lunedì 8 luglio 2013

Un viaggio che interroga le coscienze





(Giaovanni Maria Vian) Sin dall’annuncio a sorpresa il significato del viaggio di Papa Francesco a Lampedusa è stato fortissimo: non sono parole vuote quelle che sta ripetendo dal momento dell’elezione in conclave il vescovo di Roma preso «quasi alla fine del mondo». Il primo viaggio del pontificato, tanto breve quanto significativo, ha infatti voluto raggiungere da quel centro che deve essere esemplare nel presiedere «nella carità tutte le Chiese» — come ha ricordato presentandosi al mondo — una delle periferie, geografiche ed esistenziali, del nostro tempo.
Un itinerario scarno nel suo svolgimento, nato dall’ennesima sconvolgente notizia della morte di immigrati in mare — rimasta «come una spina nel cuore» di Papa Francesco — e realizzato per pregare, per compiere un gesto concreto e visibile di vicinanza e per risvegliare «le nostre coscienze», ma anche per ringraziare. Alla celebrazione penitenziale di fronte al mondo e alla solidarietà con i più poveri, si sono così aggiunte espressioni non protocollari e spontanee di gratitudine per chi da anni sa accoglierli e abbracciarli, offrendo in questo modo silenzioso e disinteressato «un esempio di solidarietà» autentica.
Da questa porta dell’Europa, continente troppe volte smarrito nel suo benessere, il vescovo di Roma ha rivolto al mondo una riflessione esigente sul disorientamento contemporaneo scandita dalle domande di Dio che aprono le Scritture ebraiche e cristiane: «Adamo, dove sei?» e «Caino, dov’è tuo fratello?». Interrogativi biblici che vanno alla radice dell’umano e che Papa Francesco ha ripetuto davanti a molti immigrati musulmani, ai quali aveva appena augurato che l’imminente digiuno del Ramadan porti frutti spirituali, con un’offerta di amicizia che evidentemente supera i confini della piccola isola mediterranea.
Domande di sempre, oggi rivolte a un uomo che vive nel disorientamento, ha sottolineato il Pontefice: «Tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri». Al punto che migliaia e migliaia di persone sono costrette a lasciare le loro terre e cadono in questo modo nelle mani dei trafficanti, «coloro che sfruttano la povertà degli altri, queste persone per le quali la povertà degli altri è una fonte di guadagno» ha denunciato il vescovo di Roma ricordando le parole di Dio a Caino: «Dov’è il sangue del tuo fratello che grida fino a me?».
Ma nessuno si sente responsabile perché — ha detto Papa Francesco — «abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna». Anzi, la cultura del benessere «ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla»: è un’illusione, insomma, che nel mondo globalizzato di oggi ha portato a una «globalizzazione dell’indifferenza» togliendoci persino la capacità di piangere di fronte ai morti. Si ripete così la scena evangelica dell’uomo ferito abbandonato al bordo della strada e del quale solo un samaritano si prende cura. Come nella «piccola realtà» di Lampedusa, dove però sono tanti a incarnare la misericordia di quel Dio fattosi bambino e costretto a fuggire dalla persecuzione di Erode. (g.m.v.)
L'Osservatore Romano

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Terra del futuro e della convivenza possibile

