venerdì 19 luglio 2013

Pastori del popolo e non chierici di Stato.



Il 16 settembre il vescovo di Roma incontrerà il clero della sua diocesi.  Un testo di Papa Francesco

All’inizio del nuovo anno pastorale, il prossimo 16 settembre Papa Francesco, vescovo di Roma, incontrerà il clero della sua diocesi nella cattedrale di San Giovanni in Laterano. Ne ha dato annuncio il cardinale vicario Agostino Vallini che, in preparazione dell’appuntamento e su indicazione del Pontefice, ha consegnato ai sacerdoti un testo sulla identità e la missione del prete, scritto dal cardinale Bergoglio nel 2008 come riflessione sul Documento di Aparecida.
Riflessione di Papa Francesco
In una comunità di discepoli e missionari (203, 316, 324) Aparecida evidenzia ciò che è specifico (200-285) della spiritualità sacerdotale a favore della vita in Gesù Cristo per i nostri popoli (e per le loro sfide: la vita attaccata nella sua identità, nella sua cultura, nelle strutture, nei processi di formazione e nei vincoli cfr. 192-195; 197). Colpisce il particolare richiamo del Documento a tali sfide, che poi sviluppa ampiamente; ciò significa che la specificità del presbitero è “stare in tensione”. In altre parole, Aparecida rinuncia a una descrizione statica della specificità presbiterale. Ed è proprio l’esistenza “tesa” del sacerdote che esclude di fatto qualsiasi concezione del presbiterato come “carriera ecclesiastica”, con i suoi meccanismi di progresso, di scalata, di retribuzioni, e così via.
2. Con questo retroscena, Aparecida definisce l’identità del presbitero in relazione alla comunità, con due caratteristiche. In primo luogo come “dono” (193, 326) in contrapposizione a “delegato” o “rappresentante”. In secondo luogo, evidenzia la “fedeltà” alla chiamata del Maestro, contrapponendola alla “gestione” (372). L’iniziativa viene sempre da Dio: l’unzione dello Spirito Santo, la speciale unione con Cristo capo, l’invito all’imitazione del Maestro. Il fatto di mettere in risalto l’iniziativa divina colloca il presbitero nella dimensione di “eletto-inviato”, vale a dire dentro un orizzonte, passi pure la parola, “passivo”, nel quale il protagonista principale è il Signore. In questo senso, sono condizionate sia l’autonomia personale sia la propria attività, perché essendo “eletto-inviato”, l’identità del presbitero nelle attività svolte diventa quella di un “pastore guidato”, oppure, detto in modo più metaforico, quella di un “guidatore-guidato”.
3. È opportuno non dimenticare che “identità” dice “appartenenza”; si è nella misura in cui si appartiene. Il presbitero appartiene al Popolo di Dio, da esso è stato tratto, ad esso è inviato e di esso forma parte. Aparecida sottolinea questa appartenenza ecclesiale di tutti i discepoli missionari al n. 156, decisivo in questo senso: si parla di «con-vocazione» alla comunione nella Chiesa, e si afferma che «la fede in Gesù Cristo ci è pervenuta per mezzo della comunità ecclesiale, che ci dà una famiglia, la famiglia universale di Dio nella Chiesa Cattolica». Il documento segnala, inoltre, la situazione esistenziale di chi non entra in questa appartenenza di comunione: l’isolamento dell’io. La coscienza staccata dal percorso del Popolo di Dio è uno dei maggiori danni alla persona del presbitero, perché colpisce la sua identità in quanto diminuisce parzialmente o selettivamente la sua appartenenza a tale Popolo. Nel testo di Aparecida si potrebbero trovare esempi di situazioni di “coscienza isolata” che, nei fatti, negano l’affermazione di comunione del n. 156, dove invece si afferma che: «la dimensione costitutiva dell’evento cristiano è l’appartenenza a una comunità concreta, nella quale possiamo vivere un’esperienza permanente di discepolato e di comunione con i successori degli Apostoli e con il Papa». Si noti che dice «comunità concreta», cioè la Chiesa particolare o le comunità più delimitate all’interno della Chiesa particolare (ad esempio la parrocchia) e non una comunità “spiritualizzata” senza tradizioni o radici concrete. In definitiva, ciò che conferisce identità al presbitero è la sua appartenenza al Popolo di Dio concreto; e ciò che toglie o confonde la medesima identità è proprio l’isolamento della sua coscienza in relazione a tale popolo e la sua appartenenza a qualsiasi chiamata di tipo gnostico o astratto, vale a dire la tentazione di essere cristiano senza Chiesa. «Il ministero sacerdotale che sorge dall’Ordine Sacro ha una radicale forma comunitaria» (195).
4. Nel riferirsi al celibato anche il Documento di Aparecida pone la dimensione comunitaria alla base di tale scelta: «il celibato richiede di assumere con maturità la propria affettività e sessualità, vivendole con serenità e allegria in un cammino comunitario» (196, e cfr. 195).
