suo insieme quando un numero elevato di individui decide di abbbandonare i “codici dei genitori”. Egli non manca di osservare che la formazione religiosa ne ha sofferto. Ciononostante, non sembra considerare tale perdita un problema serio da affrontare. Taylor si limita a commentare che «il contatto sempre più debole di molti con i linguaggi tradizionali della fede sembra presagire a un futuro di declino». Il tono generale di L’età secolare è di rassegnazione.
Già quando era cardinale, Ratzinger aveva sviluppato una contrapposizione fra “laicità positiva” intesa come atteggiamento di neutralità che apre ambiti di libertà per gli individui di qualsiasi credo, e “secolarismo negativo” che «si impone attraverso la politica e non lascia spazi pubblici alla visione cattolica e cristiana, che in tal modo rischia di diventare una cosa meramente privata ed essenzialmente mutilata». Diventato papa, ha promosso attivamente la sua visione della “laicità positiva”. Nel 2008, in un discorso tenuto ai politici francesi nella culla stessa del secolarismo antireligioso, ha commentato: «In questo momento storico in cui le culture si incrociano tra loro sempre di più, sono profondamente convinto che una nuova riflessione sul vero significato e sull’importanza della laicità è divenuta necessaria. È infatti fondamentale, da una parte, insistere sulla distinzione tra l’ambito politico e quello religioso al fine di tutelare sia la libertà religiosa dei cittadini sia la responsabilità dello Stato verso di essi e, dall’altra parte, prendere una più chiara coscienza della funzione insostituibile della religione per la formazione delle coscienze e del contributo che essa può apportare, insieme ad altre istanze, alla creazione di un consenso etico di fondo nella società».
Il pensiero di Benedetto XVI circa il secolarismo converge in numerosi punti con quello di non credenti come Habermas. (...) Già nel 1968, nella sua Introduzione al cristianesimo, Ratzinger aveva adottato un approccio nuovo nei confronti dei non credenti dalla mentalità aperta, evidenziando che potevano incontrarsi sullo stesso terreno del dubbio.
Ciascuna delle chiavi di lettura del secolarismo sin qui esaminate rappresenta lo sforzo di riuscire ad accettare il fatto che «passa la scena di questo mondo». La nostra epoca non è sufficientemente secolare per gli atei conservatori che insistono nel considerare la religione la causa praticamente di tutti i mali; mentre, di contro, è diventata troppo secolare per i non credenti malinconici che temono che le basi stesse della democrazia liberale vengano erose. Per teisti come Charles Taylor e Benedetto XVI, i recenti cambiamenti del panorama religioso pongono nuove sfide alla religione, ma, cosa interessante, Ratzinger è più vicino ai “non credenti malinconici” nella sua percezione che le modifiche dello scenario religioso pongono sfide anche alla pace, erodendo la coesione sociale, le grandi conquiste della cultura occidentale (i diritti umani, la dignità della persona, il principio della legalità) e il senso di un’unica famiglia umana nei cui confronti hanno tutti una responsabilità comune.
Chi afferma che la religione è una delle fonti principali di conflitti e violenze, da parte sua, preferisce soffermarsi sulle guerre di religione del passato e sulla diffusione dell’islam jihadista cui assistiamo ai giorni nostri. Ciononostante, si accumulano le prove che sovente la retorica religiosa associata a simili conflitti ha più a che vedere con questioni di identità individuale o di gruppo, che non con differenze teologiche.
Secondo uno studio sui conflitti avvenuti fra il 1989 e il 2003 condotto dall’università di Uppsala, la religione è stata raramente un fattore primario o esclusivo nei conflitti in cui era implicata. Come ha osservato Jacques Maritain molto tempo fa, «per la debolezza umana non c’è nulla di più facile che mescolare la religione con i pregiudizi razziali, di famiglia, o di classe, l’odio collettivo, le passioni di un clan e i fantasmi politici che bilanciano i rigori della disciplina individuale in un’anima pia, ma non purificata a sufficienza».
L'Osservatore Romano