giovedì 11 luglio 2013

Testimoniare la fede




di Juliàn Carròn*
in “la Repubblica” del 11 luglio 2013
Caro Direttore, Eugenio Scalfari ha colto acutamente che il tema dell’enciclica di papa Francesco è
«il punto centrale della dottrina cristiana: che cos’è la fede» e ha concluso il suo editoriale di
domenica con una domanda: «Qual è la risposta, reverendissimo papa?» (la Repubblica, 7 luglio
2013, v. infra). Rileggendo l’enciclica Lumen fidei sollecitato da queste parole, non ho potuto evitare di
riandare con la mente a questa immagine con cui Gesù descrive la missione dei suoi seguaci nel
mondo: «Non si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce
a tutti quelli che sono nella casa» (Mt 5,15).
Che altro avrebbero potuto fare di meglio papa Benedetto e papa Francesco per rispondere a quella
percezione tanto diffusa che associa la fede al buio, oppure a «una luce soggettiva, capace forse di
riscaldare il cuore, di portare una consolazione privata, ma che non può proporsi agli altri come luce
oggettiva e comune per rischiarare il cammino», finendo così col considerarla «un salto nel vuoto
che compiamo per mancanza di luce, spinti da un sentimento cieco» (3)?
A una obiezione del genere non si può rispondere soltanto con un ragionamento. Non si sconfigge il
buio “parlando” della luce, ma accendendo una lampada. Il buio può essere sconfitto solo con la
luce. Solamente la testimonianza luminosa della fede che illumina la vita di chi l’accoglie può
rispondere a tale obiezione.
Così è nata la fede cristiana. Coloro che incontrarono Gesù rimasero colpiti dalla luce che egli
gettava sulla realtà in cui erano immersi. Tanto è vero che uno di loro, l’evangelista Matteo,
descrive il significato della presenza di Gesù nella storia con queste parole, riprendendo una
profezia di Isaia: «Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano
in regione e ombra di morte una luce è sorta » (Mt 4,16). Per chi vuole illuminare non c’è altra
strada che “brillare”. Gesù stesso si concepiva così: «Io sono venuto nel mondo come luce, perché
chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre» (Gv 12,46).
La sfida in cui si trova oggi la fede cristiana non è diversa da quella di ieri. L’uomo contemporaneo
— come ci ricorda Eliot — cerca affannosamente «d’evadere/ dal buio esterno e interiore/ sognando
sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d’essere buono». Per questo è difficile
trovare un’altra immagine più adeguata di quella della lampada: l’avvenimento di Cristo si propone,
qui e ora, come risposta unica e imprevedibile alla profonda oscurità in cui l’uomo di oggi si dibatte
impotente.
Davanti alla testimonianza dei due Pontefici contenuta in queste pagine, ciascuno potrà giudicare
allora se la fede cristiana sminuisce, come sosteneva Nietzsche, «la portata dell’esistenza umana»,
impedendo all’uomo di «coltivare l’audacia del sapere» (2), la sua capacità di ricerca della verità,
oppure se «la fede arricchisce l’esistenza umana in tutte le sue dimensioni» (6), rendendola
un’avventura veramente umana, personale e appassionante, mostrando che «quando l’uomo si
avvicina a Lui [Cristo], la luce umana non si dissolve nell’immensità luminosa di Dio, come se
fosse una stella inghiottita dall’alba, ma diventa più brillante quanto è più prossima al fuoco
originario, come lo specchio che riflette lo splendore» (35). Certo, per accettare la sfida che la loro
testimonianza rappresenta occorre una apertura della ragione, che si compie solo nell’amore, per
una autentica affezione a sé. Infatti, solo chi è amato e, perciò, ama veramente se stesso può essere
interessato alla verità e sussulta quando intercetta qualche raggio della sua luce sulla strada della
vita.
Con la loro testimonianza Benedetto XVI e papa Francesco richiamano tutti noi — che abbiamo
ricevuto il dono della fede — al compito che ci è stato affidato nel mondo: far risplendere la luce di
Cristo sui nostri volti. «La fede si trasmette… da persona a persona, come una fiamma si accende
da un’altra fiamma » (37). Tutti capiamo che razza di responsabilità implichi un tale compito:
saremo in grado di assolverlo solo se noi per primi accettiamo di lasciarci costantemente illuminare
dalla luce di Cristo. Perciò «la Chiesa… non presuppone mai la fede come un fatto scontato, ma sa che questo dono di Dio deve essere nutrito e rafforzato, perché continui a guidare il suo cammino»
(6).
Ciascuno di noi ha bisogno di lasciarsi trasformare dall’Amore, «a cui si è aperto nella fede, e nel
suo aprirsi a questo Amore che gli è offerto, la sua esistenza si dilata oltre sé». Accettando di
partecipare al “noi” della comunione della Chiesa, «l’“io” del credente si espande per essere abitato
da un Altro, per vivere in un Altro, e così la sua vita si allarga nell’Amore» (21).
Solo se trovano sul loro cammino persone che, per la fede, sono capaci di stare davanti alle sfide del
vivere, se possono cioè vedere attraverso esse la pertinenza della fede alle esigenze della vita, cioè
la sua profonda ragionevolezza, gli uomini del nostro tempo potranno tornare a interessarsi di Cristo
e della fede. Perché vedranno che quello che rende i cristiani così diversi non può essere una fiaba
oppure un bel sentimento (cfr. 24), ma un fatto che porta con sé le ragioni dell’umano. Solo la
provocazione di questa testimonianza luminosa e concreta può essere in grado di toccare «la
persona nel suo centro, nel cuore» (40), l’unica capace di essere all’altezza delle sue esigenze
fondamentali di verità, bellezza, giustizia, felicità. Sì, ieri come oggi, «la fede nasce da un incontro
che accade nella storia e illumina il nostro cammino nel tempo» (38).
*L’autore è Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione

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Le risposte che i due papi non hanno ancora dato   
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