lunedì 8 luglio 2013

Lampedusa in preghiera per l'arrivo del Papa. Appello del cardinale Vegliò per difendere la dignità dei profughi




E' tutto pronto a Lampedusa, per accogliere il Papa questa mattina. Il Pontefice pregherà per coloro che hanno perso la vita in mare, visiterà i superstiti e i profughi presenti sull’isola siciliana. Nella Messa celebrata nel campo sportivo abbraccerà ed incoraggerà anche tutti coloro che sono impegnati nell’accoglienza. 
Lampedusa aspetta con trepidazione l'arrivo di Papa Francesco. Illuminata da un caldo sole estivo, l’isola siciliana vive da sempre la contraddizione della sua bellezza e delle tragedie che si consumano a poche miglia dalle coste. Porta d’Europa e di speranza, approdo per chi fugge da guerre o persecuzioni, è meta mai raggiunta da molti: 20mila secondo gli ultimi dati hanno trovato sepoltura in queste acque. Il centinaio di migranti, attualmente sull’isola, aspettano l’arrivo del Papa: c’è curiosità, speranza e tanta gratitudine come conferma ai nostri microfoni Zaccaria, partito dalla Somalia e approdato proprio a Lampedusa:

“Senz’altro posso dire che è un momento storico. Una cosa veramente indispensabile, che fa vedere la situazione e cosa vuol dire l’accoglienza. La preghiera ha molto significato”.
Il successore di Pietro viene per pregare, rinnovare nella fede, per scuotere le coscienze dell’Italia, dell’Europa, del mondo intero. Gli isolani ieri sera, alle 21.00, si sono ritrovati nella parrocchia di San Gerlando per accompagnare il Papa con la preghiera. Sobrio ma densissimo il programma di oggi del Santo Padre. Toccante sarà il momento in cui deporrà in mare una corona di fiori, per i tanti che non hanno mai visto questo avamposto e riposano sotto le acque, che d’estate sono meta di turisti e vacanzieri. Papa Francesco sarà accompagnato dai pescatori, guardiani dell’orizzonte, vere e proprie ancore di salvezza per migliaia di persone. Poi abbraccerà chi varcando questa porta del Vecchio Continente conserva un fardello che non dimenticherà mai; quindi la Santa Messa nel campo sportivo e l’incontro riservato nella parrocchia di don Stefano Nastasi, testimone della carità insieme agli abitanti e tanti volontari; specchi di un dolore che non può rimane muto.

Dunque la visita del Papa dovrebbe smuovere l’attenzione di tutto il mondo. Massimiliano Menichetti ne ha palato con il cardinale Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti:

R. - Di fatto, Lampedusa è uno dei tanti punti di arrivo dei flussi migratori mondiali, e forse tra i minori dal punto di vista quantitativo. Oggi il mondo si trova a confronto con la dura realtà di oltre 100 milioni di sfollati in tutti i continenti. 100 milioni è una cifra enorme. In alcune regioni e in alcuni Paesi, vi sono milioni di persone che offrono ospitalità ad altri milioni di esseri umani, anche per molti anni. Penso, ad esempio, ai rifugiati afgani che si trovano in Pakistan o in Iran. In effetti, anche oggi sta accadendo una tragedia umana in molte aree del pianeta e quella più visibile si sta verificando in Medio Oriente, dove migliaia di siriani quotidianamente passano il confine per entrare nei Paesi vicini, con immagini drammatiche che vediamo riprese e trasmesse dai mass-media sui nostri teleschermi. Poi, vi sono ancora molte situazioni in cui uomini, donne e bambini vivono da anni in campi profughi, senza che si prospetti una soluzione in vista; persone più o meno dimenticate, come in alcune regioni dell’Africa. E sottolineo persone dimenticate. Mi auguro che la visita del Santo Padre a Lampedusa possa suscitare una rinnovata attenzione da parte di tutti, alla quale facciano seguito manifestazioni di concreta preoccupazione e di solidarietà per migliorare situazioni divenute disumane e inaccettabili.

