venerdì 30 agosto 2013

Papa Francesco e gli Hobbit


Un po’ li ha citati lui, come nel caso di Bloy e Malègue, un po’ le notizie girano e su Jorge Mario Bergoglio lo fanno vorticosamente dal 13 marzo scorso, e quindi già si conoscono alcuni dei poeti e romanzieri preferiti da Papa Francesco: oltre ai due suddetti francesi, ecco due nomi che ci saremmo potuto aspettare, Manzoni e Dostoevskij, ma anche il poeta tedesco Hölderlin, l’argentino Borges (di cui è stato amico personale) e l’inglese Chesterton. Ma ce n’è un altro, sempre inglese, che non è ancora emerso, Tolkien, l’autore di uno dei libri più letti al mondo, Il Signore degli Anelli, che evidentemente ha raggiunto e conquistato l’attuale pontefice preso «alla fine del mondo».

Proprio sessant’anni fa, nel 1953 veniva pubblicata la prima parte della più famosa trilogia letteraria,
 La Compagnia dell’Anello, e venti anni dopo, esattamente il 2 settembre 1973, in Inghilterra, a Bournemouth, si spegneva l’autore del romanzo che già era diventato uno dei più grandi successi della storia della letteratura mondiale, al punto che Tolkien stesso pare abbia etichettato con l’espressione «deplorevole culto» il fenomeno di fanatismo che specie a partire dalla metà degli anni ’60 (quando negli Usa il romanzo uscirà in edizione paperback) aveva contagiato tutto il mondo anglofono e non solo. A quarant’anni dalla sua morte, oggi l’opera di Tolkien è universalmente conosciuta anche grazie alla cassa di risonanza dei film che il talentuoso regista neozelandese Peter Jackson è andato realizzando, arrivando a quota quattro, ma altri due stanno arrivando, e non è facile fare il punto e dare un giudizio sulla «eredità di Tolkien» (è questo il titolo del convegno che l’associazione culturale La Contea ha organizzato per il 5 settembre a Messina).

Forse il cespite più pregiato del vasto inventario di beni che Tolkien lascia ai lettori di oggi e di domani è rappresentato proprio dall’invenzione degli Hobbit. A parte questi piccoli ometti così buffi e al tempo stesso decisivi per lo sviluppo e l’esito della storia, tutto il resto (cavalli e cavalieri, torri e stregoni, foreste e incantesimi, spade, nani e draghi) Tolkien infatti non lo inventa ma lo attinge dall’immenso bagaglio degli antichi miti e delle leggende medioevali che da raffinato filologo conosceva perfettamente, ma gli Hobbit no, non si sa, non lo sa nemmeno lui, da dove sono spuntati. E gli Hobbit sono davvero molto interessanti; sono il «tocco di
 Novecento» in questa saga medioevale, sono uomini (anzi, mezzi-uomini) così comuni da essere fuori dal comune nella Terra-di-Mezzo così simile al nostro mondo; sono tutto e il contrario di tutto, forse siamo noi, lettori ad un tempo impigriti e spaesati, nostalgici non si sa bene di cosa, in quest’alba di terzo millennio. Abitano nei buchi come conigli, ma possono rivelare un coraggio da leoni, vivacchiano tra «cavoli e patate» ma vogliono incontrare «elfi e draghi», sono buffi, gretti e goffi ma tenaci e resistenti come pochi alle avversità, pieni di mille risorse ( in primis un inguaribile humour) che li rende capaci di sopravvivere ai più grandi disastri. E poi, soprattutto, sono pronti.

Readiness it’s all,
 la prontezza è tutto, diceva Amleto, e questo è vero per alcuni tra gli abitanti della Contea, la dolce e verde regione collinare dove vegetano pigramente quasi tutti gli Hobbit della mitica Terra-di-Mezzo. Per alcuni, non per tutti: Tolkien parla solo degli Hobbit più “trasgressivi” nel senso etimologico del termine, quelli che fanno il passo al di là, che, spezzando le abitudini, si mettono in cammino e viaggiano oltre i tranquilli confini della Contea.

Sono questi Bilbo e poi suo nipote Frodo Baggins con i quali «ritorna nella letteratura contemporanea l’immagine dell’uomo che è chiamato a mettersi in cammino e, camminando, conoscerà e vivrà il dramma della scelta tra bene e male». A parlare con cognizione di causa è proprio Jorge Mario Bergoglio, che ha dedicato queste parole a Bilbo e Frodo nell’omelia per la Pasqua del 2008, in cui ha parlato anche di altri viaggiatori, Enea, Ulisse e,
 soprattutto, Abramo, che «chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava» ( Ebrei 11,8), proprio come Frodo che, animato da un « corazón inquieto », parte fedele ad una missione, ad una «vocazione», di cui però non conosce molti dettagli e non controlla l’esito finale (come è noto dirà, nel grave momento della decisione: «Prenderò io l’anello, ma non conosco la strada»).

