venerdì 5 luglio 2013

Papa Francesco e i migranti


Papa Francesco e i migranti: "Non si amano i concetti. Non si amano le parole. Si amano le persone. Tutti abbiamo un debito d'amore e chi tace è complice"

(Luis Badilla) Papa Francesco, come vescovo ausiliare e poi come arcivescovo e cardinale di Buenos Aires, è stato sempre molto vicino alla grande questione delle migrazioni e soprattutto ai migranti. Ha avuto sempre particolare attenzione per la pastorale per i migranti, affidata per suo volere ai padri Scalabriniani presso la parrocchia "Nuestra Señora Madre de los Emigrantes", sede del Dipartimento per le Migrazioni dell'arcidiocesi. Ogni anno, in occasione del "Giorno del Migrante" (in un Paese fatto da migranti), presiedeva la Messa dedicate a queste persone e le sue omelie testimoniano non solo la vicinanza al problema ma anche, in particolare, la sua preparazione e conoscenza della dimensione squisitamente umana del fenomeno. 
Ricordando le sofferenze di questi fratelli spesso costretti a migrare e a subire ogni tipo di violenza, il cardinale Bergoglio in una sua omelia esclamò: "Non si amano i concetti. Non si amano le parole. Si amano le persone". Ancora si ricorda la Lettera pastorale del 2003 intitolata: "Buenos Aires, chiesa dei mille volti", anche perché fra questi volti c'è il suo e quelli dei suoi. Infatti, Jorge Mario Bergoglio Sívori è figlio di migranti italiani: Mario Bergoglio, il padre, e Regina María Sívori, la madre.
Amare è un debito. 
Fra le molte omelie e altri scritti del cardinale Bergoglio sui migranti vogliamo proporre alcune sue riflessioni contenute in quella del 7 settembre 2008 presso il "Santuario Nuestra Señora de los Emigrantes". Il cardinale Bergoglio, in questa sua allocuzione a braccio (sbobinata dopo come quasi tutte le sue omelie)  prende spunto da una lettera di Paolo: "Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge" (Rom 13, 8). Paolo, sottolinea con queste parole - ricorda il cardinale Bergoglio - "che tutti noi abbiamo un debito nei confronti degli altri: amare. E amare non è uno sport. Non è soltanto una virtù che possiedono alcuni e altri no. Amare non è solo un modo di comportarsi. Amare è un debito; è un debito esistenziale, un debito della medesima esistenza umana".
"Chi non ama, proseguiva l'arcivescovo di Buenos Aires, non onora questo debito. Chi non ha un cuore aperto al fratello, di qualsiasi razza o nazione che sia, non adempie al suo dovere e la sua vita sarà alla fine come una cambiale non onorata. E' triste finire la propria vita senza aver onorato il debito esistenziale che abbiamo nei confronti degli altri. L'amore è concreto. Non si amano i concetti. Non si amano le parole. Si amano le persone".
L'amore è anche un compito. 
"Se l'amore è concreto", sottolineava il cardinale Bergoglio, "ciò vuol dire che è un compito che dobbiamo svolgere in favore di una persona; un lavoro che mi spinge ad avvicinarmi a questa persona, ad aprire il mio cuore all'altro. (...) E' un lavoro reciproco di ideali, di punti di vista, di condivisioni del cammino". (...) "Amare l'altro", aggiungeva il cardinale di Buenos Aires, "significa rispettarlo (...) e il rispetto è la caratteristica più profonda della dignità di ogni persona". 