D. - I media di tutto il pianeta parlano di questa visita. Ma cosa dovrebbe seguire concretamente a tale iniziativa, quando le telecamere abbandoneranno questo luogo di speranza e morte?

R. - È proprio quello che ho appena cercato di dire: una rinnovata preoccupazione nei confronti di milioni di persone costrette ad abbandonare le loro case; garantire i diritti che spettano ai perseguitati; impegnarsi perché tutti possano vivere con dignità. Ricordo che qualche anno fa - io ero appena arrivato qui come presidente - uno dei miei collaboratori lanciò una forte sfida ad un politico, proponendogli - cito le parole esatte - di restare a vivere in un campo rifugiati per quindici giorni, condividendo le stesse condizioni di vita dei profughi, per poi avere una discussione su quello che si dovrebbe fare. Bisogna sperimentare, infatti, cosa vuol dire vivere in certe situazioni. Non potrei esprimerlo meglio che citando Papa Francesco che ha detto, quando ci ha ricevuti un mese fa al termine della Plenaria del dicastero: “Auspico che la Comunità internazionale si senta sempre più interpellata a porre al centro delle sue attenzioni la dignità e la centralità di ogni persona umana.[…] Oggi come non mai è urgente approntare nuovi approcci di diverso genere, nell’ambito civile, culturale e sociale, come pure nella dimensione pastorale, per far fronte alle sfide che emergono da forme moderne di persecuzione, di oppressione e, talvolta, anche di schiavitù”.

D. - Che vuol dire accogliere l’altro e come si favorisce questo incontro abbattendo i pregiudizi e le paure?

R. - Da sempre il cristianesimo si è qualificato per il suo atteggiamento sensibile e aperto verso i deboli e verso gli stranieri. Ci sono molti racconti storiografici nella Bibbia che sono legati ad incontri inaspettati con i forestieri. Leggendo le lettere di San Paolo, ad esempio, si vede che la comunità cristiana di Roma si era distinta nell’ospitalità. Soprattutto l’elemento dell’accoglienza rendeva i cristiani diversi dagli altri. Se qualcuno non aveva un posto dove ripararsi, sapeva di trovare buona accoglienza in quella comunità, dove volentieri amavano chiamarsi tra loro “fratelli” e “sorelle”. Da notare che questo trattamento non era riservato soltanto ai membri della comunità, ma veniva raccomandato a prescindere dalle caratteristiche individuali. Le comunità cristiane spendevano tempo, energie e risorse per onorare l’ospitalità. E questo suscitava ammirazione negli scrittori non cristiani che ne hanno lasciato testimonianza. Con il passar del tempo, questa pratica dell’ospitalità ha dato vita a innumerevoli opere di beneficenza: ospedali, case di cura, ospizi, foresterie… 

Alla base di tutto c’è la convinzione che siamo una sola famiglia umana, nel rispetto delle nostre legittime differenze. Infatti solo nel cristianesimo parliamo tra di noi di fratelli, sorelle e questa è una rivoluzione enorme. Per questo dobbiamo aver cura gli uni degli altri. Conoscere chi ci sta vicino è il miglior modo per cacciar via la paura. Papa Giovanni Paolo II - presto Santo - più volte ha detto: “Non abbiate paura”. Anche in questo caso, abbiamo bisogno di rimanere fedeli agli insegnamenti di Gesù, che ha vissuto sulla sua pelle il dramma del rifugiato quando è dovuto fuggire in Egitto per sottrarsi ad Erode che lo voleva uccidere.

D. - Papa Francesco ha ribadito più volte l’importanza di guardare, agire nelle periferie del mondo. Lampedusa può diventare un esempio di rinascita?