Al cardinale Bergoglio, e oggi a Papa Francesco, sta molto a cuore questo tema dell’uomo in cammino, che si mette in strada realizzando così il benefico «
 éxodo de sí mismo », proprio come dovrebbe fare una Chiesa capace di uscire dalle paludi dell’auto-referenzialità e di affidarsi ad un cammino che non è stabilito né controllato ma appunto «obbediente», che nasce cioè dall’ascolto e dall’abbandono fiducioso. (A. Monda)
Avvenire

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Affrontare il viaggio affidandosi a Dio

Quarant’anni fa, il 2 settembre 1973, J.R.R. Tolkien concludeva il proprio pellegrinaggio terreno. Per più di una ragione, tutta la sua opera letteraria, e addirittura la sua produzione scientifica, può essere considerata il racconto, o se si vuole la metafora, di un viaggio portentoso. Di Tolkien sono figure del “pellegrinaggio” le narrazioni fantastiche (e le importanti scoperte filologiche, a coronamento di elaborati percorsi di ricerca e indagine), le ambientazioni (mai definitivamente compiute), i personaggi che maturano man mano che il lettore ne approfondisce le identità (e però mai relativisticamente “in divenire”) e soprattutto la “Storia” di quel che gli mondo subcreò (fu il Tolkien filologo-narratore a coniare questo neologismo tanto denso e ricco) a immagine e somiglianza dell’unica vera creazione.
Chi lo ha compreso raffinatamente è Papa Francesco. Nell’omelia della Pasqua del 2008, l’allora arcivescovo di Buenos Aires (nonché primate di Argentina e presidente della Conferenza Episcopale Argentina) descrisse infatti acutamente gli hobbit protagonisti de Il Signore degli Anelli, cioè Bilbo Baggins e suo nipote Frodo, come coloro con i quali «ritorna nella letteratura contemporanea l’immagine dell’uomo che è chiamato a mettersi in cammino e, camminando, conoscerà e vivrà il dramma della scelta tra bene e male», paragonandone addirittura il loro viaggio periglioso ai confini del cuore umano a quello intrapreso all’alba del tempo da Abramo, il quale, «chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere ine redità, e partì senza sapere dove andava» (Ebrei 11,88).
Liberi e schietti come il patriarca dei credenti, i personaggi di Tolkien (semplici e ingenui come bambini) non hanno infatti mai contezza piena e preventiva delle dimensioni, dei pericoli e nemmeno della meta finale del loro cammino eppure si fidano. Non hanno chiara neanche la posta messa in gioco dal loro viaggio e però si affidano. E, restando fedeli a una promessa di certezza (costantemente simboleggiata da elementi che in tutto il racconto figurano la paterna assistenza del Cielo), si lasciando prendere per mano. Accade persino ai personaggi “maggiori”, come Gandalf, che pure è un angelo in sembianze umane, il quale si lascia condurre soprattutto quando esercita il compito per cui è stata mandato nel mondo: guidare i più piccoli e timorosi.
La cifra vera di ogni azione compiuta per “sana follia” dai personaggi positivi de Il Signore degli Anelli è insomma sempre il lasciarsi destinare, e quindi compiere.
D’altro canto, i personaggi negativi del racconto, dal diabolico Sauron al titanico Saruman, dagli orrendi orchi agli uomini ormai oramai resi spettri dal tumultuare delle passioni disornate, vorrebbero invece calcolare, prevedere, avere risposte e soluzioni così da poter esercitare tirannicamente il proprio potere sulle cose che invece sono gratuitamente date (e dunque inaspettate). Ed è per ciò che alla fine cadono miseramente, non sapendo aprirsi all’insolito, all’incognito, all’inatteso. Si è molto parlato e spesso sparlato dell’idiosincrasia provata da Tolkien verso tutto ciò che è meccanico e macchinoso, volendovi artatamente leggere forme di luddismo e di ecologismo più funzionali alle mode ideologiche di oggi che al vero spirito del filologo-scrittore. In realtà, ciò che Tolkien detestava (in Tolkien tutto è figura e simbolo, talvolta persino il linguaggio corrente) è la “mente di metallo e ingranaggi” (come egli dice) tipica di coloro che Edmund Burke, davanti allo scoppio della Rivoluzione Francese, chiamo “contabili e calcolatori”.
Nella narrazione tolkieniana, tutto inizia con la creazione dell’universo da parte dell’Unico Dio e punta, non certo alla fine cronologica dei tempi, quanto alla loro pienezza sostanziale, allorché la favola mitica cede il passo alla storia fattuale saldandosi con essa e soprattutto lasciando che lì “tutto si compia” con l’avvento dalla stagione degli uomini. È questo il senso de Il Signore degli Anelli (il romanzo più noto e davvero compiuto di Tolkien), cronaca degli ultimi tempi e dei tempi ultimi dell’universo subcreato tolkienano, in cui i ritmi lenti e cadenzati delle narrazioni precedenti, spalmate su anni contanti a migliaia, subiscono un’accelerazione improvvisa del ritmo narrativo, cioè della “Storia”, che ora si conta in mesi, settimane, giorni e alla fine attimi. Decisivi. Finali. Forieri di rovesci inattesi. I personaggi che della vicenda sono i protagonisti o gli antagonisti, i comprimari oppure anche solo le comparse, danno così vita a una sontuosa galleria di scelte: modelli positivi proposti all’imitazione o esempi negativi da rifuggire. Le scene che si susseguono divengono diorami di possibilità, in cui calarsi completamente per mettersi alla prova. E le lingue elfiche che ai profani paiono inutili orpelli astrusi si fanno voci di presenze. In una glossa al suo Il nome della rosa, Umberto Eco dice, a ragione, che l’Occidente letterario ha oramai scritto ogni e qualsiasi trama escluso però ancora il giallo in cui l’assassino è il lettore. Tolkien invece – parola di pontefice – ha finalmente scritto il racconto dove il protagonista è Abramo, vale a dire il lettore che, pagina dopo pagina, cammina fidandosi “follemente” di Dio.
M. Respinti

