giovedì 4 luglio 2013

La trappola dell’indifferenza



Un invito per chi lavora nel mondo degli affari. 

(Michael Naughton) Il recente documento del Pontificio Consiglio per la Giustizia e per la Pace intitolato La vocazione del leader d’impresa affronta le sfide morali e spirituali relative alla vita economica. Non condanna l’economia, ma la ricolloca entro una cornice religiosa che consenta di vivere nel mondo moderno secondo una prospettiva di fede.
Il documento può essere un’utile strada per un dialogo interreligioso sul modo in cui gli imprenditori possano vivere con maggior fede “nel” mondo senza diventare “del” mondo. Imprenditori musulmani e cristiani possono interpellarsi a vicenda per testimoniare una più profonda integrazione tra fede e lavoro, capace di andare oltre gli standard abituali dell’etica economica e della responsabilità sociale d’impresa. Il documento è stato oggi tradotto in dieci lingue, compreso l’arabo.
Al centro del documento vi è la convinzione che l’imprenditore è chiamato non solo a “fare” affari, ma a “essere” un tipo particolare di dirigente d’impresa. Le azioni degli imprenditori sono significative perché imprimono un carattere particolare sia in chi le compie che nelle comunità in cui questi agisce.
Troppo spesso guardiamo all’impresa economica in termini di azioni slegate tra loro, ma gli occhi della fede vedono l’impresa da una prospettiva olistica e ultimamente eterna. L’impresa, come ogni lavoro, deve confrontarsi con ciò che Giovanni Paolo II chiamava la «dimensione soggettiva» del lavoro (Laborem exercens, 6). Il lavoro cambia non solo il mondo esterno, ma il soggetto, cuore, anima e mente. Le azioni compiute nel lavoro, così come nella vita, sono i primi indicatori del nostro destino, ci trasferiscono in un luogo dalle implicazioni eterne. Tali implicazioni vengono rivelate dalla legge del dono, cioè dal fatto che «diventiamo eternamente ciò a cui ci dedichiamo». Purtroppo negli affari ci svendiamo per troppo poco, per un po’ di fama, successo, benessere, guadagno, status.
Una delle principali sfide che investono la natura stessa della vita nella società moderna è “un’ideologia della scelta” nella forma del consumismo. Alla radice del consumismo vi è un impulso relativistico in cui la scelta stessa è il valore più elevato, precisato soltanto dalla postilla che ingenuamente afferma “purché non leda la scelta altrui”.
Per il consumismo non è importante il contenuto della scelta, ma la preferenza personale di individui isolati rispetto a scelte discrete indifferenti a qualsiasi progetto di vita. Nella mentalità consumista la moralità è relegata al gusto o all’opinione, come se si trattasse di scegliere tra uno yogurt alla vaniglia e uno alla fragola.
Alla prospettiva consumistica della scelta è sottesa una considerazione problematica della “libertà dell’indifferenza” che sostituisce la “libertà per l’eccellenza”. La libertà dell’indifferenza, esaminata da Servais Pinckaers, è un esercizio d’interesse personale e affermazione di sé slegato, o indifferente, alla natura, agli altri, a Dio. La libertà è definita in termini di libertà dalla nostra natura, dagli altri, dalle istituzioni. È una comprensione negativa della libertà. Pinckaers oppone tale visione dell’indifferenza alla “libertà per l’eccellenza”, radicata nella natura e nelle nostre inclinazioni naturali per ciò che è vero e buono. Qui la libertà è “per” qualcosa di positivo. A cogliere queste due visioni contrastanti della libertà è David Herbert Lawrence, il romanziere e poeta inglese: «Gli uomini sono meno liberi di quanto credono; sì, molto meno liberi. I più liberi sono forse i meno liberi. Gli uomini sono liberi quando sono in una patria vivente, non quando si allontanano e scappano. Gli uomini sono liberi quando obbediscono a qualche profonda voce interiore di convinzione religiosa (libertà per l’eccellenza). Obbediscono dall’interno. Non quando fuggono in qualche selvaggio Occidente. Le anime meno libere vanno a Occidente, e gridano di libertà. Il grido è uno sferragliare di catene, e lo è sempre stato. Gli uomini non sono liberi quando fanno semplicemente ciò che amano (libertà dell’indifferenza). Nel momento in cui fai solo quello che ti piace non c’è nulla che ti interessi fare. Gli uomini sono liberi solo quando fanno ciò che piace all’io più profondo. Ma bisogna arrivarci all’io più profondo. Occorre immergersi».