R. - Potrebbe davvero diventare un esempio di rinascita. La visita del Santo Padre conferma quello che le Chiese locali, gli Istituti religiosi e i laici cristiani impegnati stanno facendo in molti modi diversi e complementari. La nostra sollecitudine pastorale ci incoraggia a restare vicino a coloro che sono costretti a fuggire, sensibili e attenti alla loro situazione. Questo è molto esigente e avrà una particolare ripercussione su tutti noi, visto che saremo toccati sul vivo, soprattutto se lasciamo entrare questi nuovi poveri nella nostra vita, se non distogliamo gli occhi da questi nuovi schiavi dell’era moderna.

Voglio solo citare, come esempi tra tanti altri, il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, la Caritas, le Commissioni episcopali per la mobilità umana e la Commissione Cattolica Internazionale per le Migrazioni. Si tratta di organismi che vivono con i rifugiati e gli sfollati e cercano di assisterli, per migliorare le loro condizioni di vita. Ecco, la nostra stessa presenza in circostanze tanto difficili è un’autentica testimonianza di fede. Per loro la visita del Papa sarà come una forma di sostegno e di incoraggiamento per il lavoro che stanno facendo. Lo stesso vale per le persone che sono arrivate a Lampedusa e per la popolazione locale, che si prende cura di chi arriva con straordinari esempi di generosità e di altruismo. 

Per molti di noi, questa visita può diventare un nuovo appello a prendere in seria considerazione ciò che il messaggio di Gesù vuol dire sulla sofferenza nel mondo, intorno a noi. Come possiamo rispondere a questo appello con azioni concrete, affrontando anche le cause che stanno all’origine dei flussi migratori e proponendo soluzioni eque per creare situazioni di sicurezza, di stabilità, di coesione sociale e di responsabile integrazione?

D. - Quale il suo augurio per questo viaggio di Papa Francesco?

R. - Il 5 luglio ho visto il Santo Padre quando ha consacrato lo Stato della Città del Vaticano a San Giuseppe e a San Michele Arcangelo ed ha benedetto una statua dedicata a quest’ultimo. C’erano sia Papa Francesco sia il Papa emerito Benedetto. Spero che si realizzino le aspettative che il Santo Padre porta nel cuore e che gli hanno suggerito questo primo viaggio all’inizio del suo pontificato. Parlando con Papa Francesco ho detto che tutti erano rimasti contenti di questa sua decisione di andare a Lampedusa. È un segno forte. Mi auguro che la sua visita, quello che farà e quello che dirà sappiano sensibilizzare l’opinione pubblica sui motivi che costringono uomini, donne, anziani e bambini a fuggire, sollecitando maggiore comprensione e compassione nella società. Parlando con il Papa ho anche detto: “Santo Padre noi non possiamo risolvere tutti i problemi ma possiamo però creare una nuova mentalità più favorevole, più aperta a questi nostri fratelli che si trovano in condizioni molto più difficili delle nostre”. L’atteggiamento del Santo Padre nei confronti di coloro che soffrono, toccati dalla persecuzione o dalla miseria, ci ricorda che una società che vuol definirsi civile non può accettare che vi siano persone innocenti che sopravvivono in condizioni disumane, private di dignità, di presente e di futuro. Anche questo può essere fonte di ispirazione per una rinnovata attenzione umana, civile ed una rinnovata attenzione pastorale.

*



Lampedusa pronta all’abbraccio con Papa Francesco
 

“Papa Francesco ti vogliamo bene”, “benvenuto”, “pellegrino del mare”. Sono gli striscioni, i cartelloni che, insieme alle bandiere bianche e gialle, i Lampedusani hanno sistemato fino a questa mattina per le vie dove passerà il Papa. 

Per me significa essere finalmente considerati, considerati dal mondo e da tutti. Perché finora siamo stati "invisibili". Adesso finalmente ci hanno considerati come esseri umani, come cristiani e come parte anche dell’Italia e dell’Europa che finora non ci ha considerato assolutamente.
Il Papa prega vicino a voi vicino agli ultimi. Che effetto ti fa il Papa qui?