Mio papà, un migrante. 
"Oggi, per esempio, Giornata del Migrante, fermiamo il nostro sguardo su coloro che non sono nati in queste terre!  Che sono arrivati qui ... come il papà e la mamma di alcuni tra quelli presenti in questo momento, come mio papà. Una sorpresa! Sono arrivati fra noi per molte ragioni: per bisgono di lavoro, per questioni legate a persecuzione ideologica. Sono tante le persone che sono venute qui. Oggi ci dobbiamo chiedere: come onoriamo il debito che abbiamo con loro? Mi riferisco al debito di amore".
Il cristiano è una sentinella.
"Nella prima lettura di oggi, Ezechiele dice: "O figlio dell'uomo, io ti ho costituito sentinella" (Ez 33, 7 – 9). Siamo dunque tutti sentinelle", ricordava l'arcivescovo di Buenos Aires e poi aggiungeva: "Come sentinelle dobbiamo lanciare l'allarme se c'è un pericolo" soprattutto se "c'è un pericolo per la vita (...) Attenzione, che nessuno ci tolga la vita; attenzione alle situazioni xenofobe tra noi (...) A volte sembra che nessuno odia i migranti, ma c'è una xenofobia subdola. Mi riferisco a quella che si chiede nei confronti dei migranti: ma, come posso usarli ?, come posso approfittare di questa o di quello che non ha documenti?, che è entrato illegalmente, che non conosce l'idioma, o forse è anche minorenne o non ha nessuno che lo protegga".
Quando penso a tutto ciò piango.
Il cardinale Bergoglio si dichiara convinto che questo tipo di "xenofobia subdola o sottile" esista nella capitale argentina. A Buenos Aires, ricorda, "si sfruttano i migranti, in particolare i più giovani (...) Ci sono ragazzi e ragazze vittime della tratta delle persone, o schiavi (...) costretti a trasportare droga e usati nella prostituzione". (...) "Vi devo confessare, e perdonatemi, che quando penso a queste realtà, quando medito su tutto questo, piango. Piango per la mia impotenza. Mi domando: cosa succede al mio popolo che una volta aveva le braccia aperte per accogliere tanti migranti o ora invece nasconde nel suo grembo delinquenti che sfruttano esseri umani e traffico con le persone? Cosa succede al mio popolo? Ecco perché dico e vi dico: oggi più che mai abbiamo bisogno di sentinelle!"
Chi tace è complice.
Il cardinale Jorge Mario Bergoglio così ha conluso quest'omelia di cinque anni fa: "A volte, con il nostro silenzio siamo dei complici ed è così anche quando non facciamo nulla o non protestiamo, siamo apatici (...). In questa Messa noi tutti diremo "sì" ai giovani migranti. apriremo il nostro cuore e le nostre mani. Ricordiamoci sempre che esistono sfruttatori espliciti e sfruttatori impliciti. Coloro che tacciono e guardano dall'altra parte sono sfruttatori impliciti. Dobbiamo ricordare che tutti siamo migranti poiché nessuno di noi resta qui per sempre. Sarebbe molto triste se il giorno in cui dovremmo far vedere il nostro passaporto ci dicessero: ma Lei non ha onorato il debito della sua esistenza. Lei è un debitore: non è stato un uomo o una donna perbene. Non ha onorato il debito dell'amore ... Lei ha taciuto".
Card. Jorge Mario Bergoglio SJ, arcivescovo di Buenos Aires
Buenos Aires, 07 settembre 2008