5. Chi realizza questa comunione e, pertanto, l’appartenenza del presbitero al Popolo di Dio è lo Spirito Santo. È Lui che impregna e stimola ogni aspetto dell’esistenza, e allora penetra e configura pure la vocazione specifica di ognuno di noi. Si forma e si sviluppa così la spiritualità propria dei presbiteri, dei religiosi e delle religiose, dei padri di famiglia, degli impresari, dei catechisti, ecc. Ognuna delle vocazioni ha un modo concreto e distinto di vivere la spiritualità, che dà profondità ed entusiasmo all’esercizio dei propri doveri (285). In altre parole, lo Spirito Santo è l’autore delle diversità nella Chiesa, e la vita presbiterale è una delle realtà di questa varietà (...) tuttavia non si tratta di una varietà statica perché è lo stesso Spirito Santo che dà slancio e armonizza tutto: Lui non ci chiude «in una intimità comoda bensì ci converte in persone generose e creative; felici nell’annuncio e nel servizio missionario» (285). E l’azione dello Spirito Santo va ancora oltre: «ci fa coinvolgere con i richiami della realtà e ci fa capaci di dare un profondo significato a tutto ciò che dobbiamo fare per la Chiesa e per il mondo» (285). Riassumendo: la comunione ecclesiale della quale fa parte il presbitero si realizza per mezzo dello Spirito Santo che, da parte sua, crea le differenze e dall’altra le “vocaziona”, cioè le mette in movimento al servizio dell’annuncio missionario, le sensibilizza e le coinvolge con i richiami della realtà. Lo Spirito Santo distingue e armonizza: è in questa armonia che si realizza la vocazione presbiterale, l’identità presbiterale (armonia di differenze, ma armonia di comunione). Nulla a che vedere con la coscienza isolata dell’auto-appartenenza solitaria o di gruppi selettivi («l’intimità comoda» la chiama il Documento, 285). Lo Spirito Santo, inoltre, ci introduce nel Mistero (cfr.Giovanni, 16, 13) e dà impulso alla missione (Atti degli apostoli, 2, 1-36). In questo senso Egli protegge l’integrità della Chiesa e la salva da due deformazioni. Senza lo Spirito Santo corriamo il rischio di perdere l’orientamento nella comprensione della fede finendo in una proposta gnostica; e senza lo Spirito Santo corriamo il rischio di non essere “inviati” ma di “partire per conto nostro” e finire disorientati in mille modi di autoreferenzialità. Nell’introdurci nel Mistero, Egli ci salva da una Chiesa gnostica; nell’inviarci in missione ci salva da una Chiesa autoreferenziale. 
L’immagine del Buon Pastore
6. Parlando dell’identità del presbitero Aparecida evidenzia l’immagine del Buon Pastore. Riferendosi al parroco e ai sacerdoti che sono in servizio delle parrocchie il Documento chiede loro «atteggiamenti nuovi» (201). «La prima esigenza è che il parroco sia un autentico discepolo di Gesù Cristo, perché solo un sacerdote innamorato del Signore può rinnovare una parrocchia. Nel contempo, però, deve essere un ardente missionario che vive nel costante anelito di andare alla ricerca dei lontani e non si accontenta della semplice amministrazione» (201). Qui appare nuovamente l’antinomia dono-gestione: nel concepire il ministero come un dono viene superato l’atteggiamento del funzionalismo — “esitista” o meno che sia — e si comprende il lavoro apostolico, in questo caso la parrocchia, nell’ottica discepolo-missionario. 
7. Da quest’ultima affermazione prendo solo due aspetti: l’immagine del Buon Pastore ad intra richiede discepoli innamorati e ad extra missionari ardenti (201), servitori della vita (199). 
Discepoli innamorati: si sottolinea la fedeltà (all’interno di una vita spirituale incentrata nell’ascolto della Parola di Dio, nella celebrazione quotidiana dell’Eucaristia: «la mia messa è la mia vita e la mia vita è una messa prolungata» (sant’Alberto Hurtado, 191).
Per configurarsi a Cristo Maestro (199) è necessario assumere la centralità del comandamento dell’Amore (138). «Nella sequela di Gesù Cristo impariamo e pratichiamo le beatitudini del Regno, lo stile di vita dello stesso Gesù Cristo: il suo amore e obbedienza filiale al Padre, la sua profonda compassione davanti al dolore umano, la sua vicinanza ai poveri e ai piccoli, la sua fedeltà alla missione affidatagli, il suo amore servizievole fino al dono totale della vita» (139). Ricordo che la fedeltà sacerdotale è evidenziata pure nel Messaggio finale e nel Discorso del Papa alla fine della preghiera del Santo Rosario, punto 3, di Aparecida. 
Missionari ardenti (201) servitori della vita (199). È stato già ricordato nel n. 195: la pienezza della vita affettiva si esprime nella carità pastorale. Questo aspetto del missionario ardente comprende il nutrire le pecore per mezzo dell’Eucaristia (176-177), della Parola e della loro formazione. Al riguardo si noti che per Aparecida la formazione è concepita come accompagnamento dei discepoli (cfr. 6.2.24). Di questo argomento dovremo parlare più avanti. Oltre a nutrire le pecore si parla anche di curarle: la riconciliazione (177), la misericordia e la carità pastorale, con speciale attenzione alla la vita vulnerabile e violata; violenza e insicurezza (197).