Per me è come se fosse uno di noi. Lo vedo uno di noi già da quando l’hanno eletto, ho avuto un’emozione ed una sensazione bellissima.
Per lei che cosa rappresenta la visita di questo Papa nell’isola?

Io sono una turista: per me la visita di Papa Francesco - a prescindere che sia una persona molto umile - già ci ha dato atto di tutte le cose che ha fatto, come si muove, la sua umiltà… Quindi, essere qui sull’isola per me vuol dire che ha privilegiato gli ultimi. Mi sento anch’io privilegiata da turista che amo quest’isola da 30 anni. Quindi, mi sento privilegiata. Essere qui nel momento che lui arriva per me è un’emozione grande. Sento di aver ricevuto un grande dono spirituale. 

Cosa porterà con lei di questa visita del Papa?

Io - a prescindere dell’amore che provo per lui sin dal momento in cui è stato eletto - porterò un’emozione ancora più forte e porterò un’esperienza di vita che trasmetterò a tutti quelli che mi stanno vicino. 

Sostegno morale…

E’ il primo Papa che viene su quest’isola. Che cosa significa?

Non so come spiegarlo. È troppo bello bello… ha deciso di cominciare dagli ultimi, dai confini dell’Europa. Vuole darci sicuramente un sostegno spirituale, vuole sicuramente essere di richiamo per quelli che sono stati cechi e sordi.

Se lei potesse dire una cosa al Papa cosa gli direbbe?

Grazie. È proprio una gioia immensa…
Porta d’Europa e di speranza, approdo per chi fugge da guerre o persecuzioni, Lampedusa oggi è ricca di speranza, ma sempre cosente delle tragedie che si consumano a largo delle sue coste. Ieri sera la preghiera degli isolani, nella Parrocchia di San Gerlando, ha segnato il cammino di sobrietà di questa prima uscita di Papa Francesco, la prima visita di un Pontefice all’isola. Densissimo il programma di oggi. Il Pontefice deporrà in mare una corona di fiori, per i tanti che sono morti senza vedere questo avamposto, 20mila secondo le stime le persone che riposano nel blu del Mediterraneo. Sarà accompagnato da 120 barche di pescatori, i guardiani di queste acque, vere e proprie ancore di salvezza per migliaia di migranti. Poi abbraccerà chi varcando questa porta del Vecchio Continente conserva un fardello che non dimenticherà mai; quindi la Santa Messa nel campo sportivo. Qui non solo il calice e il pastorale, ma anche l’ambone sono stati realizzati con i legni delle navi della speranza. Le loro carcasse giacciono a fianco “dell’Arena” e saranno ben visibili a Papa Francesco. Poi l’incontro con i volontari e don Stefano Nastasi, parroco di San Gerlando 

In realtà si tratta di un ambone realizzato con dei timoni di barca. Ho avuto questa idea fin dal primo momento, quando ci hanno comunicato che veniva Papa Francesco a Lampedusa e che ci dovevamo preparare per una celebrazione. Ho fatto questa scelta sottoponendola naturalmente a Roma - quindi a monsignor Marini - pensando a questo. Come ambone abbiamo scelto dei timoni, come altare una barca - che ora non è più in uso - di un vecchio pescatore lampedusano. L’ho già spiegato ma lo ripeto ben volentieri; si tratta di due parti della Messa: la parola ed il pane, da un lato Lampedusa e da un lato gli immigrati o i migranti, per dire come la liturgia della parola, la liturgia eucaristica vanno insieme per vivere la celebrazione, per vivere la Messa. Sono due parti: parola e pane, per indicare la vita quotidiana, la forza del cristiano perché noi attingiamo forza dalla parola e dal pane eucaristico. Queste realtà messe insieme nella simbologia dell’ambone e dell’altare nel “mare della vita”. Dentro il mio cuore c’è una comunità che ha agito, che ha sofferto e che ora condivide una gioia. Per noi è vicinanza forte, profonda, ma è anche un segno per la nostra diocesi di Agrigento, per questa terra, per questo cuore del Mediterraneo e direi per il mondo intero perché noi siamo realmente una periferia geografica, noi sperimentiamo la periferia esistenziale. Il primo viaggio del Papa che parte da qui dice tutto già con la sua stessa presenza. 

