domenica 14 luglio 2013

La zattera della religione nel naufragio delle ideologie


Di seguito l'editoriale firmato da monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, pubblicato sull'edizione di domenica 14 luglio del quotidiano Il Sole 24 Ore (pp. 1 e 13).
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È stato Hans Blumenberg a scegliere la metafora del naufragio come strumento interpretativo dell’epoca moderna e della sua crisi (Naufragio con spettatore, Il Mulino, 1985). Perdute le certezze che il positivismo e le ideologie avevano offerto, siamo diventati tutti dei naufraghi, spettatori al tempo stesso del nostro naufragio. Sta qui la differenza fra la crisi del 1929 e l’attuale: allora il mondo delle certezze ideologiche si presentava come la possibilità alternativa alla crisi, una terra ferma da cui guardare l’altrui naufragio.
Oggi, dopo la fine delle ideologie e il crollo del sistema dei blocchi contrapposti, non è più così. La sola possibilità di salvezza sta nel farsi una zattera con i resti della nave naufragata. Proprio così, l’immagine del Pensatore tedesco si schiude sull’orizzonte di un’attesa, che richiama l’affacciarsi di un bisogno collettivo di senso, di etica e di spiritualità. La risposta a questo bisogno è, però, tutt’altro che univoca nel “villaggio globale”: l’immagine del mare mobile, incostante, richiama anzi un’altra metafora, non meno importante per capire dove siamo, quella della liquidità.
A servirsene con singolare flessibilità è il sociologo britannico, di origini ebraico-polacche, Zygmunt Bauman. Nel nostro tempo - egli afferma - “modelli e configurazioni non sono più ‘dati’, e tanto meno ‘assiomatici’; ce ne sono semplicemente troppi, in contrasto tra loro e in contraddizione dei rispettivi comandamenti, cosicché ciascuno di essi è stato spogliato di buona parte dei propri poteri di coercizione… Sarebbe incauto negare, o finanche minimizzare, il profondo mutamento che l’avvento della modernità fluida ha introdotto nella condizione umana” (Modernità liquida, Laterza, 2002, XIII). Mancando punti di riferimento certi, tutto appare giustificabile in rapporto all’onda del momento.
Gli stessi parametri etici che il “grande Codice” della Bibbia aveva affidato all’umanità, sembrano diluiti, poco reperibili ed evidenti. Si parla di “relativismo”, di “nichilismo”, di “pensiero debole”, di “ontologia del declino”. Mancando un sogno che accomuni tutti, l’individuo annega nella folla delle solitudini, incapaci di comunicare fra loro, e l’ambizione dell’emancipazione cede il posto alla rinuncia al senso del vivere. Questo volto fluido della post-modernità si manifesta in particolare nella volatilità delle sicurezze promesse dall’“economia virtuale” della finanza internazionale, sempre più separata dall’economia reale. Crollata la maschera del massimo vantaggio al minimo rischio, restano le macerie di una situazione fluida su tutti i livelli. Trovare punti di riferimento, indicare linee-guida affidabili è la sfida titanica per governanti e amministratori. Anche l’economia rivela un bisogno urgente di etica.
Nei segnali d’attesa, che vanno profilandosi nella vasta crisi del senso, non mi sembra infondato vedere una sfida e una promessa rivolte alle diverse credenze religiose. Anche le religioni vengono convocate al capezzale dell’“homo oeconomicus”. A loro volta, sfidati dal contesto della globalizzazione, i mondi religiosi avvertono un bisogno nuovo di incontrarsi, di lavorare insieme. Samuel P. Huntington individua la sfida dell’immediato futuro nel volto conflittuale di questo incontro (Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, 1997): dopo le guerre fra le nazioni tipiche del XIX secolo e quelle fra le ideologie proprie del XX secolo, il XXI secolo sarà caratterizzato a suo avviso dal conflitto delle civiltà, identificate con i mondi religiosi che le ispirano. Ciò che occorre verificare, allora, è se e in che misura le religioni potranno giocare un ruolo in vista del superamento del conflitto e per la costruzione di un nuovo ordine internazionale.