(Mario Ponzi) Negli occhi smarriti di Osol Sala, Papa Francesco ha letto, questa mattina a Lampedusa, una nota a margine di una delle pagine più tristi della storia contemporanea. Pagine che parlano di una guerra nascosta, di violenza, di diritti negati, di tanta sofferenza. Osol è un giovane disabile eritreo. 
Era nel gruppo degli immigrati che, sul molo di Punta Favarola, hanno accolto stamane il Pontefice. Era aggrappato a una gruccia nuova di zecca — gliel’hanno data appena sbarcato — e conservava negli occhi il terrore delle trentadue ore trascorse aggrappato a un paletto fissato nel barcone rimasto in balia delle onde solo pochi giorni fa. 
Chissà cosa avrà pensato vedendo quell’uomo vestito di bianco arrivare, proprio come lui, dal mare, avvicinarsi e farsi spazio per raggiungerlo, stringerlo tra le braccia per fargli sentire tutta la forza dell’amore che Dio ha per lui. Forse non sapeva, Osol, che l’uomo vestito di bianco è giunto a quell’approdo proprio perché il mondo ascolti il grido di quella sofferenza. Non sapeva che era lì per pregare per lui e per quelle ventimila persone morte in mare negli ultimi venticinque anni: un tributo immane pagato alla ricerca della libertà e della giustizia. E allora è stato proprio quell’uomo vestito di bianco a spiegargli cosa fosse venuto a fare: «Sono qui — ha detto Papa Francesco rivolgendosi agli immigrati — per pregare insieme a voi per voi e per quelli che non ce l’hanno fatta».
E subito si è avvicinato a quello stesso microfono John, anche lui eritreo, e ha raccontato al Papa la loro storia: «Abbiamo sofferto tanto. Siamo arrivati qui fuggendo per due motivi, uno economico e uno politico. Ora, dopo essere stati rapiti dai trafficanti e aver sofferto moltissimo in Libia, siamo qui, ma abbiamo bisogno di essere aiutati». 
Il Papa, mentre lo salutava, lo ha guardato dritto negli occhi quasi a dirgli: «Sono qui perché il mondo sappia». E appena raggiunto l’altare della messa ha mantenuto la sua promessa: lasciando il testo dell’omelia nel momento in cui chiamava il mondo alla responsabilità nella solidarietà, ha ricordato quello che John gli aveva chiesto. «Ho sentito, recentemente, uno di questi fratelli. Prima di arrivare qui sono passati per le mani dei trafficanti, coloro che sfruttano la povertà degli altri, queste persone per le quali la povertà degli altri è una fonte di guadagno. Quanto hanno sofferto! E alcuni non sono riusciti ad arrivare».
Poche le ore trascorse da Francesco a Lampedusa, ma certamente sufficienti per provocare la coscienza del mondo. Lui, arrivato al soglio di Pietro quasi dalla «fine del mondo», è giunto dunque stamani alla «fine dell’Europa». È venuto a lasciare una corona di fiori in quell’immenso cimitero nascosto nelle acque profonde del Mediterraneo, tragicamente richiuse sulle speranze di migliaia di disperati, rimasti sconosciuti al mondo, ma non a Dio. E da oggi questo tratto di mare entra di diritto nell’elenco ideale dei santuari dell’uomo.
Tutto è stato essenziale in questa prima visita del pontificato di Papa Francesco, caratterizzata dal forte desiderio del Papa non solo «di mettere le mani nella carne di Cristo», come continua a predicare, ma anche di mettere il mondo dinnanzi alle proprie responsabilità. Forse domani sarà più difficile girare la testa davanti a un tragico fenomeno che non basta definire il dramma più grande dell’umanità per sentirsi a posto con la coscienza.
L’aereo militare italiano che ha condotto il Papa a Lampedusa è atterrato con circa quaranta minuti di anticipo sull’orario previsto. Nessuna cerimonia particolare, solo una stretta di mano con monsignor Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento, con il sindaco di Lampedusa Giuseppina Nicolini, e con il parroco don Stefano Nastasi. Poi in macchina sino a Cala Pisana. Percorso veloce, perché lungo la strada c’era poca gente: erano già tutti assiepati tra le banchine del molo e in prossimità dello stadio.
