sabato 3 agosto 2013

La lezione del secondo Francesco Saverio

Il dolore dei parenti delle vittime di Hiroshima

(Cristian Martini Grimaldi) Negli anni in cui Bergoglio era il provinciale dei gesuiti di Argentina, il preposto generale della Compagnia di Gesù era padre Pedro Arrupe. La storia di Arrupe è interessante e avvincente. Tutto cominciò il 6 giugno del 1938 quando Arrupe si trovava negli Stati Uniti e ricevette una lettera dal generale della Compagnia: finalmente la sua richiesta di partire missionario in Giappone era stata accettata. Lasciò immediatamente Seattle per trasferirsi a Yokohama.
Dopo diversi mesi di studio di lingua giapponese venne nominato alla parrocchia di Yamaguchi ma, in seguito all’ingresso del Giappone nel secondo conflitto mondiale (l’8 dicembre 1941), fu incarcerato con la fantasiosa accusa di spionaggio. Verrà rilasciato un mese dopo grazie all’ammirazione che aveva suscitato nei giudici e carcerieri la sua intensa pratica di preghiera e di meditazione.
Successivamente, diventò direttore del noviziato di Nagatsuka, una collina alla periferia di Hiroshima. Lì, il 6 agosto del 1945, fu testimone dello scoppio della prima bomba atomica. Anni dopo, Arrupe pubblicò un piccolo libro dal titolo Yo viví la bomba atómica, da poco ripubblicato in spagnolo (Ediciones Mensajero).
Il libro si basa sulle conferenze che Arrupe fece, in giro per l’America e l’Europa, proprio su quell’esperienza di missionario in Giappone. In quelle conferenze veniva presentato al pubblico come el segundo san Francisco Javier, ovvero il gesuita spagnolo che nel 1549 per primo aveva cominciato un’opera di evangelizzazione nella terra dei samurai. Quattro secoli dopo quella prima missione di Francisco Javier, un altro gesuita spagnolo (Arrupe appunto) arrivava nelle terre del Sol Levante per proseguirne l’apostolato.
Lo stesso Bergoglio sarebbe voluto partire missionario in Giappone, imitando a sua volta il segundo san Francisco (ma noi sappiamo che poi finì per imitarne un terzo di Francesco, o meglio, il primo in assoluto). E nonostante poi Bergoglio abbia dovuto rinunciare a quel progetto, restiamo convinti che nei suoi anni di seminario abbia letto con molta attenzione proprio questo testo.
Lo si evince dal fatto che, in diverse interviste, l’allora cardinale di Buenos Aires ha citato spesso quelle comunità cristiane del Giappone che si ritrovarono senza sacerdoti per almeno duecento anni: «Eppure quando i missionari tornarono in quegli stessi luoghi li trovarono tutti battezzati». Questo è un passaggio presente quasi alla lettera nel libro di Arrupe. Il quale poi morì nel 1991 a Roma, lasciandoci dei testi di grande valore storico.
In una prosa semplice ed efficace Arrupe riesce a tracciare con pochi tratti il profilo socio-culturale e religioso dei giapponesi dei primi anni Quaranta. Il titolo infatti, anche se azzeccatissimo, può essere fuorviante. Il piccolo libro non ci parla solamente della testimonianza diretta del missionario del primo scoppio nucleare (si trovava a pochi chilometri da lì). Il testo è l’accurata selezione di pochi ma significativi aneddoti di vita di un uomo curioso e intelligente che di quel popolo, «vigoroso e cortese», forte di un patriottismo integrale, aveva condiviso usi e costumi per molti anni.
Si apprendono cose curiose. Ad esempio scopriamo che, poco dopo essere giunto in Giappone, Arrupe venne invitato a casa di un professore dell’università di Tokyo e la lingua con cui i due comunicarono era il tedesco. Chi l’avrebbe detto, in un mondo che solo pochi anni dopo avrebbe cominciato a omologarsi su un unico linguaggio universale, l’inglese. Il testo è anche un documento storico sulla condizione femminile del tempo, quando ancora sui mezzi pubblici della capitale nipponica erano i maschi ad avere la precedenza nei posti a sedere, mentre le donne se ne restavano in piedi, magari sopportando anche il peso dei figli sulle spalle. Per certi versi è un testo anche esilarante. Un giorno venne dall’America un altro missionario e Arrupe andò a dargli il benvenuto al porto di Yokohama. Quando salirono sul treno diretti a Tokyo, questo padre americano non si capacitava del fatto che le donne dovessero restare in piedi, mentre i maschi giapponesi se ne stavano seduti con le mani in tasca senza neppure offrire loro il posto. Arrupe cercava di fargli capire che questa era la loro cultura e che non c’era da meravigliarsi. Per un po’ il missionario novizio accettò la spiegazione, ma quando vide entrare l’ennesima donna con un bambino sulle spalle, gravata inoltre dal peso di due enormi buste, non resistette. Con savoir faire occidentale si avvicinò alla donna dicendole che poteva prendere il suo posto. Quella lo guardò con gli occhi pieni di gratitudine e dopo aver fatto una serie infinita di inchini si voltò verso il marito dicendogli: è libero, puoi sederti!
Ma c’è un aneddoto di vita del missionario Arrupe che ci ricorda da vicino l’insegnamento di Papa Francesco. Arrupe, nelle sue memorie, ci parla di un professore di scuola primaria di Yamaguchi col quale discuteva spesso dei temi più svariati. Un giorno questo professore gli domandò se esistesse una maniera per provare l’esistenza di Dio. Arrupe per rispondere a quella domanda utilizzò tutto il bagaglio di argomenti teorici di cui era in possesso. Dopo un lungo e intenso argomentare domandò al suo interlocutore se la spiegazione lo avesse soddisfatto. Il professore disse di non aver inteso neppure una parola di quello che aveva appena ascoltato ma che, nonostante tutto, si era convinto che quella doveva essere la verità. Al che Arrupe gli domandò come mai fosse arrivato a quella conclusione. Il professore gli disse che lo aveva osservato lavorare sodo per mesi e mesi, e questo era bastato a convincerlo della serietà e profondità della sua fede: dunque anche quello che predicava doveva corrispondere a verità. Insomma l’impegno apostolico in quelle lontane terre di confine, agli occhi di quel professore, era argomento sufficiente a comprovare non solo la dedizione di Arrupe alla sua causa, ma perfino l’esistenza di Dio.
Qualunque disquisizione filosofica risultava assolutamente superflua alla luce di una tale fulgida testimonianza. O come direbbe oggi, in una splendida sintesi, Papa Francesco: «Le parole non bastano. La parola senza la testimonianza è aria».
L'Osservatore Romano