Al centro di questa verifica si pongono in particolare il Cristianesimo e l’Islam, non solo per il loro rapporto rispettivamente alla cultura dell’Occidente e a quella dei Paesi arabi, ma anche per la minaccia costituita dall’alleanza fra alcuni ambiti antioccidentali e alcune espressioni integraliste che pretendono di fondarsi sulla fede islamica. Non meno importante per la causa della pace è il ruolo che al suo servizio potranno svolgere l’Ebraismo e le grandi religioni dell’Asia. La sfida è fra due modelli: lo “scontro” o l’“alleanza” delle civiltà e delle religioni. Certo, l’incontro non potrà avvenire per semplice giustapposizione. Alternativa alla barbarie dello scontro totale appare la possibilità del “meticciato”: la confluenza di identità molteplici, dovuta ai flussi migratori in atto, è non meno legata al ravvicinarsi delle lontananze grazie alla comunicazione della rete. È l’esperienza, inedita per i più, dell’incontro fra identità diversissime, fino al configurarsi di identità plurali, nomadi, al tempo stesso assertive e flessibili, meticce.
Il succedersi degli eventi - dal fatidico 1989 all’11 Settembre 2001 e a quel che ne è seguito - mostra il volto drammatico di questa sfida. S’impone una scelta di fondo, a partire dalla consapevolezza che il meticciato è stato sempre presente nella storia dei popoli e delle culture. L’illusione di una purezza dell’identità o della razza è pura follia. Se una cultura è viva e vitale, essa è anche in grado di avviare un processo di mutuo scambio e di reciproca comprensione con l’identità altrui, che venga ad abitarla. Anche a questo ci ha richiamato il viaggio-segno di Papa Francesco a Lampedusa. Certamente, quest’“assemblaggio” non è facile né esente da rischi: ciò che risulta decisivo è che fra persone e culture si riconosca un codice di valori comuni, capace di fondare relazioni di reciproco rispetto, di riconoscimento dell’altro e di dialogo. A quali fonti potrà attingere un simile codice? Su quale rotta potrà procedere la barca assemblata sui mari del grande villaggio? Si profila l’urgenza di un orizzonte etico, che sia riconoscibile da tutti. Ed è qui che la rivelazione biblica mi sembra offra una possibilità decisiva, una sorgente di senso per indicare la rotta.
Nella prospettiva dell’alleanza d’amore promossa dall’iniziativa divina agli abitatori del tempo, essa riconosce la centralità della persona umana davanti al mistero divino come riferimento fondante. Oltre il naufragio, sulle onde della modernità liquida, la barca va costruita insieme, consentendo tutti a regole comuni, certe e affidabili, radicate nella dignità dell’essere personale, nelle esigenze dell’imperativo morale, per navigare insieme sul vasto mare da percorrere verso il porto - intravisto nella speranza e mai pienamente posseduto nella realtà - della pace universale e della giustizia per tutti.
L’idea dell’assoluta singolarità dell’essere personale di fronte al Dio personale - contributo decisivo della rivelazione biblica alle culture dell’umanità - è il baluardo contro ogni possibile manipolazione dell’essere umano, la sorgente di ogni riconoscimento della sua dignità. Sta qui la riserva di senso e di speranza che la proposta della fede biblica ha da offrire alla storia, la ragione profonda della fecondità della presenza dell’identità cristiana nel pluralismo delle opzioni e nel meticciato delle identità.
[L’Autore anticipa qui alcuni contenuti della relazione che terrà il prossimo 19 Luglio al Congresso Mondiale delle Università Cattoliche a Belo Horizonte in Brasile, sul tema: “Fede e crisi di senso”]