Anche attorno alla motovedetta della Capitaneria di Porto contrassegnata dalla sigla CP 282, sulla quale ha preso posto Papa Francesco, c’era tanta gente festante, ma estremamente composta. Accanto al Pontefice erano soltanto gli arcivescovi Angelo Becciu, sostituto della Segreteria di Stato, e Georg Gänswein, prefetto della Casa Pontificia — che lo hanno accompagnato insieme con i monsignori Xuereb e Sapienza — e lo stesso Montenegro. Appena fuori della cala, in attesa c’erano decine e decine di imbarcazioni dei pescatori dell’isola. Tra questi alcuni che si sono resi protagonisti di ardite azioni di salvataggio in mare. Così si è snodata una lenta e silenziosa processione verso il largo, là dove si sono spesso consumate tragedie inumane. Un luogo conosciuto come Porta d’Europa, per la presenza di un monumento dedicato proprio a quanti sono morti in mare nel tentativo di raggiungere il vecchio continente. Un luogo simbolico per un gesto altrettanto simbolico: il Papa ha lanciato una corona di crisantemi bianchi e gialli, ha recitato una preghiera e ha fatto il segno della croce verso il mare. 
Pochi minuti di navigazione e Punta Favarola era già alla prora. Proprio lì, anche questa mattina sono state sbarcate 165 persone, soccorse in mare dalla Capitaneria di Porto e dalla Guardia di Finanza. Il molo è simbolo della storia di accoglienza di cui si è resa protagonista da sempre la gente di quest’isola. Al punto da essersi meritata, proprio quest’anno, il premio internazionale Città della Pace, istituito dalla fondazione opera Campana dei Caduti di Rovereto.
Sul molo erano ad attendere Papa Francesco una cinquantina di immigrati eritrei. Questa volta sono stati loro a tendere, da terra, una mano, assai simile a quella che pochi giorni fa li aveva sottratti al pericolo. Straordinaria l’espressione di Papa Francesco: cordiale, paterna, aperta a un sorriso capace di dare a questa gente la possibilità di assaporare, almeno per una volta, il gusto della dignità umana.
Poi di nuovo in macchina per raggiungere il campo sportivo dove ha celebrato la messa. L’attraversamento è stato lentissimo. La gente ha letteralmente circondato il piccolo fuoristrada con il Papa e l’ha costantemente affiancato sino ai bordi del campo sportivo. Compiuto un giro tra la folla, il Santo Padre ha raggiunto l’altare. La mensa eucaristica era posta su una riproduzione in forma ridotta di una barca da pesca. Invece l’ambone era stato ricavato tra due timoni di barconi e una ruota del timoniere. 
Il rito si è svolto in una forma estremamente semplice. Il Papa aveva un pastorale realizzato da un artigiano locale con il legno dei relitti delle barche naufragate lungo le coste dell’isola. Anche il calice usato per la celebrazione era dello stesso materiale. Alla base un chiodo infisso di traverso a simboleggiare la passione di Gesù e la tragedia vissuta dalle vittime dell’immigrazione. Al momento dell’offertorio, sono stati portati significativamente pani e pesci oltre a due bibbie, una in inglese e una in francese. Sono state recuperate dal parroco di Lampedusa da una delle carrette del mare naufragate. I loro proprietari sono scomparsi, inghiottiti dalle acque.
Conclusa la messa, il Papa ha raggiunto la parrocchia di San Gerlando dove si è brevemente soffermato con i sacerdoti dell’arcidiocesi e con gli organizzatori della visita. Poi, salutate le persone in attesa all’esterno della chiesa, si è diretto all’aeroporto. Erano da poco trascorse le 13.15 quando l’aereo con a bordo Papa Francesco è decollato alla volta di Roma. 
Poco più di quattro ore è durata la visita. Eppure nel cuore dei lampedusani è rimasta una certezza: da domani sarà più difficile ignorare. E c’è da credere che le immagini di oggi rappresentano la realtà dalla quale ripartire. Lampedusa si è mostrata realmente una terra del futuro, dimostrando che uomini e donne di razze e culture diverse possono vivere insieme all’insegna della solidarietà e dell’amore.
L'Osservatore Romano,