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La storia della giovane Nakamura San venne raccontata da padre Arrupe. Nei prossimi giorni il cardinale Turkson in Giappone per le commemorazioni dei bombardamenti atomici

DOMENICO AGASSO JRTORINO


L'ultimo desiderio prima di morire agonizzante a causa della bomba atomica? Fare la Comunione. Anche in mezzo ai disastri e alle tragedie provocati dall'ordigno nucleare, la grandezza cristiana è emersa. La studentessa Nakamura San, con il corpo devastato dall'esplosione atomica, non ha avuto dubbi per la richiesta espressa con le ultime esili forze a padre Pedro Arrupe (Bilbao, 1907 – Roma, 1991), futuro Preposto generale dei Gesuiti, che in quel momento era missionario in Giappone, proprio a Hiroshima.


Sarà lo stesso padre Arrupe a raccontare la storia di Nakamura San. Mattino del 6 agosto 1945: “Alle 8,15 precise vidi scoppiare sulla città la bomba atomica, la prima della storia… In quell’istante io mi trovavo nel mio ufficio, insieme con un altro padre. Vedemmo la vampa sterminata dapprima: io balzai in piedi correndo alla finestra e in quel momento giunse fino a noi uno scoppio, non una gigantesca detonazione, ma qualcosa di assolutamente diverso, lo ricordo come una sorta di enorme muggito… Guardammo verso la città. Hiroshima non c’era più. Al suo posto ardeva un compatto braciere…”. Così i Gesuiti missionari a Hiroshima sono dovuti diventare medici, infermieri, chirurghi. Si sono trovati di fronte piaghe terrificanti, corpi consumati dal calore, deformazioni mostruose e orribili. Sono venuti a contatto con centinaia di vicende drammatiche.


Una è stata quella di una ragazza cattolica. “La studentessa universitaria Nakamura San, della mia parrocchia di Yamaguchi, era a Hiroshima il giorno della bomba. Mi mandò a chiamare. La trovai in una baracca, nessuno aveva voluto accompagnarmi fin lì, si limitavano a indicarmi dov’era. Prima di vederla, avvertii l’odore nauseabondo della carne devastata. Nakamura San giaceva al suolo, braccia e gambe stese, piedi e mani orribilmente gonfi. La carne ustionata lasciava vedere soltanto ossa e pelle. Era rimasta in quelle condizioni per quindici giorni. Nakamura San aprì gli occhi, mi riconobbe e mi disse solo queste parole che non dimenticherò mai: 'Arrupe shimpusama, Goseitai, o motte irasshaimashita ka?'. Le trascrivo così come le ho sentite. Volevano dire: 'Padre Arrupe, mi porta la comunione?'”.


Pregherà anche per Nakamura San, come per tutte le vittime dei bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki avvenuti nel 1945 (a Nagasaki il 9 agosto) il cardinale Peter Turkson, presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, che si appresta a partire per il Giappone. Nel Paese del “Sol levante” sono in programma cinque giorni dedicati alla riflessione, alla preghiera e alla promozione della pace in occasione delle commemorazioni dei bombardamenti atomici. In particolare, il viaggio di card. Turkson si inserirà nell’iniziativa “Dieci giorni per la pace” promossa dalla Conferenza episcopale giapponese - tra il 6 e il 15 agosto - in memoria delle vittime delle bombe nucleari. Il Presule sarà lunedì ad Hiroshima, dove presiederà la s. Messa per la pace nella Cattedrale della città; martedì parteciperà a un incontro interreligioso dove pronuncerà un discorso sulla collaborazione reciproca nella costruzione della pace mondiale.


Mercoledì andrà a Nagasaki per prendere parte a una cena promossa dal Centro interreligioso per il Dialogo sulla Pace mondiale; giovedì, nell’ambito di una cerimonia commemorativa interreligiosa organizzata presso il “Ground-Zero Park” della città, card. Turkson reciterà una preghiera per tutte le vittime. Infine venerdì 9, sempre a Nagasaki, il presidente del Dicastero vaticano presiederà la Messa per la pace nel mondo.