Il successore di Pietro viene per pregare, rinnovare nella fede, per scuotere le coscienze dell’Italia, dell’Europa, del mondo intero affinché nessuno mai chiuda gli occhi davanti all’umanità bisognosa.


E proprio in questi minuti è sbarcato un barcone di migranti al porto di Lampedusa, a bordo ci sarebbero circa 160 persone provenienti dall’Africa Sub sahariana. Tutti hanno una storia di difficoltà e sofferenza per il lungo viaggio compiuto. Massimiliano Menichetti ha raccolto la testimonianza di Awas, partito dalla Somalia e approdato proprio a Lampedusa nel 2008: 

R. – Sono partito dalla Somalia e sono arrivato a Lampedusa. E’ stato un viaggio lungo, in cui ho rischiato la vita, ma alla fine ce l’ho fatta.

D. – Mi puoi descrivere, come si è svolto il viaggio?

R. – Non conoscevo la strada, quindi ho pagato i trafficanti, quelli che dovrebbero aiutarti e dirti come arrivare, ma che spesso, però, non ti danno le giuste informazioni. Mi hanno portato in Libia dal Sudan. Tra il Sudan e la Libia, però, c’è un deserto e lì ho rischiato la vita.

D. – Quanto sei rimasto in quella fascia di deserto?

R. – 24 giorni. Ci hanno dato da bere ed anche da mangiare per quattro giorni, dicendoci che saremmo arrivati in Libia in quattro giorni. Ma non è stato così: è finito tutto dopo 24 giorni.

D. – Tutti sono sopravvissuti?

R. – No, no... Eravamo undici ragazzi somali e nove sono morti. Siamo rimasti in due! Eravamo 150 persone di Paesi diversi. La maggior parte di loro è morta.

D. – Poi siete partiti dalle coste della Libia verso Lampedusa?

R. – La barca era a Tripoli. Si trattava di una barca di circa 4 metri per 45 persone: bambini, donne, anziani...

D. – Il viaggio è stato difficile anche nella barca o è stato più semplice?

R. – Grazie a Dio è stato facile, ma non sapevamo che lo fosse. I trafficanti che abbiamo pagato ci hanno detto di guidare noi la barca.

D. – Senza sapere come si faceva?

R. – Senza sapere come arrivare a Lampedusa e dove fosse Lampedusa. Essendo sera, ci hanno detto: “Dovete guardare quella stella”. Abbiamo chiesto quanto sarebbe durato il nostro viaggio e ci hanno risposto: “Venti, ventidue ore”. “Ma in ventidue ore non è sempre sera, c’è il giorno, e la stella non rimane lì per noi!” E loro: “Dovete andare sempre dritti per Lampedusa”. E noi ci siamo chiesti: “Siamo pronti a morire o a sopravvivere?”

D. – Perché l’Italia?

R. – Perché credevamo che l’Italia rispettasse i diritti umani, i diritti di asilo, anche di asilo politico.

D. – E’ stato così?

R. – Sì, ci ha dato i documenti, ma non abbiamo mai avuto tutto il resto.

D. – Come ti trovavi a Lampedusa?

R. – Nei dieci giorni passati a Lampedusa ero molto, molto contento. I carabinieri, i militari, la polizia, le persone che sono lì ti trattano bene: ti tanno medicine, ti controllano, ti danno da mangiare, un letto, tutto. Era tutto bellissimo. Io ero contento e ringraziavo Dio, perché quello era ciò che mi aspettavo, per quello avevo rischiato la vita e volevo vivere così. Mi dicevo: “La vita è migliore così: con una persona che pensa a te, che ti vuole aiutare, che ti dà la mano, ti stringe”. Ma una volta che sono uscito da Lampedusa è finito tutto: le persone che mi volevano bene sono rimaste nell’isola.