Missionari ardenti
8. Continuando con questo aspetto (lo slancio missionario), vediamo come gli aggettivi usati nel Documento sono forti: «missionari ardenti» (199), «dono di sé appassionato alla missione pastorale» (195), «sacerdote innamorato del Signore» (2001). Evidentemente si vuole sottolineare qualcosa di più di un semplice buon lavoro di annuncio. C’è un impegno affettivo-esistenziale in questa missione, che porta a «custodire» il gregge a essi affidato (199). L’azione di custodire implica una dedizione faticosa e con tenerezza; come pure comprende una valutazione personale e della situazione del gregge: si custodisce ciò che è fragile, ciò che è prezioso, ciò che può essere in pericolo... E l’origine di questa custodia ardente e appassionata nasce e cresce nella medesima «coscienza di appartenere a Cristo» (145). Quando quest’ultima cresce «in ragione della gratitudine e della gioia che produce, cresce pure lo slancio di comunicare a tutti il dono di questo incontro. La missione non si limita ad un programma o ad un progetto, è piuttosto condividere l’esperienza dell’evento dell’incontro con Cristo, testimoniarlo e annunciarlo da persona a persona, da comunità a comunità e dalla Chiesa a tutti i continenti del mondo» (145).

9. Unitamente al tema del sacerdote ardente missionario Aparecida chiama alla «conversione pastorale», la quale «esige che si passi da una pastorale di sola conservazione ad una pastorale decisamente missionaria». Solo così sarà possibile che l’unico programma del Vangelo continui a entrare nella storia di ogni comunità ecclesiale con un nuovo ardore missionario, facendo sì che la Chiesa si manifesti come una madre che va incontro, una casa accogliente, una scuola permanente di comunione missionaria (370). Per ragioni di tempo non mi dilungo più sul tema della conversione pastorale, sebbene nel Documento di Aparecida abbia un’importanza capitale. È sufficiente ricordare qui che la conversione pastorale è intimamente unita all’ardore missionario, allo zelo apostolico. 
10. Tale ardore missionario è opera dello Spirito Santo; «si fonda sulla docilità all’impulso dello Spirito, alla sua potenza di vita che mobilita e trasfigura ogni dimensione dell’esistenza. Non è un’esperienza che si limita agli spazi privati della devozione, ma che cerca di penetrare tutto con il suo fuoco e con la sua vita. Il discepolo e missionario, mosso dall’impulso e dall’ardore che gli vengono dallo Spirito, impara ad esprimerlo (l’ardore missionario) nel lavoro, nel dialogo, nel servizio, nella missione quotidiana» (284). All’inizio dell’esortazione finale, il Documento di Aparecida torna a indicare il protagonismo missionario dello Spirito Santo: «Portiamo le nostre navi al largo con il soffio potente dello Spirito Santo, senza paura delle tormente, sicuri che la Divina Providenza ci sorprenderà grandemente» (551). 
11. Per concludere questo aspetto dell’ardore missionario voglio ora fare riferimento all’Esortazione finale (552). Richiama l’attenzione che, nella sua redazione, il Documento di Aparecida faccia un salto di trenta anni indietro verso uno dei più belli e vigorosi documenti del Magistero: l’Evangelii nuntiandi, e in particolare l’ultima frase: «Recuperiamo il valore e l’audacia apostolica». Nel citare l’Evangelii nuntiandi si evidenziano due cose: la descrizione del fervore spirituale come dolce e confortante gioia di evangelizzare, come impeto interiore che nessuno né nulla è in grado di estinguere, e, secondo, l’idiosincrasia dell’apostolo in senso negativo e in senso positivo: «non attraverso evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti o ansiosi, ma tramite ministri del Vangelo la cui vita irradia il fervore di coloro che hanno ricevuto, prima di tutto per se stessi, la gioia di Cristo e accettano di consacrare la loro vita al compito di annunciare il Regno di Dio e di impiantare la Chiesa nel mondo». La connotazione negativa nella personalità dell’apostolo riguarda ciò che all’inizio del numero 80 dell’Evangelii nuntiandilo stesso Paolo VI indicava come «ostacoli» all’evangelizzazione che perdurano nel nostro tempo: «La mancanza di fervore [è] tanto più grave perché nasce dal di dentro. Tale mancanza di fervore si manifesta nella stanchezza, nella delusione, nell’accomodamento, nel disinteresse, e soprattutto nella mancanza di gioia e di speranza». 