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Papa Francesco inaugura oggi una statua di San Michele Arcangelo, protettore della Chiesa Universale, patrono dello Stato della Città del Vaticano



Oggi alle ore 8.45 il Santo Padre Francesco inaugura la statua di San Michele Arcangelo, protettore della Chiesa Universale, patrono dello Stato della Città del Vaticano. La scultura, collocata in un’area dei Giardini Vaticani in prossimità del Palazzo del Governatorato, è un’opera monumentale commissionata dal Presidente Emerito del Governatorato, S. Em. Card. Giovanni Lajolo, per celebrare l’Arcangelo Michele, principale difensore della fede e custode universale della Chiesa. Ne è l’autore l’artista Giuseppe Antonio Lomuscio, vincitore del Concorso Internazionale, indetto dallo stesso Governatorato dello Stato Vaticano, secondo il giudizio autorevole di una Commissione di esperti presieduta dal Direttore dei Musei Vaticani, Prof. Antonio Paolucci.
Il monumento si configura in un gruppo scultoreo realizzato in bronzo per fusione a cera persa. Il basamento in travertino romano, anch’esso ideato dall’artista, è caratterizzato dalla presenza di due bassorilievi in bronzo. L’altezza complessiva del monumento supera i 5 metri di altezza.
L’angelo di Castello scende nei giardini
(Antonio Paolucci - Osservatore Romano) C’è un angelo nel cielo di Roma. Sta in cima al Castello che porta il suo nome, sovrasta un ponte abitato dagli angeli, da sempre domina la città distesa ai suoi piedi. È compassionevole e misericordioso il celeste custode di Castello. Infatti gli scultori che gli hanno dato immagine (prima in pieno Cinquecento Raffaello da Montelupo, poi nella redazione attuale in bronzo del 1753 Pietro Vershaffelt) lo hanno rappresentato in atto di rinfoderare la spada. Dietro questa iconografia c’è una antica leggenda romana nella quale si parla di una pestilenza che spopolava l’Urbe e di un Papa, Gregorio Magno, che ebbe una visione. Vide l’Arcangelo Michele riporre la spada nel fodero. Questo significava che si estingueva la morte nera, che Dio aveva deciso di levare la sua mano dalla città peccatrice.
Da allora l’Angelo di Castello è il palladium Urbis, protegge la città che il Tevere — biondo in estate, colore di acciaio e di giada in inverno e in primavera — fa scivolare ogni giorno ai suoi piedi. Di lassù l’Angelo dialoga con le nuvole e con le cupole, la musica della città gli arriva in un brusio sommesso, assieme agli stridi dei rondoni e allo strepitio dei gabbiani.
Ora l’Arcangelo di Castello è sceso nei Giardini Vaticani, ci è arrivato sotto forma di una bella scultura monumentale in bronzo patinato di verde, opera di Giuseppe Antonio Lomuscio. L’iconografia però è radicalmente cambiata. L’Arcangelo che i Giardini Vaticani ospiteranno a far data da questo mese di luglio e che viene inaugurato il giorno 5 non è il Compassionevole. È, al contrario, il Combattente, il condottiero delle milizie celesti, quello che si confronta con Satana, lo abbatte e lo precipita nell’inferno. La scultura di Lomuscio rappresenta il momento finale del cosmico duello con il Diavolo travolto dal divino Guerriero il quale esibisce, a mo’ di emblema, la frase vittoriosa e fatale del Quis ut Deus.
La scultura nata per iniziativa del cardinale Giovanni Lajolo, l’ho vista nascere prima nei disegni e nei bozzetti, poi nel modello messo a punto nel laboratorio dello scultore, infine nella fusione e nella patinatura realizzata nella Fonderia Artistica Guastini a Gambellara di Vicenza.
Lo scultore del San Michele dei Giardini Vaticani, vincitore di un concorso che ha visto a confronto diversi maestri, è pugliese. Il suo atelier è a Trani, non lontano dalla celebre cattedrale. La cosa, penso, non è senza significato perché Trani, come tutta la Puglia, sta sotto l’ala protettiva di Michele l’Arcangelo. Il suo santuario in cima al Gargano, anche se oggi parzialmente oscurato da quello vicino di San Pio da Pietrelcina, ancora attira pellegrini e turisti.
Un tempo era la sosta obbligata per chiunque tentasse il pasagium ultramarinum, il viaggio ai Luoghi Santi. I crociati prima di salire sulle navi che da Manfredonia, da Bari, da Brindisi li avrebbero portati in Palestina e in Libano, i pellegrini che si preparavano al grande viaggio, si fermavano in preghiera nella grotta dell’Arcangelo. Fin qui arrivavano prima di partire per la guerra i duchi longobardi, gli strateghi bizantini, i conti franchi, i baroni tedeschi. Tutta la cristianità sapeva che là dove finisce l’Italia, in cima a una montagna alta sul mare come la prua di una nave gigantesca, c’era il tempio dell’Angelo Guerriero. I cristiani convenuti fin lassù da ogni parte d’Europa avevano la sensazione che quello fosse veramente il finis terrae. A est oltre il verde Adriatico schiumante contro le rocce del Gargano c’era il mondo infido dei Greci, a sud dove li avrebbero portati le navi ferme agli approdi pugliesi c’erano gli infedeli usurpatori dei luoghi santi.

D’ora in poi solo l’Arcangelo armato sarebbe stato scudo e guida nel viaggio. Così pensavano i pellegrini di tanti secoli fa. Più modestamente e meno pericolosamente, noi confidiamo che il San Michele ora ospite dei Giardini Vaticani sia di buon augurio per tutti quelli che lavorano nella città del Papa.