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LA BELLA RIVOLUZIONE DI FRANCESCO

 La Chiesa Cattolica vive una stagione di svolte epocali. La rinuncia al papato di Benedetto XVI, a febbraio, è stato un gesto storico di enorme portata, che ha messo in evidenza la drammaticità dei tempi.
L’arrivo poi, sulla Cattedra di Pietro, il 13 marzo, di papa Francesco è, fin dalla scelta del nome, l’inizio di una “rivoluzione” evangelica che già commuove i popoli (lo vedremo anche in Brasile col prossimo viaggio).
Di sicuro cambierà il Vaticano come lo conosciamo da alcuni secoli: da “corte rinascimentale” (per dirla con papa Bergoglio) diventerà la casa del Re umile e crocifisso, che abbraccia – come il colonnato del Bernini – tutte le miserie del mondo.
L’altro ieri un amico ed ex alunno del papa, lo scrittore e giornalista argentino Jorge Milia, ha riferito i suoi colloqui telefonici col pontefice. E ha dato flash illuminanti.
Ha sottolineato anzitutto “la riconoscenza e la tenerezza” che Francesco ha per il suo predecessore: “a me fa un po’ l’effetto di uno che ha ritrovato un vecchio amico”.
“Non ti immagini l’umiltà e la saggezza di quest’uomo” gli ha detto papa Francesco parlando di Benedetto XVI.
“Allora tienilo vicino”, gli ha risposto lo scrittore. E il papa: “non ci penso nemmeno a rinunciare al consiglio di una persona del genere, sarebbe sciocco da parte mia!”.
Poi Jorge Milia ha parlato della gran quantità di gente che accorre in piazza San Pietro per sentire le sue parole e abbracciarlo. E Francesco: “Lo devono poter fare! E’ mio dovere ascoltarli, confortarli, pregare con loro, stringergli le mani perché sentano che non sono soli”.
Ma Francesco ha aggiunto che non è facile far capire questa necessità in Vaticano, dove sono abituati a un’immagine del papa come entità inaccessibile.
“Non è stato facile, Jorge, qui ci sono molti ‘padroni’ del Papa e con molta anzianità di servizio”, ha detto il Santo Padre. Ha fatto capire che ogni cambiamento è durissimo da far digerire. A cominciare dalla scelta di non andare ad abitare il mitico “Appartamento” papale.
Egli ha preso questa decisione perché molti papi lassù hanno finito col diventare “prigionieri” delle loro segreterie e non voleva che accadesse così anche a lui: “Sono io che decido chi vedere, non i miei segretari…”.
Jorge Milia aggiunge: “Mi ha detto che i Papi sono stati isolati per secoli e che questo non va bene, il posto del Pastore è con le sue pecore …”.
E’ un pensiero che il Pontefice ha espresso più volte. Può sembrare solo una sua personale propensione alla cordialità, all’affabilità, alla compassione, ma non è solo questo. E’ molto di più. E’ una rivoluzione nella concezione del papato. Almeno quella dell’ultimo millennio.
Certo, già i suoi predecessori, a partire da Paolo VI, hanno iniziato un progressivo smantellamento della pesantezza regale della Curia. Giovanni Paolo II preferiva stare per le strade del mondo, anziché in Vaticano.
E Benedetto XVI ha sparato fulmini contro “carrierismo, clericalismo, mondanità, divisioni, ambizioni di potere”, ha richiamato anche lui alla povertà evangelica e ha usato la bomba atomica contro “la sporcizia nella Chiesa”.
Ora c’è papa Francesco e ha cominciato a realizzare (pare in modo travolgente) tutto quello che il predecessore aveva chiesto mille volte. Ma ciò che si preannuncia non è solo un rinnovamento di persone (tipico di ogni pontificato) e un forte cambiamento delle strutture: è un radicale mutamento del modo stesso di fare il Papa.
Francesco cerca di riportare tutta la Chiesa all’essenziale, alle sue origini apostoliche, in una parola: a Gesù Cristo. Come fece san Francesco nel XII secolo.
Il giovane di Assisi era nella cadente chiesina di San Damiano, quando si sentì rivolgere dal Crocifisso queste parole: “Va Francesco, e ripara la mia casa che, come vedi, va in rovina”.
Lui le interpretò alla lettera e si mise a ricostruire materialmente quella cappellina. Ma la sua pronta sequela alle parole di Gesù riparò tanti cuori feriti e alla fine la Chiesa stessa come edificio spirituale.