Servitori e colmi di misericordia
12. L’atteggiamento di servizio è una delle caratteristiche che Aparecida chiede ai sacerdoti. Esso nasce da una doppia dimensione: discepoli innamorati e missionari ardenti, e — in modo speciale — si sottolinea, per i più deboli e bisognosi. Quando Aparecida, nel n. 199, dice che il Popolo di Dio sente la necessità di presbiteri-discepoli configurati con il cuore del Buon Pastore e di presbiteri-missionari, sta a indicare il lavoro principale di questi presbiteri: «custodire il gregge a loro affidato e andare alla ricerca dei lontani»; che siano «presbiteri-servitori della vita: cioè, che siano attenti alle necessità dei più poveri, impegnati nell’ambito dei diritti dei più deboli e promotori della cultura della solidarietà; presbiteri pieni di misericordia, disponibili a celebrare il sacramento della riconciliazione».

13. Che l’opzione per i poveri sia “preferenziale” significa che «deve attraversare ogni nostra struttura e priorità pastorale» (396). Chiesa «compagna di strada dei nostri fratelli più poveri, persino fino al martirio» (396). Ci invita a «farci amici dei poveri» (257), a una «vicinanza che ci fa amici» (398), tenuto conto che oggi «difendiamo troppo i nostri spazi di privacy e godimento, e ci lasciamo contagiare facilmente dal consumo individualista. Perciò, la nostra opzione per i poveri corre il rischio di rimanere a livello teorico o meramente emotivo, senza una vera incidenza nei nostri atteggiamenti e nelle nostre decisioni» (397). Con un sano realismo, Aparecida chiede di «dedicare tempo ai poveri» (397). Viene così delineato il profilo di un sacerdote che “esce” verso le periferie abbandonate, riconoscendo in ogni persona «una dignità infinita» (388). Questa opzione di “farsi vicino” non ha l’obiettivo di «procurare conquiste pastorali, bensì quello della fedeltà nell’imitazione del Maestro, sempre vicino, accessibile, disponibile per tutti, desideroso di comunicare vita in ogni angolo della terra» (372). 
14. Insieme a questo avvicinarsi e impegnarsi con i poveri in tutte le periferie dell’esistenza, Aparecida indica l’esperienza spirituale della misericordia come necessaria per il presbitero. La misericordia del Dio dell’Alleanza, ricco in misericordia (23). «Ci riconosciamo come comunità di poveri peccatori, mendicanti della misericordia di Dio» (100h) e abbiamo bisogno di aprirci a «la misericordia del Padre» (249). Questa coscienza di essere peccatore è fondamentale nel discepolo e ancor di più nel presbitero. Ci salva dal pericoloso scivolare verso una abituale (direi persino normale) situazione di peccato, accettata, aggiustata con l’ambiente, che altro non è che corruzione. Presbitero peccatore sì, corrotto no. 
15. Nel considerarsi esistenzialmente come peccatore il presbitero si fa, «a immagine del Buon Pastore, (...) uomo della misericordia e della compassione, vicino al suo Popolo e servitore di tutti» (198): cresce «nell’amore misericordioso con tutti quelli che vedono coartata la loro vita in ogni sua dimensione, come ci mostra lo stesso Signore in ogni suo gesto di misericordia» (384). Aparecida chiede al presbitero «una spiritualità della gratuità, della misericordia, della solidarietà fraterna» (517), e che abbia, come Gesù, una speciale misericordia con i peccatori (451) e viscere di misericordia nell’amministrazione del sacramento della riconciliazione (177). L’atteggiamento del sacerdote in questo sacramento e in generale davanti alla persona peccatrice deve essere precisamente questo: avere viscere di misericordia. Capita che molte volte i nostri fedeli, nella confessione, trovano sacerdoti lassisti o rigoristi. Nessuno dei due è veramente testimone dell’amore e della misericordia che il Signore ci ha insegnato e ci chiede di esercitare, perché nessuno dei due si fa carico della persona; ambedue — elegantemente — la scaricano. Il rigorista la rimanda alla freddezza della legge, il lassista non la prende sul serio e cerca di addormentare la coscienza del peccato. Solo il presbitero misericordioso si fa carico della persona, si fa prossimo, si fa vicino, e la accompagna nel cammino della riconciliazione. Gli altri non sanno nulla di prossimità e preferiscono scansare il problema, come fecero il sacerdote e il levita con l’uomo incappato nei briganti nel cammino da Gerusalemme a Gerico. 