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Per non “balconear” la vita
Come parla Jorge Mario Bergoglio. 

(Jorge Milia) Nel lunfardo — il gergo tipico della città di Buenos Aires, molto usato nel tango — il verbo balconear significa "stare a guardare dalla finestra" o dal balcone. Come in italiano, descrive un atteggiamento di pura curiosità, dove non c’è partecipazione, come uno spettatore davanti al quale sta accadendo qualcosa che non lo riguarda, e quindi può permettersi di criticare sempre degli aspetti che non gli piacciono o su cui non è d’accordo; lui, comunque, non si coinvolge mai, si tiene da parte.Negli anni della nostra infanzia e adolescenza, quando il giovane insegnante Bergoglio era nostro professore, la scuola dell’Immacolata Concezione di Santa Fe partecipava con altre scuole cattoliche alla processione del Corpus Christi assieme ai fedeli. Durante il lungo percorso che attraversava tutto il centro cittadino, era comune vedere molti balconeros: famiglie che con qualche immagine religiosa e un paio di candele sul balcone attiravano l’attenzione e si dedicavano a salutare i fedeli in processione e a pronunciare dei commenti. In certe zone, quasi ogni cento metri, c’erano una o due case con delle persone che si dedicavano alla stessa "pratica". A me stupiva un po’ perché i miei nonni materni, quelli che erano ancora vivi, anche se anziani e pieni di acciacchi camminavano con i membri della loro parrocchia e non avevano mai preso in considerazione l’idea di balconear.
Un giorno ne ho parlato con un prete della scuola, e questi mi ha dato una spiegazione molto semplice: «Sono vecchie che usano la fede allo stesso modo della tintura dei capelli. La fede non si vive dal balcone ma camminando». Una frase che sarebbe ritornata alla mia memoria nel 2010 facendo il Cammino di Santiago che rimanda proprio a una Chiesa in cammino.
Quando Papa Francesco ha detto: «Non lasciate che siano gli altri i protagonisti del cambiamento, voi siete quelli che costruiscono il futuro», mi sono sentito giovane anch’io e ho pensato quanto era bello che quella gioventù piena di speranze oggi lo capisse e fra trenta o quarant’anni ricordasse le sue parole e facesse il bilancio dei risultati. Poi, quando ha insistito con i giovani invitandoli a non balconear, a tuffarsi nella vita come ha fatto Gesù, ho provato una grande tenerezza e una profonda ammirazione per quell’amico al quale li veniva fuori dal profondo dell’anima il suo porteño (la parlata infarcita di lunfardo tipica degli abitanti di Buenos Aires).
Per Papa Francesco — ed è difficile che ci sia qualcuno che non lo capisca — il cristiano è protagonista, non spettatore.
In poco tempo ci ha dimostrato che dall’unico balcone dal quale si può partecipare è dalla loggia di San Pietro alla quale si è affacciato una sera piovosa un Papa che veniva dalla fine del mondo e che ha salutato tutti quelli che lo aspettavano con un semplice «Buona sera», e ha conquistato il cuore del mondo chiedendo di pregare per lui.
L'Osservatore Romano

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Settimo cielo - blog
(Sandro Magister) Si sa che papa Francesco usa molto il telefono, a differenza dei predecessori che vi ricorrevano con parsimonia e dai quali ricevere una telefonata diretta era una rarità. Ma ora sappiamo anche che egli ama scherzare su questa sua irresistibile (...)