Così è per il Papa che ha scelto il nome del santo di Assisi. Anche lui ricomincia dall’essenziale, l’annuncio di Gesù, consolazione e tenerezza di Dio per gli uomini e specialmente per i più poveri e sofferenti.
Le altre due parole chiave di questo pontificato sono la “misericordia” (“Dio perdona sempre, perdona tutto. Siamo noi che ci stanchiamo di farci perdonare”) e la “preghiera”  (ripete sempre: “E’ necessaria una preghiera forte, e questa preghiera umile e forte fa che Gesù possa fare il miracolo… Una preghiera coraggiosa, che lotta per arrivare a quel miracolo La preghiera fa miracoli, ma dobbiamo credere!”).
Non è che a papa Francesco sfugga l’enormità dell’attacco che il mondo, su tutti i fronti, sta portando alla Chiesa. Ma di che natura è questo attacco? Permangono le grandi persecuzioni ai cristiani in tutto il mondo islamico e sotto i regimi tirannici (dalla Cina al Vietnam, da Cuba ai diversi paesi africani).
E a questo, dopo il crollo del comunismo in Europa, venti anni fa, quando la Chiesa non serviva più come argine contro il marxismo, si è sommata l’ostilità anticristiana che dilaga dagli Usa di Clinton e di Obama, all’Europa della tecnocrazia.
Si attacca non solo la fede cristiana, ma anche le fondamenta della legge naturale: la famiglia, unione di uomo e donna, che è stata la base di tutte le civiltà, dall’antichità prima di Cristo ad oggi, è ormai radicalmente travolta e svuotata.
Dagli anni di Clinton (che videro anche il dirompente ingresso nel WTO della Cina) è stata proclamato nel mondo occidentale il nuovo “pensiero unico”: una totale “deregulation” sia degli scambi economico-finanziari che dei rapporti umani.
Nel primo caso – con l’esplosione della bolla finanziaria del 2008 – si è giunti sull’orlo della bancarotta planetaria. Nel secondo caso ad una svolta devastante nella storia della civiltà.
C’è stata pure la parentesi “conservatrice” di George Bush jr che, dopo l’11 settembre 2001, tendeva ad arruolare la religione cristiana in una sorta di “scontro di civiltà” e di religioni con l’Islam.
E la Chiesa di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI – che pure conoscevano le sofferenze dei cristiani sotto l’Islam – ha dovuto rifiutare quell’arruolamento, sia perché sarebbe stato empio mettere il sigillo di Cristo a dei conflitti che avevano lo scopo di garantire l’approvvigionamento energetico dell’Occidente. Sia perché a pagarne le conseguenze sarebbero state le minoranze cristiane nei paesi islamici (come in effetti è accaduto).
Adesso che la Chiesa è sotto un assedio perfetto – da una parte Usa ed Europa anticristiani – dall’altra i regimi persecutori in Asia, Africa e paesi musulmani, Papa Francesco esce da questa tenaglia storica – che minaccia la sopravvivenza stessa della Chiesa – con l’unica arma irresistibile con cui sempre la Chiesa ha sempre vinto nel corso dei secoli sulle persecuzioni: il Vangelo (o, come direbbe il Papa, “la grazia”).
E’ falso che il papa – come gli rimproverano i cattoconservatori e come desidererebbero i cattoprogressisti – abbia accantonato l’insegnamento dei predecessori sui “valori non negoziabili” (lo dimostra la sua prima enciclica “Lumen Fidei”).
Semplicemente papa Francesco sa che, al punto in cui siamo arrivati, non ha più senso che la Chiesa si sfianchi in una battaglia culturale o in un’azione politica per scongiurare, con mezzi umani, il crollo di una civiltà e le “invasioni barbariche”.
La Chiesa sa che solo la grazia Cristo le è indispensabile. Ecco perché oggi il Papa chiede la conversione (a cominciare dallo smantellamento della “curia rinascimentale”); la preghiera incessante che ottiene miracoli; lo stupore per Gesù che “bacia le sue piaghe” nei poveri, nei malati e nei disperati; l’annuncio e l’esperienza della misericordia di Dio per gli uomini.
E’ così che duemila anni fa il cristianesimo ha conquistato pacificamente il mondo e lo ha ricostruito. E così accadrà di nuovo.

Antonio Socci

da “Libero”, 14 luglio 2013

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