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Non c’è altro cammino che la «prossimità»
Pare che Lampedusa voglia dire 'lampo', 'fiamma', a motivo dei fuochi d’avviso accesi un tempo sull’isola per orientare i naviganti. Di certo in questi mesi di navigazione della barca di Pietro, il passaggio a Lampedusa segna una tappa significativa nella rotta seguita da papa Francesco. Una tappa che lui ha deciso in breve tempo e in breve ha stabilito. Lampedusa è un luogo reale nella geografia del Mare Nostrum e al tempo stesso esistenziale. Porta di confine e d’ingresso, punto di frattura dove s’infrange la frontiera tra disperazione e speranza, dove con la dignità e la vita trova morte la speranza, non solo dei più poveri ma di noi tutti. È dunque un passaggio chiave nella rotta della riforma che Francesco sta seguendo sull’onda del Povero frate di Assisi, dal quale ha preso il nome e con il quale condivide la povertà senza farne bandiera di rivolta e senza separarla dall’umiltà. Così senza clamori, senza riflettori vuole scendere a Lampedusa tra i profughi e gli immigrati irregolari, quelli che da tanti vengono detti i 'clandestini'.

La parola più ricorrente nelle riflessioni di Bergoglio sulla dottrina sociale già negli anni dell’episcopato a Buenos Aires non a caso è cercanía, prossimità. «Come possiamo favorire che si manifesti sempre di più la dignità umana tante volte ferita, sminuita, schiavizzata?», scriveva nel testo di un’omelia del 2011. «La chiave è la prossimità. La prossimità è l’ambito necessario perché si possa annunciare la Parola, la giustizia, l’amore». E a partire dalle riflessioni di Aparecida in tutta l’America Latina la prossimità si è fatta tratto distintivo di una Chiesa «che si offre a tutti come una madre che esce all’incontro» (n. 370). E proprio perché è come quella di una madre che esce all’incontro, la prossimità non è una prestazione della Chiesa, non è il prodotto di una sua efficiente applicazione da esibire. Non è un impeto di generosità che si alimenta per forza propria, prodotto di strategie d’immagine o dovere da assolvere per statuto aziendale. «La prossimità è criterio evangelico concreto che è altro rispetto alle regole di un etica astratta o meramente spirituale», afferma Francesco. È una sua esigenza vitale.

In questi ultimi giorni, con sempre maggiore insistenza, papa Bergoglio ci parla della «carne di Cristo» ci invita a «toccare la carne di Cristo, le sue piaghe». Lo abbiamo sempre visto per un tempo quasi interminabile, all’inizio e alla fine di celebrazioni o di udienze, intrattenersi a baciare ripetutamente e ad abbracciare i sofferenti. E al tempo stesso lo abbiamo sentito affermare: «Non è sufficiente costituire una fondazione per aiutare tutti, né fare tante cose buone per aiutarli. Tutto questo è importante, ma sarebbe solo un comportamento da filantropi».

Dal suo comportamento, dal modo con cui si avvicina agli ultimi, si coglie perciò in maniera immediata che tutto questo non lo fa perché è il suo 'mestiere', perché rientra nelle competenze che il senso comune assegna in maniera quasi automatica alla compagine ecclesiale. Nel modo in cui insiste ad abbracciare le piaghe di Cristo, Francesco spiazza quanti imputano alla Chiesa il mero assistenzialismo e spiazza quanti l’accusano di pauperismo. Nel richiamo insistente di papa Francesco si avverte un rovesciamento che lascia intravedere il cuore ultimo del mistero della carità, imparagonabile a qualsiasi generosità, a qualsiasi filantropia. In questa prospettiva, autenticamente cristiana, la Chiesa non pone l’accento sul proprio portare ma è chiamata ad andare e toccare e curare le piaghe dei poveri perché nel piegarsi, nel chinarsi sul povero riceve, riceve essa stessa la Grazia che la fa vivere: «Quando si tocca la carne di Cristo sofferente - dice Bergoglio - può accadere che si sprigioni nei nostri cuori la speranza. È lì che possiamo ricevere la Grazia». Per questo uscire e farsi incontro ai poveri per la Chiesa è vitale. Vuol dire lasciarsi incontrare da Cristo stesso.

«Anche la vita di Francesco d’Assisi è cambiata quando ha abbracciato il lebbroso perché ha toccato il Dio vivo. Lo stesso apostolo Tommaso - ha detto papa Francesco nell’omelia del 3 luglio scorso a Santa Marta - per trovare Dio ha dovuto mettere il dito nelle piaghe, mettere la mano nel suo costato. Questo è il cammino. Non ce n’è un altro».

Ed è quello che lo porta oggi, che conduce adesso Francesco nell’ultima isola del Mare Nostrum a mendicare Cristo, a ricevere Cristo, a ricevere la speranza: «Allo Spirito - ha scritto - si può chiedere che risvegli in noi quella particolare sensibilità che ci fa scoprire Gesù nella carne dei nostri fratelli più poveri, più bisognosi, trattati più ingiustamente perché quando ci avviciniamo alla carne sofferente di Cristo, quando ci facciamo carico di essa, solo allora, solo allora può accendersi nei nostri cuori la speranza, quella speranza che è vita e che il nostro mondo disincantato richiede ai cristiani».

Stefania Falasca (Avvenire)

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Papa: Comunità araba, sei ''nostro idolo''. Grazie per visita Lampedusa   
asca 
''Sei grande ed il nostro idolo''. Cosi' la Comunita' del mondo arabo in Italia (Co-mai) si rivolge a papa Francesco, ringraziandolo della ''storica visita'' a Lampedusa, proprio nel giorno in cui inizia il Ramadan, periodo di digiuno religioso per il musulmani. ''Oggi Papa Francesco (...)


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Radio Vaticana
Un “incredibile evento, densissimo, storico e significativo nel giro di poche ore”: così il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, ha definito il viaggio di Papa Francesco in un briefing con i giornalisti a conclusione della visita. “Il Papa – ha detto (...)