Sacerdoti innamorati del Signore
16. Nel numero 7 di questo testo dicevo che l’immagine del Buon Pastore suppone, per il Documento di Aparecida, due dimensioni: una ad intra, quella dei discepoli innamorati e l’altra ad extra, quella dei missionari ardenti. Sebbene ambedue le dimensioni vadano insieme, dal punto di vista logico la dimensione missionaria nasce dall’esperienza interiore dell’amore a Gesù Cristo. Riprendo, dunque, questa dimensione di discepoli innamorati, appena abbozzata appunto al numero 7. Alla base dell’esperienza del discepolo missionario appare, come indispensabile, l’incontro con Gesù Cristo: «Anche oggi, l’incontro intimo dei discepoli con Gesù è indispensabile per alimentare la vita comunitaria e l’attività missionaria» (154). La categoria dell’incontro (n. 21, 28) è probabilmente la categoria antropologica più utilizzata e ripetuta nel Documento di Aparecida (cfr. indice tematico, p. 261). Essere cristiani non è il frutto di un’idea bensì di un incontro con una persona viva. Ciò appare fortemente già nel discorso inaugurale del Papa, evidenziando una reale priorità della missione: «Essere discepoli e missionari di Gesù Cristo e cercare la vita in Lui presuppone essere profondamente radicati in Lui», e si domanda: «Davanti alla priorità della fede in Cristo e della vita fondata in Lui (formulata nel titolo della medesima v Conferenza) sorge un’altra questione: questa priorità, non potrebbe forse essere una fuga verso l’intimismo, verso l’individualismo religioso, un abbandono della realtà urgente dei grandi problemi economici, sociali, politici dell’America Latina e del mondo, una fuga della realtà verso un mondo spirituale?» (n. 3). Dopo una densa spiegazione, il Papa conclude: «Discepolato e missione» sono come due facce di una stessa medaglia: quando il discepolo è innamorato di Cristo, non può smettere di annunciare al mondo che solo Lui ci salva (cfr. Atti degli apostoli, 4, 12). Infatti, il discepolo sa che senza Cristo non c’è luce, non c’è speranza, non c’è amore, non c’è futuro» (ibidem).

17. Il presbitero, come discepolo «s’incontra» con Gesù Cristo, dà testimonianza che «non segue un personaggio della storia passata, bensì Cristo vivo, presente nell’oggi e nell’adesso della sua vita» (Benedetto XVI, Discorso inaugurale, 4). Il presbitero, in se stesso, è un destinatario del kèrygma e — perciò — ha «una profonda esperienza di Dio» (199), e nella sua vita «il kèrigma è il filo conduttore di un processo che culmina nella maturità del discepolo di Gesù Cristo» (278a), un processo che porta il presbitero a «coltivare una vita spirituale che stimola gli altri presbiteri» (191), a «essere un uomo di preghiera, maturo nell’elezione di vita in Dio, che fa uso dei mezzi di perseveranza, come il sacramento della confessione, la devozione alla Santissima Vergine Maria, la mortificazione e dedizione appassionata alla sua missione pastorale» (195). 