Per seguire la propria vocazione «occorre immergersi». I due maggiori successi cinematografici di quest’anno sono stati Lo Hobbit e I miserabili; parlano entrambi di persone che rispondono a una chiamata che allo stesso tempo li supera ma è loro necessaria. Quando le persone si prendono il tempo di arrivare a “ciò che piace all’io più profondo”, ciò per cui sono state create, capiscono che Dio ha cura di loro, delle loro famiglie, del loro lavoro e delle loro vite. Il documento La vocazione del leader d’impresa considera l’economia non solo in termini di un minimalismo legalistico — non imbrogliare, non mentire, non ingannare — ma come una vocazione che offre «un contributo senza pari al benessere materiale e persino spirituale dell’umanità» (n. 2). Non esiste legge o formula per questo. Si tratta di una vita ricca di significato che nelle decisioni quotidiane della vita ordinaria apre l’imprenditore alla volontà di Dio e non solo alla sua volontà o alla volontà dell’impresa. Nelle Confessioni, Agostino scrive «la casa della mia anima è troppo angusta perché tu possa entrarvi: dilatala tu». Quando viviamo secondo la nostra volontà, viviamo molto spesso con una visione talmente ristretta del nostro lavoro da impedire a Dio di entrarvi. Consideriamo gli affari come una questione di profitto, di tecnica, di quote di mercato o successo personale. Anche se importanti per l’impresa, questa qualità sono semplicemente troppo poco per lo spirito umano.
Ciò che nel consumismo e nella sua visione della scelta e della libertà genera più corruzione è il fatto di oscurare la più profonda realtà vocazionale delle nostre vite: prima di tutto noi siamo stati scelti. Il sociologo ebreo Philip Rieff, nel suo libro The Triumph of the Therapeutic, descrive lo sconcerto piscologico che ci coglie quando siamo lasciati soli con le nostre scelte. «Non c’è una sensazione più disperata di quella di essere lasciati liberi di scegliere, ma senza la specifica pulsione interiore che deriva dall’essere stati scelti. Dopo tutto, non si sceglie veramente, si è scelti. È un modo di enunciare la differenza tra dei e uomini. Gli dei scelgono; gli uomini sono scelti. Ciò che gli uomini perdono quando diventano liberi come dei è proprio il senso di essere scelti, che li spinge, nella gratitudine, a fare le loro scelte seriamente».
Senza un senso profondo dell’essere chiamati, le complesse difficoltà legate alla natura concorrenziale dell’impresa eroderanno il senso dell’azione umana di un imprenditore, riducendola a una funzione tecnica e a una formula finanziaria.
Troppo spesso nella nostra cultura individualistica e sempre più tecnologica i dirigenti d’impresa pensano di poter essere buoni da soli, e che la competenza tecnica e finanziaria, insieme all’obbligazione contrattuale e ai vincoli giuridici, possano rendere l’impresa sufficientemente buona. La “vocazione” sfida questa visione binaria del mercato e del diritto. Senza il profondo senso dell’essere scelti che proviene da una cultura morale e religiosa, recidiamo la radice spirituale della Grazia di Dio che ci sostiene e rinnova in questo modo caduto.
Se il diritto e il mercato svolgono un ruolo importante nella vita economica, senza un legame spirituale e religioso sono come fiori recisi, attraggono per un po’, ma non hanno un radicamento trascendente che li sostenga e impedisca a una mentalità utilitaristica e a una razionalità strumentale di prevalere negli affari.
L'Osservatore Romano