D. – E poi che cosa è successo?

R. – Arrivato a Lampedusa ci sono rimasto per dieci giorni, ho chiesto asilo e mi hanno portato a Roma. Ricordo che era l’agosto del 2008. Sono andato in un centro di accoglienza e, appena ho ottenuto i documenti, mi hanno detto: “Roma è grande! L’Italia è grande!”. E quella è stata davvero - non so come dire - una delusione.

D. – Il Papa va a Lampedusa e deporrà una corona di fiori in mare. Cosa pensi di questo gesto?

R. – Penso che sia importante ricordare le persone che sono morte in mare. Ha pensato bene di ricordare agli italiani che ci sono persone che vogliono venire in Italia e muoiono durante il viaggio. E’ una cosa importante e sono contento che l’abbia pensato.

D. – Se tu potessi, cosa gli chiederesti?

R. – Al Papa… chiedo di aiutare i poveri. Io sono un povero, ma non sono solo. Non lo chiedo per me, non dimentichi i poveri. Ho sentito che lui aiuta sempre i poveri. Non ho una richiesta specifica, speciale.

D. – Cosa pensi di fare nella tua vita?

R. – Sto pensando di migliorare la mia vita, grazie alle mie amiche suore, che mi aiutano sempre. Anche se lo Stato italiano mi ha dimenticato – tutti noi rifugiati siamo per strada – cerco di cambiare: studio e per fortuna ho trovato anche un lavoro part-time. Sto pensando, insomma, di riavere quello che ho perso.

D. – Perché sei venuto via dalla Somalia?

R. – Perché il gruppo al Shabab, che fa parte di Al Qaeda, voleva uccidermi.

D. – Perché?

R. – Perché avevo un negozio dove vendevo dvd e cd e per loro era vietato. Mi hanno detto, quindi, di chiudere il negozio. Io però ho detto: “Non posso chiuderlo, perché questo è il mio lavoro”. E allora loro hanno risposto: “Ti uccidiamo, perché vai contro le nostre regole e non puoi stare qui con noi”. Sono scappato.

D. – Hai lasciato quindi tutta la tua famiglia, tutti i tuoi amici, tutti...

R. – Ho perso tutto: amici, amore, famiglia, tutto.

D. – Potevi chiudere e fare un’altra cosa, eppure hai scelto un percorso molto pericoloso, cioè quello di partire per l’Italia...

R. – Se fossi rimasto in Somalia, non avrei potuto chiudere il negozio, perché era l’unico lavoro. Ma soprattutto non sapevo che il viaggio per arrivare in Italia sarebbe stato così difficile e rischioso. Se l’avessi saputo, sarei rimasto in Africa, in un altro Paese. Non sapevo che la vita in Italia sarebbe stata così difficile.

D. – Molti dicono: “Andiamo in Italia, andiamo in Europa, in Germania, in Francia”, pensando che sia facile. C’è un po’ questo pensiero?

R. – Nel nostro Paese, in Africa, pensiamo che in Europa ci siano tante cose. La parola “Europa” per noi è qualcosa di grande. “Se andiamo in Europa troviamo tutto: troviamo lavoro e così via” Invece no: è un sogno.

D. – Ma non c’è nessuno di voi che vi avverte?

R. – Sì, ma non ci crediamo. Per esempio, io se oggi chiamo mio fratello e gli dico: “Fratello, si rischia la vita, è meglio che tu vada in un altro Paese!”. Lui risponde: “Ma anche tu ci vivi!Che ci fai lì? Se lì non c’è niente, perché stai lì? Vieni tu qui!”

D. – Perché non torni allora?

R. – Se torno, rischio di nuovo la vita. Qui non c’è sistema, ma non rischio la vita.

D. – Che cosa diresti alle persone del tuo Paese, sapendo che vorrebbero venire in Italia?

R. – Direi che quello del venire in Italia è un sogno. “Levatevelo dalla testa, perché in Italia, e non solo in Italia, in Europa, non c’è niente”. Direi loro di cercare un’altra vita in un altro Paese, dove poter vivere, finché nel nostro Paese non ci sia la pace. Quando nel nostro Paese ci sarà la pace, tutti noi torneremo. La Somalia, infatti, è nel nostro cuore.