Sfide del presbitero e richiami del Popolo di Dio
18. Come ho detto al n. 1, il Documento di Aparecida fa riferimento alle situazioni che toccano e danneggiano la vita e il ministero dei nostri presbiteri (192). Richiama inoltre l’identità teologica del ministero presbiterale, il suo inserimento nella cultura attuale e le situazioni che incidono nella sua esistenza. Le sviluppa nei paragrafi precedenti. Le possiamo leggere lì. Ora però voglio fermarmi sui richiami del Popolo di Dio ai suoi presbiteri, così come indicati nel n. 199. Sono 5 aspetti: a) che i presbiteri abbiano una profonda esperienza di Dio e siano configurati al cuore di Cristo Buon Pastore, docili alle mozioni dello Spirito, che si nutrano della Parola di Dio, della Eucaristia e della preghiera; b) che siano missionari mossi dalla carità pastorale che li porta a custodire il gregge loro affidato e ad andare alla ricerca dei più lontani; c) che siano in profonda comunione con il loro Vescovo, con gli altri presbiteri, i diaconi, i religiosi, le religiose e i laici; d) che siano servitori della vita, attenti alle necessità dei più poveri, impegnati nella difesa dei diritti dei più deboli e promotori della cultura della solidarietà; e) che siano pieni di misericordia, disponibili ad amministrare il Sacramento della riconciliazione. Per coltivare e far crescere una tale identità spirituale si richiede «una pastorale presbiterale che favorisca la spiritualità specifica e la formazione permanente e integrale dei sacerdoti» (200).
19. Dietro questi richiami espliciti vi è l’ansia implicita del nostro popolo fedele: ci vuole pastori di popolo e non chierici di Stato, funzionari. Uomini che non si dimentichino di essere stati «tratti dal gregge», che non si dimentichino «della propria madre e della propria nonna» (2 Timoteo, 1, 5); presbiteri che si difendano dalla ruggine della «mondanità spirituale», che costituisce «il più grande pericolo, la tentazione più perfida, quella che rinasce sempre — insidiosamente — quando tutte le altre sono state già sconfitte, e riprende nuovo vigore con le stesse vittorie». «Se questa mondanità spirituale invadesse la Chiesa e lavorasse per corromperla attaccandola nella sua essenza, sarebbe infinitamente più devastante di ogni altra mondanità semplicemente morale. Peggio ancora di quella lebbra infame che, in alcuni momenti della storia, distrusse l’immagine della Sposa amata, quando la religione sembrava essere la miccia dello scandalo nel santuario stesso e, rappresentata da un Papa libertino, nascondeva il volto di Cristo sotto pietre preziose, tosature e spie. (...) La mondanità spirituale è ciò che praticamente si presenta come un distacco dall’altra mondanità, il cui ideale però, tra l’altro spirituale, sarebbe l’uomo e il suo perfezionamento, al posto della gloria di Dio. La mondanità spirituale altro non è se non un atteggiamento antropocentrico. (...) Un umanesimo sottilmente nemico del Dio Vivente e — segretamente, non meno nemico dell’uomo — può annidarsi in noi attraverso mille sotterfugi» (Henri de Lubac, Meditazione sulla Chiesa,Milano, Jaca Book, 1993, pp. 446-447).
20. Il fedele Popolo di Dio, al quale apparteniamo, dal quale siamo stati presi e al quale siamo stati inviati, ha un olfatto che gli viene dal sensus fidei per individuare quando un pastore del popolo si sta convertendo in un chierico di Stato, in funzionario. Non è uguale al caso di un presbitero peccatore: tutti lo siamo e seguiamo il gregge. Invece il presbitero mondano entra in un processo diverso, un processo — mi si passi la parola — di corruzione spirituale che attenta contro la natura stessa dipastore, lo snatura, e le dà uno status molto diverso del santo Popolo di Dio. Sia il profeta Ezechiele come sant’Agostino, nel suoSermo 46 De pastoribus in Ezechiel, identificano questo tipo di pastore con colui il quale sfrutta il gregge: prende il latte e la lana. Aparecida in tutto il suo messaggio ai presbiteri mira a una identità genuina del «pastore del popolo» e non a quella corrotta o adulterata del «chierico di Stato».

L'Osservatore Romano