Papa Francesco ha ribadito più volte l’importanza di guardare, agire nelle periferie del mondo. Lampedusa può diventare un esempio di rinascita? Massimiliano Menichetti ha girato la domanda al cardinale Antonio Maria Vegliò.
R. - Potrebbe davvero diventare un esempio di rinascita. La visita del Santo Padre conferma quello che le Chiese locali, gli Istituti religiosi e i laici cristiani impegnati stanno facendo in molti modi diversi e complementari. La nostra sollecitudine pastorale ci incoraggia a restare vicino a coloro che sono costretti a fuggire, sensibili e attenti alla loro situazione. Questo è molto esigente e avrà una particolare ripercussione su tutti noi, visto che saremo toccati sul vivo, soprattutto se lasciamo entrare questi nuovi poveri nella nostra vita, se non distogliamo gli occhi da questi nuovi schiavi dell’era moderna.

Voglio solo citare, come esempi tra tanti altri, il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, la Caritas, le Commissioni episcopali per la mobilità umana e la Commissione Cattolica Internazionale per le Migrazioni. Si tratta di organismi che vivono con i rifugiati e gli sfollati e cercano di assisterli, per migliorare le loro condizioni di vita. Ecco, la nostra stessa presenza in circostanze tanto difficili è un’autentica testimonianza di fede. Per loro la visita del Papa sarà come una forma di sostegno e di incoraggiamento per il lavoro che stanno facendo. Lo stesso vale per le persone che sono arrivate a Lampedusa e per la popolazione locale, che si prende cura di chi arriva con straordinari esempi di generosità e di altruismo. 

Per molti di noi, questa visita può diventare un nuovo appello a prendere in seria considerazione ciò che il messaggio di Gesù vuol dire sulla sofferenza nel mondo, intorno a noi. Come possiamo rispondere a questo appello con azioni concrete, affrontando anche le cause che stanno all’origine dei flussi migratori e proponendo soluzioni eque per creare situazioni di sicurezza, di stabilità, di coesione sociale e di responsabile integrazione?

D. - Quale il suo augurio per questo viaggio di Papa Francesco?

R. - Il 5 luglio ho visto il Santo Padre quando ha consacrato lo Stato della Città del Vaticano a San Giuseppe e a San Michele Arcangelo ed ha benedetto una statua dedicata a quest’ultimo. C’erano sia Papa Francesco sia il Papa emerito Benedetto. Spero che si realizzino le aspettative che il Santo Padre porta nel cuore e che gli hanno suggerito questo primo viaggio all’inizio del suo pontificato. Parlando con Papa Francesco ho detto che tutti erano rimasti contenti di questa sua decisione di andare a Lampedusa. È un segno forte. Mi auguro che la sua visita, quello che farà e quello che dirà sappiano sensibilizzare l’opinione pubblica sui motivi che costringono uomini, donne, anziani e bambini a fuggire, sollecitando maggiore comprensione e compassione nella società. Parlando con il Papa ho anche detto: “Santo Padre noi non possiamo risolvere tutti i problemi ma possiamo però creare una nuova mentalità più favorevole, più aperta a questi nostri fratelli che si trovano in condizioni molto più difficili delle nostre”. L’atteggiamento del Santo Padre nei confronti di coloro che soffrono, toccati dalla persecuzione o dalla miseria, ci ricorda che una società che vuol definirsi civile non può accettare che vi siano persone innocenti che sopravvivono in condizioni disumane, private di dignità, di presente e di futuro. Anche questo può essere fonte di ispirazione per una rinnovata attenzione umana, civile ed una rinnovata attenzione pastorale.
 Radio Vaticana